L'analisi del “paradosso cinese” tra crescita economica e recupero dei valori tradizionali, principalmente di matrice confuciana, nel libro di Maurizio Scarpari, “Ritorno a Confucio”
Il libro di Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato (Il Mulino, Bologna, 2015) è un libro che parla, come dice il titolo stesso, della Cina di oggi. Che ne descrive, come spiega l’autore, “il paradosso”. Un paese che se da un lato, nel corso di pochi decenni, ha saputo realizzare una crescita economica miracolosa, riuscendo a “migliorare in modo consistente le condizioni di vita di gran parte della popolazione e a raggiungere uno status internazionale di primo piano”, dall’altro, in conseguenza del suo frenetico sviluppo, ha dovuto pagare prezzi altissimi, avendo tale sviluppo fatto insorgere “squilibri e sperequazioni gravi” che hanno messo a dura prova la tenuta sociale e ingenerato un diffuso senso di crisi.
È sui principali problemi della Cina di oggi che l’autore anzitutto si sofferma, in particolare nella prima parte del libro. Con lucidità e ricchezza di dati, Scarpari illustra le disuguaglianze sociali createsi a partire dall’affermazione dell’economia di mercato, osservando come se da una parte si contano oggi in Cina “più miliardari che in qualsiasi altro paese al mondo, Stati Uniti esclusi, dall’altra milioni di persone vivono ancora in condizioni di estrema precarietà, prive di reali tutele per il presente e di garanzie per il futuro”. E descrive il crescente disagio che le trasformazioni sociali hanno prodotto: la disgregazione dei legami interpersonali causati dalla “progressiva atomizzazione della vita sociale”; il “malessere profondo” dei gruppi sociali svantaggiati (composti soprattutto dalla popolazione rurale) a cui l’accesso al welfare è in larga parte negato; “la crescente ansia dovuta alla sempre più accesa competizione”; il “vuoto esistenziale e morale”, così come “l’individualismo e il cinismo”, causati dalla “mancanza di un sistema di valori a cui fare riferimento”. Per non parlare del dilagante fenomeno della corruzione politica, che l’autore icasticamente riprende rendendolo in tutta la sua magnitudine pantagruelica.
Nel trattare dei suddetti problemi sociali, Scarpari focalizza la sua attenzione sull’azione politica dell’attuale leader del Partito Comunista Cinese (Pcc), Xi Jinping, il quale, da quando è salito al potere nel 2012, “ha avviato una profonda ristrutturazione del paese, mirata a correggere le molte disfunzioni e diseguaglianze createsi durante il periodo del boom economico, e ha aperto una stagione di grande espansione politica, economica e culturale, tesa a creare un’immagine rassicurante della Cina e un’alternativa convincente all’egemonia statunitense”. Xi Jinping, sin dall’inizio del suo mandato, ha lanciato una serie di ambiziose riforme strutturali (al momento solo in minima parte effettivamente avviate), fra cui spicca per ora la revisione del sistema giudiziario; nel mentre, si è segnalato per la sua poderosa campagna contro la corruzione, volta a punire i funzionari disonesti e a moralizzare la vita politica ed economica del paese. Inoltre, ha incisivamente ridisegnato le forme e i contenuti dell’ideologia ufficiale imperniandoli attorno allo slogan ormai famoso del “sogno cinese”: un concetto elusivo e proteiforme che, ridotto ai minimi termini, consiste nell’ideale di far “rinascere la grande nazione cinese”, ovvero di riportare la Cina, concepita come una civiltà antichissima e unica, creatrice nei secoli di una cultura ricchissima, allo splendore e alla centralità che l’hanno a lungo caratterizzata nella sua storia. Lo scopo è sia quello di unire i cinesi in un orgoglioso legame di appartenenza a una comunità nazionale, a una tradizione culturale e a un destino storico collettivo che si vogliono immaginare come indissolubili, sia di promuovere nel mondo una visione positiva della Cina e della sua peculiare cultura per finalità di soft power.
