Il mancato rispetto della cosiddetta "regola d'oro" dei salari già nel modello contrattuale del 1993 è stata tra le cause della perdita di valore delle retribuzioni rispetto ai profitti
Sotto il profilo quantitativo, l’impianto contrattuale varato a luglio del 1993 e rimasto fondamentalmente inalterato fino ad oggi, creando un malsano regime di ‘profitto garantito’, non ha soltanto abbattuto per gli imprenditori gli incentivi ad accrescere la produttività. Come già abbiamo argomentato [1], la mancata diffusione della contrattazione integrativa (di secondo livello) – che ancora esclude il 70 per cento circa dei dipendenti delle imprese – ha causato per la larga maggioranza delle aziende il mancato rispetto della cosiddetta “regola d’oro dei salari”, che richiede che i salari reali crescano nella stessa misura della produttività del lavoro [2].
La regola è “d’oro” perché soltanto nella sua vigenza può adempiersi la cosiddetta “legge di Bowley”, che comporta la costanza delle quote distributive del lavoro e del capitale nel reddito [3]. Si noti che, oltre ad essere uno dei pilastri della ‘crescita bilanciata’ à la Kaldor, la regola di Bowley preserva l’incentivo chiave alla cooperazione tra i partner sociali finalizzata al miglioramento della produttività e alla crescita, e consente il massimo aumento dei consumi raggiungibile senza esercitare pressioni inflazionistiche sul saggio di profitto.
Invece, nel modello contrattuale italiano, il combinato disposto della rigidità verso il basso in termini reali del salario “fondamentale” definito dai contratti nazionali (primo livello) e della mancata diffusione della contrattazione integrativa (secondo livello) ha fatto sì che venisse a stabilirsi un rapporto inverso e anticiclico tra crescita della produttività e quota del lavoro nel reddito (v. il grafico nell’articolo citato). Se la produttività cresce (come, in teoria, dovrebbe accadere sempre o quasi), la scarsa diffusione della contrattazione integrativa fa sì che i guadagni di produttività vadano ad aumentare la quota del capitale nel reddito. Se, viceversa (e come, sempre in teoria, accade assai più raramente), la produttività si riduce, la rigidità verso il basso del salario reale fondamentale torna a far crescere la quota del lavoro.
Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione di risorse dai salari ai profitti operata dal 1993 da questo perverso meccanismo istituzionale, che altera in modo cieco e automatico la distribuzione funzionale del reddito senza coinvolgere né la politica economica né la contrattazione collettiva [4]. In prima approssimazione, e senza tener conto degli effetti della distribuzione del reddito sulla crescita, il computo può essere condotto in modo controfattuale, valutando la differenza tra il valore storico del monte profitti [5] e quello che si sarebbe verificato se i salari reali fossero cresciuti nella stessa misura dei pur modesti aumenti della produttività, secondo la regola d’oro, ovvero lasciando inalterata la quota del lavoro nel reddito, in ottemperanza alla regola di Bowley. I risultati dell’esercizio sono illustrati dalla Figura 1.
Figura 1. Contributo della quota del lavoro alla quota dei profitti, a prezzi costanti del 2005 (differenza tra il valore storico della quota profitti e quello che sarebbe risultato dall’applicazione della quota del lavoro del 1992, in termini di valori annuali e di valori cumulati)
Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali
La figura mostra come il contributo offerto dalla quota del lavoro ai profitti, nel quadro del Protocollo del 1993 e della sua sistematica violazione della legge di Bowley, sia stato davvero ingente: a prezzi del 2005, oltre 50 miliardi di euro già due anni dopo la sigla del protocollo, fino a più di 75 miliardi l’anno nel triennio 2000-2002 e attorno ai 68 miliardi l’anno tra il 2003 e il 2007. Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012), in dipendenza dalla della tenuta dei salari contrattuali reali a fronte della caduta della produttività del lavoro, il contributo si è ridotto a valori più ‘modesti’, tra i 30 e i 40 miliardi l’anno.
