Dopo la troika/Cambiare la Grecia senza soldi né alleati. A Bruxelles il governo di Atene non ha trovato gli appoggi che sperava. I Paesi del nord devono mostrare al mondo (in primis a spagnoli e irlandesi) che la strada indicata da Tsipras è perdente. E in casa si trova spinto da sinistra a rispettare il programma elettorale
Il morale, per ora, è alto. Quando nei suoi concerti la popolare cantante Eleftherìa Arvanitaki intona la strofa «non andrò via di qui, questo è il mio posto», il pubblico la accompagna con impeto, quasi facendo proprie quelle parole in uno slancio di appartenenza e di orgoglio. Come sottolineato da Tsipras la sera stessa della vittoria, e come ribadisce anche il magazine di Vima dedicato ai talenti under 30 rimasti in patria, la fuga dei cervelli migliori verso l'estero (la Germania in primis) è una delle piaghe più serie per la Grecia e per tutto il Mezzogiorno d'Europa (Italia inclusa), forse perfino più grave – nel medio periodo – rispetto ai massicci trasferimenti di capitali dalle banche elleniche a quelle straniere (ben 26 miliardi da dicembre).
Ecco: chi oggi vive in Grecia prova l'orgoglio di una politica finalmente vera, di un governo che, pur senza ostentare trionfalismi o toni nazionalistici, forte di una fiducia al 76% prova a riacquistare dignità, a rivendicare la sovranità accantonando anni di amministrazione controllata e proponendosi come decisore a pari titolo delle istituzioni europee, anzi giungendo a insediare una commissione parlamentare per indagare su chi ha condotto il Paese – in un modo secondo gli esperti del tutto incostituzionale – dentro il buco nero del Memorandum.
Tuttavia, dinanzi al risveglio della coscienza popolare si profila lentamente l'impotenza di un esecutivo drammaticamente a corto di denari (forse basteranno per gli stipendi di marzo: negli ultimi mesi si sono avute minori entrate per 1,5 miliardi, e le coperture per gli interessi sono ancora da trovare), e apertamente osteggiato, al di là di cravatte e pacche sulle spalle, da tutti i partner europei. La strada del compromesso, battuta finora dai greci con consumata destrezza e lavorando senza posa su ogni interstizio e ogni spiraglio, è ancora percepita dai più come l'unica percorribile, e sicuramente lo è. Ma sul piano politico – a meno di fatti nuovi – assomiglia a una parete verticale, in cui si guadagna un po' di tempo e qualche etichetta, ma non si possono cambiare davvero le carte in tavola.
Per questo, l'accordo con l'Eurogruppo del 25 febbraio è apertamente denunciato dalla Piattaforma di sinistra, che rappresenta da sempre un settore rilevante di Syriza e che non voterebbe a favore in caso di un passaggio parlamentare. Nella direzione del partito è finita 92 a 68 per il segretario: un esito inquietante, che ha indotto Tsipras a evitare in ogni modo di mettere l'accordo in votazione alla Vulì, giacché la spaccatura di Syriza e un probabile voto favorevole di Pasok, Potami e Nea Dimokratía significherebbe la crisi di governo immediata e la fine del sogno. L'incognita è se il massimalismo di Lafazanis (leader della Piattaforma) rappresenti un salutare pungolo al governo, o possa spingersi fino a far saltare il banco: Tsipras è dinanzi a un delicatissimo gioco di equilibrismo. Ma non perde tempo: sono già depositati quattro disegni di legge per bloccare i pignoramenti delle abitazioni sotto i 300 mila euro, per ridare l'energia elettrica a 30 mila famiglie e contributi alimentari ad altre 100 mila, per rateizzare i debiti di 3,7 milioni di persone fisiche e piccole imprese, per riaprire la televisione di stato (Ert) chiusa da Samaràs due anni fa. E si riparla fattivamente della cittadinanza ai figli degli immigrati e della chiusura dei Centri di detenzione ed espulsione per i clandestini, veri e propri lager contro cui si scagliano dai muri delle città i centri sociali più intransigenti.