È questo interesse per la cultura cinese tradizionale, o meglio per l’uso che si propone di farne il Pcc, che costituisce l’anima del libro di Maurizio Scarpari. Se Ritorno a Confucio parla infatti della Cina di oggi, lo fa a partire da una prospettiva particolare, quella del recupero dei valori tradizionali, principalmente di matrice confuciana, promosso oggi dal Partito Comunista al fine di governare la Cina (e non solo). Come spiega lo stesso Scarpari: “È alla propria tradizione e a quei principi di governo che hanno mantenuto unito, pur tra alterne vicende, l’impero per oltre due millenni che guardano oggi con rinnovato interesse i leader cinesi. Teorie e concezioni che sembravano abbandonate sono oggi rivisitate e riformulate nella consapevolezza che lo sviluppo dell’economia non può procedere ulteriormente senza il sostegno di quei valori, di quegli ideali e di quelle credenze religiose che hanno tenuto insieme così a lungo etnie e culture diverse. L’ideologia dominante all’interno del Pcc si rifà sempre più a dottrine e ideali propri di sistemi di pensiero – primo fra tutti il confucianesimo – fino a poco tempo fa messi al bando perché ritenuti contrari all’edificazione di una moderna società socialista. Rispetto al più recente passato si tratta di un’inversione di rotta che esprime la volontà di riappropriarsi di un sistema etico sviluppatosi nel corso dei secoli e ritenuto funzionale alla costruzione di una nuova moralità di stampo socialista che sappia parlare il linguaggio dell’uomo, della solidarietà e della condivisione, non solo quello dell’economia e dell’individualismo”.
Partendo dunque da queste osservazioni l’autore – che di mestiere è sinologo, ed è un autorevole esperto del pensiero cinese classico, in primis quello confuciano – illustra nella seconda parte del libro i principi etici e politici tradizionali abbracciati dalla leadership comunista, soffermandosi su concetti basilari del pensiero confuciano come il “governo della virtù”, la nozione di “armonia” e il valore-cardine dell’“amore filiale”, una virtù che, prescrivendo all’individuo la deferenza non solo nei confronti dei genitori ma anche nei confronti degli anziani e dei superiori in genere, serve da fondamento per il mantenimento dell’ordine non solo familiare ma sociale tout court. Anche qui vale la pena di riportare le parole dell’autore, riferite agli ideali politici confuciani che l’attuale leadership fa mostra di voler applicare: “Fine ultimo dell’azione politica è realizzare il bene del popolo, che deve essere guidato con saggezza e lungimiranza da persone capaci e preparate, selezionate in base al merito, che facciano prevalentemente uso della persuasione morale piuttosto che di sistemi coercitivi basati su leggi e punizioni. La pratica di governo dovrebbe tendere a diffondere a strati sempre più ampi di popolazione comportamenti ispirati all’amore per il prossimo e alla rettitudine, promossi da governanti virtuosi e da amministratori onesti, ponendo come fondamento della giustizia l’esempio e non la punizione dei crimini, poiché la repressione indurrebbe alla paura e all’inganno e non all’educazione del popolo”.
