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La società "post-sindacale"

16/10/2015

Se sono morte le grandi narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da collaborazione

Che il sindacato fosse in crisi lo sapevamo da tempo. Ma pensare di essere già entrati nella società post-sindacale, questo ancora non lo avevamo immaginato, né lo ritenevamo possibile. Eppure, se ha ragione Dario Di Vico (Più tutele in cambio di produttività. Benvenuti nella società post-sindacale, nel Corriere della sera del 27 settembre) questo è quanto si starebbe verificando e questo è negli obiettivi (o nei sogni) degli industriali – ma un incubo per la società e per la democrazia, perché se viene meno uno dei soggetti forti della rappresentanza del lavoro, se si scioglie anche il sindacato insieme alla società civile, se il sistema non ha più corpi intermedi, se viene meno il bilanciamento del potere dell’impresa, allora entriamo non solo in una società post-sindacale ma, e peggio in una società (non tanto post-democratica quanto) non-più-democratica. E allora vediamo di capire cosa sia o cosa potrebbe essere questa società post-sindacale e soprattutto se sia una rottura/cesura col passato o non sia invece, e piuttosto l’ultimo pericolosissimo stadio di un processo di incessante divisione/scomposizione del lavoro per la sua successiva totalizzazione/integrazione in un apparato d’impresa, di rete, di consumo. Un processo iniziato con la prima rivoluzione industriale (la fabbrica di spilli di Adam Smith, per semplificare), transitato per fordismo e taylorismo e organizzazione scientifica del lavoro, arrivato al toyotismo e ora alla rete.

La società post-sindacale: un obiettivo antico

Scrive Dario Di Vico: «A condurre il sindacato verso l’irrilevanza è un’erosione combinata nella capacità di leggere il mutamento, nell’autorevolezza e nella rappresentatività. Se proprio volessimo trovare un incipit di questo declino potremmo prendere quel carrello della spesa che nel 2009 Leonardo Del Vecchio decise di distribuire ai suoi dipendenti per attutire i colpi della crisi. (…) Il segnale era chiaro: gli imprenditori riprendevano l’iniziativa sociale, non lasciavano più il monopolio della difesa del reddito dell’operaio al sindacato e arrivavano a una politica di scambio nuova. Tutele in cambio di produttività». Dunque, il welfare aziendale: che nella strategia di Confindustria, secondo Di Vico avrà un ruolo sempre più importante perché capace anche di surrogare quote di salario. «E’ chiaro che siamo solo alle prime battute», ma questi sono i discorsi che si sentono fare tra gli industriali, continua Di Vico, perché: «L’azienda di domani sarà una comunità che deve obbedire al mercato, agire dentro le leggi vigenti ma coltivando la responsabilità sociale verso i propri dipendenti, anzi collaboratori. (…) Tenta di costruire una società più giusta con meno sindacato, un’equazione che, finora, è stata considerata una bestemmia». Dunque, non il sindacato ma l’impresa difende i lavoratori, un’impresa che si fa sociale, responsabile, che considera i lavoratori come collaboratori, che si fa comunità (ma che deve obbedire al mercato). Quello che però racconta Di Vico è vecchio, sa di paternalismo padronale (si legga la storia del Villaggio Crespi, a Crespi d’Adda), anche se oggi potremmo ridefinirlo (fa tanto nuovo e post-moderno) paternalismo 2.0. Anche l’idea di una impresa come comunità è antica, come pure l’idea di trasformare il lavoratore in collaboratore. Ma siamo anche al perfezionamento dell’ordoliberalismo tedesco & del neoliberismo statunitense, ovvero a una società da intendere e da vivere come mercato, l’impresa come soggetto forte e modello non solo economico e sociale/individuale ma anche di organizzazione politica e istituzionale (la riforma costituzionale di Renzi), la competizione invece della solidarietà, il lavoro e l’impresa come vocazione/beruf, la produttività come mantra interiorizzato da ciascuno, l’economia come vita a mobilitazione totale. Ma procediamo con ordine.