Ora, il valore cumulato di questi ‘trasferimenti impliciti’ operati automaticamente dal modello contrattuale italiano nel periodo dal 1993 al 2012 ammonta a ben 1.069 miliardi di euro. Si tratta di una cifra indubbiamente ragguardevole che, nell’opinione di chi scrive, è sufficiente a spiegare non solo il freno della domanda interna di consumi e l’aumento dell’indebitamento delle famiglie, ma anche (e forse soprattutto) i ritardi di innovazione, i mancati investimenti, la sopravvivenza di imprese marginali i cui prodotti o servizi continuano a gravare sui bilanci delle famiglie e delle imprese competitive, l’incapacità del segmento sano del nostro apparato produttivo di crescere e rafforzarsi sino a trainare fuori dal tunnel l’intero paese.
Il raffronto tra l’entità delle risorse trasferite e i risultati dell’economia italiana smentisce qualunque ipotesi di neutralità della distribuzione del reddito ai fini della crescita. Il meccanismo perverso del modello contrattuale, che ha garantito i profitti al di là dei meriti di mercato alterando in modo cieco e automatico la distribuzione funzionale del reddito, oltre ad esercitare effetti anticiclici di breve periodo, nel lungo periodo ha profondamente minato, almeno per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa dalla contrattazione decentrata e protetta dalla concorrenza internazionale, l’incentivo ad impegnarsi e ad investire per migliorare la qualità dei processi produttivi e dei prodotti. Il disincentivo ha influito tanto sulle scelte imprenditoriali, comunque garantite sul lato dei profitti, quanto su quelle dei lavoratori, non premiati economicamente per l’impegno ad ottenere performance produttive migliori [6].
[1] V. su ‘Sbilanciamoci’, L. Tronti, Più produttività per contratto, http://old.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Piu-produttivita-per-contratto-19398, 9/7/2013.
[2] Sulla regola, v. anche Antonioli D., Pini P. (2013), Contrattazione, dinamica salariale e produttività: ripensare obiettivi e metodi, ‘Quaderni di Rassegna Sindacale. Lavori’, vol. 14, 2: 39-93.
[3] A seguito dei suoi studi sui redditi in Gran Bretagna nel diciannovesimo e ventesimo secolo (Bowley e Stamp, 1927), il nome di Arthur Bowley è rimasto associato all’ipotesi della costanza nel tempo della quota del lavoro nel reddito, principio divenuto noto come “legge o regola di Bowley”. La legge, considerata non più di una regolarità empirica da Keynes (che nella Teoria generale ne parla come di “una sorta di miracolo”), occupa un ruolo rilevante nella teoria economica post-keynesiana e diviene, per Kaldor (1957), conseguenza della prescrizione delle condizioni che consentono all’economia un sentiero di ‘crescita bilanciata’, ovvero della costanza del saggio di profitto e della coincidenza del tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro con quello della produttività del lavoro. Per un’esposizione analitica dell’identità tra “regola d’oro” e “legge di Bowley”, v. Tronti L. (2010, p. 780).
[4] A regole date, l’estensione della contrattazione decentrata è in larga misura fuori portata rispetto all’azione tanto dei partner sociali come del governo. Basti pensare che il Censimento dell’industria e dei servizi 2011 ha appurato che le imprese fino a cinque addetti sono il 90,3 per cento del totale (quattro milioni circa su un totale di 4,4 milioni) e occupano il 37,5 per cento degli addetti.
[5] Calcolato in termini lordi come differenza tra il valore aggiunto e il reddito da lavoro corretto per gli indipendenti.
[6] Su questo risultato ha ovviamente anche influito, come ormai documentato da numerosi studi empirici, il massiccio aumento di posizioni di lavoro ‘flessibili’ registrato dall’economia italiana tra il 1995 e il 2008 (v. i riferimenti citati in Acocella N. e Tronti L., Legge Monti-Fornero: pregi e difetti di una riforma debole, in “Capire il lavoro. Le 100 voci da conoscere sull’occupazione che cambia”, la Repubblica, Roma, 2013, pp. 129-158).
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