Non è vero che l'interesse individuale muove il mondo, non è vero che non c'è altro mondo possibile. La road map di Kaushik Basu “oltre la mano invisibile, per una società giusta”
Di questi tempi, con l'Europa a testa in giù, c'è davvero bisogno di scrivere 369 pagine fitte fitte per dimostrare che il modello economico dominante è fallito? Kaushik Basu pensa di sì, e riempie pagine, librerie e conferenze come astro ormai affermato di quella galassia che è stata definita, con un po' di ironia, degli economisti-guru. Gli economisti popolari, quelli come Krugman, Stiglitz, Sen, quelli che raccontano un'altra verità e finalmente possono gridarla ai quattro venti, ingaggiando anche epiche lotte accademiche contro la scuola di pensiero che tuttora domina università, centri di ricerca e cenacoli governativi. Nel raccontarla, spesso sono brillanti e anche spiritosi, non disdegnano il linguaggio semplice, strizzano l'occhio al coltissimo ma si fanno capire bene anche da chi si è tenuto sempre lontano dalle aule degli algoritmi dell'economia formalizzata. Così è Basu, economista indiano ben inserito nel mondo dell'ortodossia – docente alla Cornell University, senior vicepresident ed economista-capo della Banca mondiale -, autore di un libro eterodosso: Oltre la mano invisibile – ripensare l'economia per una società giusta. Un libro che dichiara nel titolo l'intento di “dimostrare che la scienza che ci ha donato Adam Smith si è fossilizzata in un'ideologia”. Per farlo, compie una dettagliata esplorazione e confutazione della teoria dominante, smantellando dall'interno l'individualismo metodologico che di tale teoria è base e cornice. Nella narrazione, intreccia continuamente logica, teoria economica, storielle popolari e letteratura (quanti sono gli economisti che citano Kafka?). Per arrivare infine a tre proposte concrete e un po' eversive per affrontare quello che lui considera il problema economico n. 1: la povertà.
Tra la povertà e certe idee sbagliate dell'economia c'è un nesso per Basu evidente. “La povertà che esiste oggi nel mondo ha dimensioni inaccettabili. Se il mondo non esplode contro questa ingiustizia è per via degli smisurati sforzi intellettuali profusi per farla apparire accettabile”. E gran parte di tali smisurati sforzi intellettuali ruota attorno all'originario teorema della mano invisibile: quello per cui la somma dei comportamenti singoli spinti dall'interesse egoistico dell'individuo porterà al benessere maggiore per la società nel suo insieme. Ne sono derivati, con costruzioni teoriche via via più sofisticate, varie conseguenze normative tutte tra loro coerenti: che l'iniziativa individuale va limitata e condizionata il meno possibile; che è il mercato a permettere la sistemazione più efficiente delle risorse; che bisognerebbe evitare di intromettersi nei mercati; e che questo è il migliore dei mondi possibili, non essendoci la prova di altri funzionamenti altrettanto perfetti. Se dunque, per avere un'economia efficiente, dobbiamo sopportare un certo grado di diseguaglianza e povertà, rassegniamoci: altre strade sarebbero peggiori, alcune hanno già dimostrato di esserlo.
Senonché, esiste anche un'altra narrazione della mano invisibile. È quella del Processo di Kafka, quella che guida, da posizione occulta, le avventure di Joseph K. “Kafka concorda con Smith riguardo alle forze che possono essere scatenate dalle azioni individuali atomistiche, senza nessuna autorità centrale, ma – scrive Basu - allarga la nostra visione mostrandoci che possono essere non solo forze di efficienza, di organizzazione e di benevolenza, ma anche forze di oppressione e malevolenza”. E se la benevola mano invisibile di Smith può trasformarsi, passando dai modelli economici alla realtà, nella oppressiva mano invisibile di Kafka è perché quella teoria è difettosa, per tanti motivi che l'economista indiano va ad elencare, si può dire, “dall'interno”: confutando gli assiomi non dichiarati, rileggendo i teoremi e i nessi della teoria dei giochi, applicando all'estremo le stesse teorie e gli stessi modellini che contesta. Non è un libro facile, in questi passaggi. Ma il lettore viene condotto a scoprire, per varie strade, che “gli smisurati sforzi intellettuali” dell'economia hanno sistematicamente e dolosamente saltato un passaggio, un dettaglio, un dato della nostra realtà: siamo individui sociali, viviamo con altri, dentro una storia, e la rete delle nostre relazioni e costruzioni sociali determina il nostro comportamento tanto quanto la spinta ad avere la massima soddisfazione individuale possibile. “Ci sono prove a sufficienza, oltre che ragioni a priori, per credere che gli esseri umani siano capaci di non sfruttare ogni opportunità per il proprio guadagno personale”. E dunque ci sono “indizi a sufficienza per sostenere che una società migliore ed enormemente più equa è realizzabile”.
Ma attenzione. Basu non è un incendiario, così come accompagna la demolizione delle teorie dell'individualismo metodologico “dall'interno” consiglia un'azione prudente e sapiente per contrastare le diseguaglianze inaccettabili. “Forse la costruzione di una società migliore non sarà una faccenda di azioni improvvise e iniziative politiche di amplissimo respiro, ma una lenta evoluzione con qualche spintarella deliberata da bordo campo”. La sua prudenza è già nell'individuazione dell'obiettivo: le nostre società sono diventate più diseguali e ingiuste, ma, dice l'economista indiano, è inutile prendere di mira, in prima istanza, la diseguaglianza in sé: diamoci piuttosto l'obiettivo del “quintile più povero”, cioè valutiamo tutte le politiche e le scelte pubbliche sulla base della loro capacità di aumentare il reddito pro capite del 20% più povero della popolazione, a livello mondiale. Per raggiungere questo obiettivo, l'economista della Banca mondiale avanza tre proposte. La prima farebbe saltare sulla sedia tutt'intero il nostro ceto politico, che da destra a sinistra (più a destra che a sinistra, ovviamente) si è adoperato per abolire le tasse di successione: gran parte dell'inaccettabile diseguaglianza nel mondo passa per la trasmissione delle enormi eredità, consentire ai ricchi di disporre interamente del proprio patrimonio alla propria morte vuol dire “avere un sistema di caste legalmente autorizzate o un apartheid supportato dallo Stato”. Dunque Basu propone meccanismi, abbastanza radicali, per evitare l’intera trasmissione della ricchezza per via ereditaria, giungendo fino a ipotizzare una “socializzazione” dei grandi patrimoni alla morte dei Paperoni. Seconda proposta: un organismo internazionale per la riduzione della povertà e la lotta alle disuguaglianze, sul modello Wto o Ilo. Terzo: partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese, non a livello aziendale (modello tedesco), o territoriale, o nazionale, ma a livello mondiale. Vi pare troppo? Certamente lo è, “per quelli che hanno interesse al mantenimento del sistema attuale”. Ma per chi non ha tale interesse, lo scopo di Basu è “stendere la road map intellettuale per tale ambizioso progetto e sviluppare una grammatica del dissenso”.
(articolo pubblicato anche su IlBo magazine: www.unipd.it/ilbo/content/vecchie-idee-ricchi-nuove-idee-poveri)
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