Suddivisione e individualizzazione del lavoro

La fabbrica di spilli di Adam Smith, appunto; secondo il quale la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni arte un aumento proporzionale della capacità produttiva del lavoro. Replicava Tocqueville (nel 1835): con il progredire della divisione del lavoro, l’operaio diventa sempre più debole, più limitato e meno indipendente: l’arte fa progressi, ma l’artigiano regredisce. L’uomo si avvilisce a misura che l’operaio si specializza. (…) egli non appartiene più a se stesso ma al mestiere che si è scelto. O che ha dovuto accettare. Ma Smith ha vinto e Tocqueville ha perso.

Alienazione, dunque. Come nella catena di montaggio di Ford (1913), come i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor tra cui vi era quello di definire i compiti da assegnare ai lavoratori e nel farli eseguire, stabilendo il tempo esatto per la loro esecuzione. Con il toyotismo tutto sembra cambiare, cresce l’autonomia degli operai (la loro auto-attivazione e quella delle macchine), ma sempre di catena di montaggio si tratta, semmai tutto deve essere fatto just in time e con maggiore sincronizzazione. Con la rete poi questo processo di individualizzazione e di suddivisione del lavoro cambia nella forma e nelle retoriche che lo sostengono - si parla infatti di wikinomics, di condivisione, di lavoro di conoscenza, di capitalismo intellettuale, Gorz scriveva di lavoro immateriale, tutti noi sociologi abbiamo favoleggiato di post-fordismo – ma non nella sostanza e siamo passati dal fordismo concentrato nelle grandi fabbriche al fordismo territorializzato dei distretti e della piccola impresa, del toyotismo e dell’impresa snella e del capitalismo molecolare di Bonomi e ora al fordismo personalizzato (partite iva, lavoratori free-lance, capitalisti personali, makers) in rete e via rete, se è vero che il lavoro in rete si svolge grazie ad un personal computer, che il taylorismo digitale è ben più presente e diffuso del lavoro di conoscenza, che anche la sharing economy e il lavoro uberizzato (per non parlare del modello Amazon) sono poco diversi dal vecchio fordismo-taylorismo, con la sola differenza che oggi l’assegnazione dei compiti e dei tempi di lavoro viene comandata a distanza grazie a un device, ma ciascuno (a parte una ristretta frazione del mercato del lavoro) è comunque sub-ordinato ad una qualche forma di organizzazione che non controlla e che non è sua. Si replica (i due processi vanno in parallelo) quanto avvenuto nelle forme della società di massa, un tempo anch’essa concentrata (consumi standardizzati, ideologie di massa, la piazza), poi sempre più individualizzata e tutti ricevono gli stessi messaggi, tutti sono conformisti, tutti replicano individualmente ciò che pensano tutti, e oggi la massa passa per i social network e il conformismo digitale, tutti sono connessi ma soli. Tutti organizzati, ma singolarmente.

Dalla suddivisione del lavoro al legare insieme/integrare

Prima si suddivide il lavoro, poi però bisogna ricomporlo in qualcosa che sia maggiore della semplice somma delle parti prima separate. Si rilegga Sorvegliare e punire, là dove Foucault descrive appunto l’addestramento attraverso le discipline, si addestra un individuo per volta, lo si fa attraverso l’esercizio e la ripetizione e poi – solo poi - si possono mettere insieme i singoli prima addestrati singolarmente (nell’esercito, in fabbrica, eccetera). Si pensi alla catena di montaggio di Ford, mezzo tecnico allora perfetto per legare il lavoro dei singoli in qualcosa di complesso (e ieri una catena, oggi una rete). Si pensi ancora a Taylor che scriveva: «voi potete sviluppare tutta la scienza che vi piace e potete selezionare scientificamente e addestrare quanti operai volete, ma finché qualcuno non lega insieme scienza e operaio, tutta la vostra fatica sarà andata perduta». Legare insieme, oggi si dice connettere, fare rete, condividere, ma non è altro che una composizione eteronoma delle forze. Ancora e sempre: alienazione. Ed eteronomia.

