Pubblichiamo uno stralcio del Rapporto sullo Stato sociale curato da Felice R. Pizzuti presentato a Roma il 14 giugno con la partecipazione del ministro del lavoro Enrico Giovannini
Le politiche previdenziali degli ultimi due decenni, fino agli ultimi provvedimenti del dicembre 2011, hanno generato un assetto del nostro sistema previdenziale che presenta molti limiti i cui effetti negativi si estendono al funzionamento del complessivo sistema economico. Nell’ambito di un più generale cambiamento di politica economica che sarà necessario per superare positivamente la crisi, anche il settore previdenziale richiederà una revisione dei criteri d’intervento finora seguiti. Qui di seguito vengono sinteticamente richiamate alcune delle indicazioni propositive esposte nel capitolo 4 del Rapporto.
A. La prima questione da chiarire riguarda i ruoli da assegnare al sistema pubblico e a quello privato. La crisi globale, in particolare la sua dimensione finanziaria, dovrebbe aver fatto definitiva chiarezza sulla inconsistenza del cosiddetto approccio dei «tre pilastri» sostenuto da organismi internazionali come la Banca Mondiale e diffuso in varia misura nella generalità dei paesi occidentali. Sotto questa dizione, nell’ultimo trentennio si è affermata la posizione che fosse opportuno e conveniente uno sviluppo dei sistemi privati a capitalizzazione ‒ collettivi (il secondo pilastro) e individuali (il terzo) ‒ in buona misura sostitutivo di quelli pubblici a ripartizione. Ma di recente la stessa Banca Mondiale ha dovuto rivedere questa posizione (1). La comprovata maggiore stabilità delle prestazioni e i costi nettamente minori che caratterizzano il nostro sistema pubblico a ripartizione rispetto ai fondi privati indicano che al primo debba essere assegnato il compito di fornire obbligatoriamente a tutti i lavoratori una copertura pensionistica adeguata.
L’assetto attuale del nostro sistema pubblico non lo rende idoneo a svolgere quel compito. Perché lo diventi, nel rispetto degli equilibri finanziari e della trasparente distinzione tra componenti previdenziali e assistenziali, nel metodo di calcolo contributivo vanno inseriti meccanismi solidaristici a carico della fiscalità generale. D’altra parte, è doveroso differenziare i coefficienti di trasformazione in rapporto alle diverse aspettative di vita connesse alle differenti condizioni sociali e di lavoro per eliminare le iniquità attuariali che attualmente penalizzano i lavoratori con le carriere lavorative più usuranti.
Il sistema pubblico deve offrire tassi di sostituzione correlati alla lunghezza della vita lavorativa e all’età di pensionamento, consentendo un adeguato grado di continuità della pensione rispetto ai redditi da lavoro. Tuttavia, nell’assetto attuale ‒ dal combinato disposto dei limiti di crescita e occupazionali del sistema produttivo, delle regole contrattuali presenti nel mercato del lavoro e dei meccanismi di calcolo delle prestazioni pensionistiche ‒ il sistema pensionistico pubblico non sarà in grado di assicurare pensioni sufficienti a gran parte dei lavoratori in attività. Ciò è particolarmente vero per le generazioni più giovani con carriere lavorative più precarie i quali, anche a seguito degli aumenti dell’età di pensionamento decisi con le ultime riforme pensionistiche, sono penalizzate non solo per il futuro, ma anche nell’attuale ricerca del lavoro e, dunque, nell’accumulo dei contributi previdenziali.
Il sistema pubblico deve assicurare ai lavoratori un reddito in sé sufficiente per vivere dignitosamente negli anni della vecchiaia, indipendentemente dagli eventuali periodi di disoccupazione involontaria e/o di contribuzione ridotta che vanno coperti con contributi figurativi a carico della fiscalità generale. Occorre stabilire una pensione «garantita» che potrebbe essere di 900 euro mensili in caso di ritiro all’età di vecchiaia e con 42 anni di anzianità di presenza nel mercato del lavoro; la cifra potrebbe aumentare o diminuire in caso di ritiro posticipato o anticipato. E in ragione di una maggiore o di una minore anzianità contributiva reale e figurativa.