Ritorno a Confucio è un lavoro molto importante, proprio perché sa unire l’osservazione meticolosa della realtà sociale della Cina odierna con l’indagine di alcune delle più significative dinamiche culturali che la governano. La maggior parte degli studi sulla Cina prodotti oggi in Italia tendono a oscillare fra i due poli del sapere accademico – spesso “sinologicamente” informato ma confinato fra gli steccati degli specialisti – e del sapere divulgativo non sinologico – che nel descrivere le dinamiche soprattutto politiche ed economiche cinesi rinuncia a chiarirne le logiche culturali che le muovono. Il libro di Scarpari questi poli li fonde, e per questo fa scuola. L’autore presta la sua profonda conoscenza dei principi e dei valori fondanti della politica cinese tradizionale per interpretare la teoria e la prassi politica di oggi, e trasporta l’acribia del filologo classico nel presente per compulsare i discorsi degli attuali governanti cinesi. E nel far questo, ci dà delle lezioni importanti. Ci mostra infatti che il passato, la tradizione, certe strutture culturali profonde, non possono essere semplicemente cancellate dalla modernizzazione, e che esse ritornano, si rigenerano, si trasformano (o meglio sono trasformate da chi le riusa). Che non esiste un modello unico e necessario di modernità (quello “occidentale”), e che la Cina sta investendo tantissimo per costruirne uno proprio, edificandolo anche sul terreno della propria tradizione. Che per conoscere la Cina dobbiamo saper togliere le troppo comode lenti culturali eurocentriche, per provare a capire invece anche come la Cina vuol pensare se stessa (o meglio come la pensano i suoi governanti). L’influenza della Cina nel mondo è ormai enorme, per cui “migliorare la nostra conoscenza della Cina significa migliorare la conoscenza di noi stessi e della realtà in cui vivremo nel prossimo futuro”.
Va infine detto che, se Scarpari si mostra sincero ammiratore della cultura tradizionale cinese, pure non lesina di sottolineare l’ambiguità dell’uso che di questa ne sta facendo il Partito Comunista. Nel parlare del soft power cinese, per esempio, nota come esso “stenti ad affermarsi nel mondo” perché la cultura che si tenta di esportare è troppo “condizionata da rigide politiche di governo” e tende a “confondersi con la mera propaganda politica”. Rileva anche come alla base dell’energico interventismo di Xi Jinping vi sia, prioritaria, la volontà di conservare il potere del Partito Comunista, gravemente delegittimato e conseguentemente messo in crisi dalla sua stessa mastodontica corruzione e dalle reiterate rivendicazioni di maggior giustizia e libertà provenienti da molti ambiti della società cinese. In questo senso, il recupero selettivo dei valori confuciani come collante politico e sociale e il nazionalismo culturale del “sogno cinese” vanno letti come antidoto e come alternativa alle istanze democratiche che il partito rigetta perché sa che condurrebbero inevitabilmente alla sua dissoluzione. Non è un caso che un grande impulso alla rivalutazione della figura di Confucio fu dato dal Pcc proprio alla fine del 1989, pochissimi mesi dopo i fatti di Tian’anmen, quando Deng Xiaoping aveva represso le proteste democratiche accusandole di voler istituire “una repubblica borghese dipendente dall’Occidente”. Come non è un caso che mentre Xi Jinping, in questi ultimissimi anni, si dava da fare per ri-confucianizzare l’ideologia ufficiale, pure mostrava la sua fedeltà al maoismo nell’ordinare ai funzionari politici di lottare contro i vizi “capitalisti” della cultura occidentale, come il “costituzionalismo democratico”, i “valori universali”, la “società civile” e la “libertà di stampa”. In questo senso, se “cultura occidentale” è per il partito sinonimo di “democrazia”, allora “cultura tradizionale” è metafora di “autoritarismo”. Il rischio è che, qualora il partito riducesse, essenzializzandolo, l’immenso ed eterogeneo patrimonio della cultura cinese tradizionale a quei pochi principi che servono a garantire la sottomissione della società, il dominio del partito, e l’affermazione degli interessi politici di quest’ultimo nel mondo, non solo i cinesi perderebbero un’occasione per dire qualcosa sulla Cina che realmente vogliono, ma pure la Cina tutta perderebbe l’occasione per conoscere realmente se stessa e per costruire una fiorente civiltà del futuro in grado di unire, come vorrebbero i suoi leader, il meglio della propria cultura tradizionale con il meglio della moderna cultura occidentale.
Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio. La Cina di oggi fra tradizione e mercato, Il Mulino, Bologna, pp. 208, euro 18.
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