E quanto maggiore è la complessità dell’organizzazione, più intensa e pervasiva deve essere la capacità di legare insieme le parti, ma quanto maggiore è la capacità di connessione, minore è anche l’esigenza di concentrare il lavoro in una stessa struttura fisica e materiale. Lo scriveva già Ford, cento anni fa: «L’industria si decentrerà. (…) Non si può mettere una grande fabbrica sopra un piccolo fiume, ma una piccola fabbrica sì (…) e la combinazione di molte piccole fabbriche finirà col dare maggiore vantaggio, sulle spese complessive che una grande fabbrica sola». Purché vi sia un buon sistema di comunicazione – sempre Ford - per legare insieme tante piccole unità produttive e oggi la rete è appunto questo buon sistema di comunicazione (che ai tempi di Ford non c’era) che è però soprattutto un perfetto sistema di connessione. Che appunto oggi permette di legare insieme, far connettere tra loro una moltitudine di lavoratori fordisti personalizzati, ma perfettamente connessi nell’apparato di produzione/consumo, nella catena-rete globale del valore. Individualizzazione esasperata, ma connessione assoluta. Totalitaria. Da ottenere un tempo con le discipline, con le fabbriche-caserma e oggi con l’interiorizzazione da parte di ciascuno del dover essere connessi, della mission dell’impresa, del collaborare con l’impresa (o dell’essere impresa) come nuovo beruf.

Dal lavorare al collaborare

E’ nella logica degli apparati organizzativi far sciogliere gli interessi individuali in quello generale dell’organizzazione. Scriveva J.K. Galbraith che in una organizzazione ciascuno viene persuaso a mettere da parte i propri fini e obiettivi personali e a perseguire invece quelli dell’organizzazione, lavorando tutti in modo coordinato (oggi si dice connesso) per l’obiettivo comune. E di collaborazione con l’impresa più che di lavoro nell’impresa parlava Gunther Anders («Il nostro fare odierno non è che un conformistico collaborare, dato che si svolge nell’ambito di complessi aziendali di cui non possiamo avere una visione d’insieme, ma che sono vincolanti per noi… un collaborare organizzato dall’azienda e inserito nell’azienda», cioè eteronomo ma introiettato). Di collaborazione (di cordiale collaborazione tra direzione e operai) parlava anche Taylor e lo stesso diceva Taiichi Ohno per il modello Toyota (un modello di fabbrica, secondo Marco Revelli, che cerca l’egemonia sulla forza lavoro «perché la teoria della fabbrica integrata presuppone, filosoficamente, l’idea di una struttura produttiva monistica. Di una comunità di fabbrica unificata e omologata, in cui il lavoratore deve consapevolmente e volontariamente sciogliere la propria intelligenza nel processo lavorativo… Tra forza lavoro e direzione d’impresa corre una continuità culturale, esistenziale, un comune sentire che non ammette fratture. Se la fabbrica tayloristica usava la costrizione, questa gioca sull’appartenenza, con l’obiettivo di fare dell’appartenenza all’Impresa l’unica soggettività possibile»); mentre un secolo di psicologia del lavoro è servito anche (o soprattutto) a mascherare l’alienazione e a favorire la collaborazione con l’impresa e basta leggere un banale manuale di gestione delle risorse umane per capire che questa idea del lavoro come collaborazione (a differenza di ciò che crede Di Vico) non è appunto una novità di oggi. Che passa attraverso molte vie, dal fare squadra modello squadra di baseball per Taylor e per Ohno, al fare squadra mediante le palestre aziendali o il welfare aziendale (una forma ulteriore di individualizzazione, in questo caso del welfare, che cessa di essere un diritto universale per diventare un diritto aziendale - una concessione dell’impresa).