B. Tenendo anche conto delle specificità del nostro sistema economico ‒ caratterizzato da molte piccole e medie imprese non quotate in Borsa e dalle ristrettezze del nostro settore finanziario ‒ i fondi a capitalizzazione, specialmente i negoziali che hanno minori costi di gestione rispetto a quelli aperti e alle polizze individuali, possono svolgere un’utile funzione di copertura aggiuntiva, ma non sostitutiva, per coloro che nell’età attiva dispongano di ulteriore risparmio da destinare all’incremento della loro pensione.
Precisato il ruolo addizionale della previdenza complementare, andrebbe data la possibilità a ciascun lavoratore che voglia incrementare la sua pensione obbligatoria di scegliere liberamente tra tutti i canali previdenziali esistenti; ognuno dovrebbe avere la facoltà non solo – come oggi è limitato a fare – di aderire ai fondi privati chiusi e aperti e ai piani pensionistici individuali, ma anche di incrementare la copertura pensionistica dello stesso sistema pubblico aumentando, nella misura e per il tempo preferiti, l’aliquota contributiva. Il metodo contributivo si presterebbe benissimo a questo ulteriore compito che non richiederebbe nessun costo gestionale aggiuntivo.
Peraltro, la reversibilità della scelta di finanziare una copertura pensionistica aggiuntiva andrebbe estesa anche alle adesioni ai fondi pensione che, invece, oggi sono irreversibili.
L’ulteriore possibilità di utilizzare anche il sistema contributivo pubblico nell’impiego del risparmio previdenziale aggiuntivo, oltre a introdurre un elementare principio di libertà individuale nelle scelte finanziarie, avrebbe ulteriori e significativi effetti positivi: la previdenza complementare come oggi è concepita, nonostante gli incentivi ricevuti, ha attirato un quarto degli aderenti potenziali; non è poco, ma è meno sensibilmente del 40% che era stato previsto dal governo quando varò il metodo d’adesione del «silenzio-assenso». Questo divario dipende da varie cause, in primo luogo dalla scarsità di risorse finanziarie da parte dei lavoratori; tuttavia, la disponibilità di un canale d’investimento previdenziale aggiuntivo i cui rendimenti non sono legati all’instabilità delle Borse e, in più, la reversibilità delle scelte, aumenterebbero positivamente il risparmio a fini pensionistici.
Così come avviene per le adesioni ai fondi pensione, anche i rendimenti e le conseguenti prestazioni derivanti da questo risparmio aggiuntivo dovrebbero essere messi al riparo da qualsiasi riforma del sistema pensionistico pubblico.
Sempre per omogeneità di trattamento, il finanziamento della maggiore aliquota versata al sistema pubblico dovrebbe poter utilizzare anche il Tfr e i contributi delle imprese, al pari di quanto avviene con l’adesione ai fondi pensione negoziali.
Immaginando che le attuali adesioni ai fondi pensione privati non diminuiscano (cosa che invece sta succedendo) e che dei rimanenti tre quarti di aderenti potenziali solo la metà decida di versare con continuità al sistema pubblico quanto oggi viene versato dagli iscritti ai fondi pensione, essi maturerebbero un aumento di circa 7 punti del loro tasso di sostituzione; come effetto «collaterale», ma di grande interesse specialmente in questo periodo, ci sarebbe un aumento delle entrate annue del bilancio pubblico pari a circa l’1,4% del Pil. In un sol colpo aumenterebbe la copertura pensionistica e migliorerebbe il bilancio pubblico.