D'altra parte, il semplice fatto che le prime misure umanitarie – in parte a gravare sulla riduzione dell'avanzo primario dal 3 all'1,5% – vengano condannate da Schäuble come «atti unilaterali» fa capire che nell'Europa politica (quella delle istituzioni, vanamente contrapposta da Tsipras a quella della troika, come se le due non rispondessero al medesimo orientamento) la battaglia di Atene contro l'austerità non gode di alcun sostegno. Basterebbero uno o due grandi Paesi per aprire un fronte, ma l'operazione non è riuscita, Renzi e Hollande non hanno alcuna intenzione di inimicarsi Merkel, in Spagna le elezioni sono ancora lontane, Irlanda e Portogallo vantano le loro più o meno presunte success stories e sono i più aspri oppositori delle pretese greche.
La questione è ideologica: Schäuble e i Paesi del nord devono mostrare al mondo (in primis a spagnoli e irlandesi) che la strada indicata da Tsipras è perdente. Le riforme pretese dall'Eurogruppo sono le stesse della troika, quelle che Tsipras ha apertamente rifiutato, preferendone altre: Varoufakis vuole ridurre e unificare l'Iva al 15%, anziché aumentarla come promesso da Samaràs; il ministro Kurublìs ha escluso qualunque taglio alla sanità, e ha anzi già usato 24 milioni per pagare finalmente le notti dei medici degli ospedali pubblici dal 2012 al 2014. Lafazanis, che è anche ministro dello Sviluppo, ha annullato la privatizzazione del vecchio aeroporto, ha bloccato le concessioni per il devastante sfruttamento minerario canadese in Macedonia e ha ribadito che i porti rimarranno in mano pubblica. Il presidente del maggior ente energetico ha dichiarato che terrà lontani i cartelli delle multinazionali e ha rinnovato i contratti di lavoro per tre anni. Si reintrodurranno a breve i contratti collettivi e dal 2016 il salario minimo sarà aumentato (forse gradualmente, forse non per tutti) del 20%. La lotta all'evasione e alla corruzione, così come la ristrutturazione del settore pubblico, sono bensì finalmente credibili, ma daranno frutto solo nel medio periodo – quel tempo che l'Europa non pare disposta a concedere.
Nulla incarna l'irriducibile alterità di principio meglio del best-seller da settimane in cima a tutte le classifiche: Parlando di economia a mia figlia di Ghianis Varoufakis (Pataki 2013). In questo précis di economia marxista, lucido e impietoso, il popolare ministro sciorina un'analisi storica e macroeconomica fondata sul problema delle diseguaglianze e sul nesso perverso fra governanti banchieri e capitale; un'analisi convincente, ma del tutto incompatibile con i principi stessi sui quali è nata l'unione monetaria oggi vigente. Si racconta che in una delle ultime riunioni dell'Eurogruppo – in cui le ricette del governo Tsipras venivano respinte come too political – il ministro di un importante Paese sia sbottato contro la pretesa di Varoufakis di «insegnarci come va il mondo». In mancanza di alleati, e senza un euro in cassa, si possono (e si devono) ottenere piccoli vantaggi strategici, si può (e si deve) scommettere sui margini di "oscurità creativa"; ma è lecito il sospetto di una sconfitta annunciata, in quanto pervicacemente voluta dai governi dell'Europa, incuranti del rischio delle svastiche, e nonchalants se in Grecia il 44,3% della popolazione è oltre la soglia di povertà, la disoccupazione balla attorno al 26%, e nelle città, dove il valore degli immobili è sceso del 40% in tre anni, la devastazione è palese nelle strade, nelle persone "normali" che vagano sperdute, non possono più curarsi e zoppicano o dormono sotto il cielo.
Il festival del documentario di Salonicco (da oggi al 22 marzo) offrirà una serie di preziosi lavori relativi a scioperi, licenziamenti, sanità e immigrazione. Su tutti, Il pesce sul monte di Stratula Theodoratou sul crollo dei cantieri navali a Pèrama, e Agorà di Ghiorgos Avgheròpulos, dove il termine antico nel titolo non designa più la piazza della democrazia antica, ma l'onnipotente mercato che opprime, deprime e – violentemente – reprime.
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