Il sindacato. Un fastidio da eliminare

Hugo Munsterberg, precursore (cento anni fa) della psicologia industriale valutava assai criticamente l’attivismo sindacale e considerava i sindacalisti come soggetti emotivamente disturbati che sfogavano nella militanza sindacale le loro frustrazioni. Mentre Taylor, che pure non li voleva abolire, era critico contro di loro (e contro la contrattazione collettiva), perché li considerava sviati, ne condannava l’azione di restrizione dell’attività produttiva soprattutto se in presenza di una organizzazione scientifica del lavoro, l’azione sindacale diventando ipso facto irrazionale perché contesta qualcosa di intrinsecamente scientifico). Impresa contro sindacato. Nella fabbrica integrata toyotista a sei zeri, dove uno degli zeri da raggiungere era l’eliminazione del conflitto sindacale Nella Fiat-caserma degli anni ’50, nella Fiat di Marchionne (salvi solo i sindacati collaborativi), in Amazon, nelle piccole imprese che sono comunità di lavoro - e in una comunità il conflitto è escluso sempre, a prescindere.

L’impresa-comunità di lavoro

Di comunità di lavoro era scritto nel Libro bianco dell’allora ministro Sacconi; di comunanza di destini tra datori di lavoro e lavoratori aveva parlato Veltroni nel 2008. La de-socializzazione imposta dal capitalismo e dalla tecnica, i processi di falsa individualizzazione prodotti dalla divisione del lavoro, l’anomia sociale crescente richiedono una ricomposizione anche in termini di socialità e di senso di appartenenza. Se la società viene sciolta dall’azione dell’economia e degli apparati tecnici, la stessa economia e la tecnica si offrono per tenere (legare) insieme quegli individui che ha spaesato, isolato, separato. Nasce la comunità di lavoro. E analogamente (i modi dell’organizzazione scientifica del lavoro di produzione, di consumo e di connessione in rete sono del tutto identici) le community di brand, di social network. Ciò che de-socializza, poi comunitarizza. Ciò che toglie identità, offre identità. Ma è una identità d’impresa, di lavoro, di brand. Se sono morte le grandi narrazioni del passato, oggi trionfano le narrazioni d’impresa e di brand, lo storytelling d’impresa e di rete. Alienazione, mascherata da comunità e da collaborazione. La permanenza in uno stato di minorità (Kant) barattato in cambio di un po’ di welfare aziendale. Con l’impresa che pensa per noi, alla nostra vita e non solo al nostro lavoro.

Dunque, la società post-sindacale

Che è l’obiettivo del capitalismo (eliminare ogni bilanciamento e ogni contrappeso democratico) e dell’impresa (che è strutturalmente a-democratica e anti-democratica), come degli apparati tecnici. Olistici per vocazione, totalitari per organizzazione (l’integrazione dopo la suddivisione), biopolitici per essenza. Qualcosa di assolutamente religioso (legare insieme). Oltre l’economia e la tecnica, che cessano di essere mezzi e diventano forma sociale monistica ed egemonica.

Se l’idea/sogno di società post-sindacale non è una novità ma è il risultato possibile (ma speriamo improbabile) di una lunga guerra di posizione di capitalismo e tecnica vs democrazia, allora urgente è smentire Dario Di Vico.

 

Bibliografia

Anders G. (1998), L’uomo è antiquato, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino

Bonomi A. (1998), Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino

Demichelis L. (2015), La religione tecno-capitalista, Mimesis, Milano

Demichelis L. (2010), Società o comunità, Carocci, Roma

Ford H. (1980), La mia vita e la mia opera, La Salamandra, Milano

Foucault M. (1997), Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino

Foucault M. (2004), Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano

Foucault M. (2004), Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano

Galbraith J. K. (1968), Il nuovo stato industriale, Einaudi, Torino

Kant I. (1997), Che cos’è l’Illuminismo, Editori Riuniti, Roma

Morozov E. (2014), Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano

Ohno T. (2004), Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino - Con l’Introduzione di M. Revelli)

Taylor F. (2004), L’organizzazione scientifica del lavoro, Etas, Milano

Tocqueville A. (2007), La democrazia in America, Utet, Torino

Turkle S. (2012), Insieme ma soli, Codice, Torino

 

 

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