C. Tutti i fondi pensione della previdenza complementare attualmente gestiscono un patrimonio di circa 100 miliardi di euro, che è costantemente in crescita; il flusso annuo di contributi è di circa 12 miliardi, di cui oltre 5 vengono dal Tfr. Come si è visto ‒ a causa della ristrettezza della Borsa italiana dove le nostre imprese, per lo più medio- piccole, hanno scarsa disponibilità a quotarsi ‒ solo una parte irrisoria di questo risparmio previdenziale torna al nostro sistema produttivo mentre circa il 70% è investito all’estero. Nel 2011, il capitale dei fondi pensione impiegato in titoli di stato italiani è calato a seguito della crisi dei debiti sovrani, ma è stato comunque pari a 18 miliardi; i soli fondi negoziali ne detenevano 6,6 miliardi ma attualmente la cifra è sensibilmente risalita.
Dunque, i fondi pensione assorbono risparmio previdenziale che in gran parte se ne va all’estero a finanziare i nostri concorrenti e la parte che rimane in Italia è investita fondamentalmente in titoli del debito pubblico. Naturalmente, fermo rimanendo il compito primario dei fondi di garantire al meglio la pensione ai loro iscritti, sarebbe auspicabile che una parte maggiore delle risorse da essi gestite rimanesse nel nostro paese e contribuisse a migliorare le sue strutture produttive e sociali; a tal fine, sindacati, imprese e stato potrebbero concordare nuove modalità d’investimento costituite da attività creditizie dei fondi pensione a favore dello stato, pensate ad hoc, con l’eventuale emissione di speciali titoli pubblici sottostanti, al fine di perseguire due obiettivi.
In primo luogo, andrebbero ottimizzati i rendimenti di questi investimenti e la loro stabilità, corrispondendo così alle specifiche esigenze del risparmio previdenziale che è un bene meritorio; il maggiore stimolo per i fondi pensione a erogare prestiti allo stato costituirebbe per quest’ultimo una più ampia fonte di finanziamento, con effetti benefici anche sui tassi d’interesse. Questi prestiti potrebbero essere gestiti eliminando anche i costi d’intermediazione dei gestori finanziari la cui funzione, invece, rimane necessaria per tutti gli altri tipi d’investimento dei fondi pensione onde evitare i pericolosi conflitti d’interesse che in altri paesi hanno provocato clamorosi casi di ingente distruzione di risparmio previdenziale dei lavoratori.
Realizzare questo primo obiettivo sarebbe già un apprezzabile risultato finanziario, ma potrebbe favorirne un secondo più ambizioso ‒ di tipo economico, sociale e politico ‒ se il maggior flusso di risorse diretto verso il settore pubblico avesse una destinazione d’uso specifica, ovvero se le associazioni delle imprese, i sindacati dei lavoratori e lo stato, coerentemente alla natura di lungo periodo del risparmio previdenziale, concordassero di investirlo in specifici progetti di rinnovamento delle infrastrutture sociali e produttive il cui costante degrado è tra le principali cause del nostro «declino». Dunque, stato e parti sociali, collaborerebbero nella definizione di un Piano di sviluppo economico e sociale del paese nonché di ampliamento della democrazia economica istituzionale (cioè con e non fuori o contro le istituzioni), utilizzando risparmio previdenziale raccolto dai fondi pensione cui garantirebbero rendimenti migliori e più stabili.
D. L’assetto attuale delle forme di regolamentazione e controllo pubblico dell’attività dei fondi pensione richiede diversi aggiustamenti.
Oltre alla necessità già ricordata d’introdurre la reversibilità delle adesioni, andrebbe modificata la normativa fiscale caratterizzata attualmente da aliquote molto basse ‒ che contrastano con le esigenze del bilancio pubblico, fatte valere invece per effettuare prelievi sul sistema pubblico ‒ e da elementi di regressività generati dalla deducibilità dei contributi che favorisce gli aderenti ai fondi con redditi e aliquote d’imposta marginali superiori.
