Il nuovo numero di “Parolechiave”, dedicato alla finanza, ricostruisce l’affermarsi del capitalismo finanziario attuale, ne esplora gli elementi chiave e le conseguenze su società e politica
Curato da Ester Fano e da Maurizio Franzini, “Parolechiave” presenta articoli di Vincenzo Comito, Lapo Berti, Raffaele Bifulco, Francesco Bogliacino, Virginia Maestri, Mario Pianta, Michele Raitano, Francesco Vona, Paolo Naticchioni, Paolo Piacentini, Alfonso Scarano. Presentiamo alcune parti dell’articolo di apertura del volume di Maurizio Franzini
L’affermarsi del capitalismo finanziario può dare conto in modo non marginale delle manifestazioni più gravi del fallimento del capitalismo contemporaneo: la bassa (e cattiva) crescita economica, le crescenti (e decisamente non giustificabili) disuguaglianze, l’esposizione a crisi e instabilità. E, soprattutto, una nuova dislocazione dei centri di potere per effetto di un nuovo balance of public and private power.
La trasformazione del capitalismo occidentale è iniziata già a metà degli anni Settanta e ha raggiunto la sua pienezza negli anni Novanta. In quest’ultimo decennio ha preso definitivamente forma il “capitalismo finanziario” nel quale la finanza svolge un ruolo ben diverso da quello di “servizio” dell’economia reale e del benessere sociale che essa potrebbe svolgere, il quale è l’unico previsto nelle rappresentazioni, oramai del tutto “ideologiche”, dei mercati finanziari ancora oggi dominanti in molti testi di economia e in molte interpretazioni dei sistemi economici contemporanei. In effetti, la finanza serve a far pervenire risorse a chi intende realizzare progetti di investimento buoni ma non disponga delle risorse necessarie. In questa funzione può anche sostenere l’innovazione, come nella ben nota visione schumpeteriana del capitalismo. Inoltre, la finanza permette di limitare alcuni rischi a cui ciascuno è esposto e, più in generale, può favorire una più efficiente divisione del lavoro. Questa è la finanza buona che, però, è decisamente minoritaria nel capitalismo finanziario.
Quest’ultimo si caratterizza per alcuni cruciali assetti istituzionali che sono diversi, se non opposti, rispetto al passato; in particolare, sono diversi il grado di autonomia e l’efficacia delle politiche economiche, le modalità della governance delle imprese e anche il funzionamento dei mercati. Queste diversità producono effetti significativi, quasi sempre negativi, sulla capacità del capitalismo di assicurare la crescita dell’economia, la sua stabilità e sostenibilità, oltre che l’eguaglianza e l’inclusione sociale. Soprattutto, esse denotano uno stato di crescente tensione tra economia e democrazia che è, forse, la manifestazione più grave e preoccupante del fallimento di cui si è detto in precedenza. In tutto questo la finanza ha avuto e ha un ruolo cruciale: perché è, essenzialmente, ricchezza che produce (spesso perversamente) ricchezza e perché, in quanto tale, piega il funzionamento dei mercati a logiche di potere – minando la loro legittimazione come istituzioni al servizio del benessere sociale – e contribuisce a dislocare il potere dal pubblico al privato.
Non è, dunque, la semplice presenza della finanza a caratterizzare il capitalismo finanziario e a farlo apparire diverso dai modelli che lo hanno preceduto. Piuttosto, è la funzione che essa svolge e la sua straordinaria “forza” – incorporata nelle istituzioni che ad essa si dedicano – nel condizionare i mercati, la politica e la società. La sintetica formulazione di Shiller è decisamente appropriata: il capitalismo finanziario è quella forma di capitalismo che è guidata dalle istituzioni finanziarie. Cerchiamo innanzitutto di ricostruire brevemente l’origine di questo capitalismo, i processi che hanno portato alla sua affermazione, cominciando da quelli più rilevanti: la liberalizzazione dei movimenti di capitali e il depotenziamento delle politiche nazionali nella loro capacità di guidare
l’economia. Successivamente esamineremo i cambiamenti nelle caratteristiche dei mercati e nella governance delle imprese. Infine, mostreremo le interrelazioni tra questi cambiamenti, le conseguenze che essi hanno avuto sul funzionamento del capitalismo occidentale e sui risultati a cui esso conduce (…).
Le conseguenze economiche del capitalismo finanziario
La prima conseguenza che il capitalismo finanziario ha prodotto è il rallentamento del potenziale di crescita economica nel lungo periodo. Le ragioni di questo impatto negativo sono molteplici: la insistita strategia di scelte di breve periodo dei manager delle imprese produttive, con danni per il processo innovativo e per gli investimenti di lungo termine; la tendenza a scelte troppo rischiose da parte dei manager delle istituzioni finanziarie; gli elevati rendimenti degli investimenti finanziari che sottraggono capitale agli investimenti produttivi; le alte retribuzioni pagate ai dipendenti del settore finanziario che attirano capitale umano qualificato, con la conseguenza di sottrarlo al settore reale dell’economia, peggiorando, anche per questa via, le potenzialità di crescita di quest’ultimo.
In realtà può essersi verificata anche una causazione opposta: il tendenziale, pre-esistente, rallentamento della crescita economica e le ridotte remunerazioni del capitale negli impieghi produttivi possono, loro, avere favorito la crescita della finanza e il peso sempre maggiore del settore finanziario. Sono, al riguardo, interessanti le considerazioni di Gordon, riferite agli Stati Uniti, ma che è possibile estendere anche ad altri paesi. In particolare, egli sottolinea come la terza rivoluzione industriale (quella basata su computer, Web e cellulari) ha dato alla crescita un contributo quantitativamente limitato e temporalmente circoscritto al periodo compreso tra il 1996 e il 2004. D’altro canto, la seconda rivoluzione industriale, basata principalmente su elettricità e motore a combustione, ha avuto effetti secondari prolungati nel tempo che si sono, però, esauriti negli anni Settanta. In breve, il capitalismo finanziario sembra essersi affermato proprio nella fase di esaurimento della spinta propulsiva della seconda rivoluzione e, prima che si manifestassero gli effetti della terza rivoluzione industriale, peraltro piuttosto deboli. Quest’ultima rivoluzione, a ben guardare, ha contribuito, più che a sostenere la crescita economica, ad accrescere le disuguaglianze, come risulta anche dal contributo di Naticchioni e Piacentini in questo numero di “Parolechiave”.
Nel complesso può essersi verificata, come sostengono alcuni, una tendenziale riduzione del tasso di profitto (Brenner, 1998) che può avere avuto la conseguenza, da un lato, di rallentare il processo di crescita e, dall’altro, di spingere verso la ricerca di più alte remunerazioni per il capitale in ambito strettamente finanziario. Dunque tra crescita economica e alcune caratteristiche distintive del capitalismo finanziario possono esservi reciproche e perverse interazioni.
Per quello che riguarda l’indebolimento della stabilità e la tendenza del sistema a generare crisi, i fattori cruciali sono, da un lato, il progressivo infragilirsi del sistema finanziario a causa del peso sempre maggiore dei debiti e, dall’altro, i problemi che sorgono per gli effetti negativi che la crescente disuguaglianza può avere sulla domanda di consumo. In ogni caso, sembra oramai largamente riconosciuto che il capitalismo finanziario ha caratteristiche che lo espongono a un rischio molto elevato di instabilità.
Infine, il capitalismo finanziario è profondamente disegualitario sia in via diretta che indiretta. Per via diretta rende sempre più importante la ricchezza ereditata o accumulata, come fattore di decisiva importanza per le disuguaglianze (si veda il saggio di Bogliacino e Maestri in questo numero di “Parolechiave”) e contribuisce in modo decisivo a trasformare le origini familiari in una causa decisiva di disuguaglianza, come risulta anche dal saggio di Raitano e Vona (anch’esso in questo numero della rivista). Il capitalismo finanziario accresce, però, le disuguaglianze anche in via indiretta, per le possibilità che apre a forme di arricchimento ben poco meritocratiche, come quelle che si sono ricordate in precedenza, o tali da assicurare redditi enormi a chi opera sui mercati speculativi con la promessa, non necessariamente mantenuta, di valorizzare il capitale altrui. Senza il capitalismo finanziario le disuguaglianze di reddito e di ricchezza che oggi osserviamo nella gran parte dei paesi occidentali sarebbero minori e non sarebbero cresciute così marcatamente nel corso degli ultimi due decenni.
In questo sistema è forte il rischio che si crei, come osserva Piketty, una classe di super-ricchi transnazionali che può costituirsi come un’oligarchia a livello mondiale, superando la storica tendenza ad affidare l’egemonia a nazioni e a paesi, piuttosto che a gruppi di persone appartenenti a paesi diversi, collegate tra loro dalla ricchezza e dal comune interesse a proteggerla. Ma anche indipendentemente da questa inquietante prospettiva, le implicazioni del capitalismo finanziario per la dislocazione del potere e per la democrazia meritano un approfondimento.
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