La trasparenza e la sicurezza nella gestione dei capitali dei fondi richiede che venga ribadita e controllata la divisione dei compiti tra i loro amministratori e i gestori finanziari per garantire i requisiti di professionalità nelle scelte allocative e metterle a riparo dai rischi di conflitti d’interesse.
In linea con il contesto teorico e ideologico neoliberista che negli ultimi trent’anni ha favorito una abnorme finanziarizzazione dell’economia, la gestione dei fondi pensione è oggetto di modifiche regolamentari che tendono ad accentuarne la natura finanziaria a discapito di quella previdenziale.
La revisione del regolamento sui criteri e i limiti d’investimento delle risorse dei fondi pensione proposta dal Ministero del Tesoro, pur essendo stata fortunatamente congelata dalla crisi del governo Monti, indica la persistenza della pericolosa tendenza – resa sempre più anacronistica dalle vicende finanziarie della crisi ‒ a interpretare il risparmio previdenziale come passibile di impieghi anche molto rischiosi quali «la gestione diretta in strumenti non negoziati nei mercati regolamentati» e «l’uso di contratti derivati» (2).
È necessario invece invertire questa tendenza, accentuando la prudenza nelle scelte allocative come criterio più appropriato per la gestione del risparmio previdenziale.
Occorre dare una più credibile e corretta informazione ai lavoratori iscritti ai sistemi pensionistici privati circa l’entità delle prestazioni pensionistiche attese. A tal fine andrebbe evidenziata prioritariamente e chiaramente l’aleatorietà di qualunque previsione economica di lungo periodo, sottolineando le diverse combinazioni rischio/rendimento connesse ai differenti canali pensionistici.
Il calcolo dei possibili valori delle pensioni attese andrebbe comunque fatto pro- ponendo un’estesa pluralità di scenari di simulazione, periodicamente aggiornati dal- le autorità pubbliche. Attualmente, invece, i fondi pensione, su precisa indicazione della Covip, devono prospettare il valore delle pensioni che matureranno a favore degli iscritti utilizzando come unica ipotesi che i rendimenti degli investimenti saranno, nell’intero periodo contributivo, pari al 4% reale annuo per gli impieghi azionari e del 2% reale annuo per gli impieghi obbligazionari e in titoli di stato. I fondi vengono dunque a trovarsi nella condizione di dover prospettare prestazioni che sono molto aleatorie e ottimistiche.
Le più recenti direttive gestionali emanate dalla Covip e le nuove funzioni finanziarie attribuite agli organi dei fondi richiederanno maggiori oneri organizzativi e responsabilità più consistenti anche per le parti istitutive.
Tutto ciò accentua particolarmente l’incongruenza dell’attuale elevato numero di fondi pensione per alcuni dei quali le dimensioni eccessivamente ridotte si traducono inevitabilmente in una elevata incidenza dei costi.
La necessità di una maggiore attività d’informazione, controllo e trasparenza nel settore della previdenza privata è resa particolarmente evidente anche dalla constatazione che, negli ultimi anni, mentre la crisi ha ridotto le iscrizioni dei lavoratori ai fondi negoziali, contemporaneamente sono aumentate le adesioni alle polizze individuali le quali, tuttavia, hanno costi di gestione che, mediamente, sono oltre sette volte superiori: l’1,5% annuo del patrimonio rispetto allo 0,2% dei fondi negoziali per un periodo di permanenza dell’assicurato nel fondo di 35 anni; e mentre un costo dello 0,5% annuo riduce il montante accumulabile in 30 anni del 14%, un costo annuo dell’1,5% lo riduce del 36%.
(1) Una critica puntuale di questo approccio è stata fatta nel Rapporto sullo Stato Sociale 2010.
(2) Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro. Direzione IV- Ufficio IV: Consultazione sullo schema di regolamento ministeriale recante norme sui criteri e i limiti di investimento delle risorse dei fondi pensione e sulle regole in materia di conflitti di interesse, 29 maggio 2012.
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