L'obiettivo degli Eurobonds dovrebbe essere il ritorno ad una vera politica fiscale espansiva che unisca obiettivi di breve periodo a obiettivi di lungo periodo
È opinione diffusa tra i policy-makers europei che la fase più acuta della crisi dell’eurozona sia ormai acqua passata e che vi siano incoraggianti segnali di ripresa. Non troppi mesi orsono, l’ormai ex-Primo Ministro italiano Enrico Letta rimarcava con soddisfazione come la contrazione dell’economia italiana stesse rallentando e la ripresa economica fosse ormai alle porte.
Certo, è compito dei policy-makers alimentare la formazione di aspettative positive da parte degli agenti economici al fine di indurre maggiori spese per consumi ed investimenti, e dunque stimolare la ripresa. Le affermazioni di cui sopra, tuttavia, appaiono esercizi di retorica privi di qualsivoglia collegamento con la realtà. Secondo i dati economici forniti dal Fondo monetario internazionale, si stima che il Pil reale italiano tornerà ad un livello leggermente superiore rispetto a quello registrato nel 2001 solo nel 2016 (1). In ogni caso, esso resterà ancora a lungo inferiore rispetto ai suoi livelli pre-crisi. Le dinamiche dell’intera eurozona sono certo più incoraggianti rispetto quelle italiane, ma sono ben lungi dall’essere entusiasmanti. Nei prossimi cinque anni, il Fondo monetario stima che la crescita dell’eurozona non supererà mai il valore medio dell’1,6%, ivi compresa la presunta fiorente economia tedesca. Dietro ad una modesta ripresa economica complessiva, continueranno a celarsi profonde divergenze regionali tra paesi periferici e paesi centrali (2).
Alla luce di questi dati, si può ammettere che gli interventi annunciati dalla Banca centrale europea a settembre del 2012 abbiano aiutato a mantenere in vita l’euro e a sedare la febbre degli spreads tra titoli di stato periferici e Bund tedeschi. Tali misure, tuttavia, sono ben lungi dall’aver ridato all’eurozona uno slancio tale da farle recuperare il benessere materiale perso durante quest’ultimi anni di dura crisi. Al contrario, l’eurozona rischia di attraverso un lungo periodo di stagnazione in cui sarà ben difficile porre rimedio alla piaga dilagante della disoccupazione di massa, soprattuto quella giovanile.
I dati macroeconomici di cui sopra e la persistente stretta creditizia che attanaglia i paesi periferici descrivono una realtà contraddistinta da radicale incertezza. Si tratta di una situazione in cui gli agenti economici non sono in grado di formulare su basi ragionevolmente solide aspettative credibili circa l’evoluzione futura della zona euro. Tale incertezza riguarda eventi di lungo periodo per i quali non è possibile stabilire alcuna distribuzione di probabilità (calcolare alcun rischio statistico) quali la sopravvivenza dell’Unione Monetaria (Ume), la configurazione politico-economica che potrebbe sostituire la stessa in caso di collasso, le riforme politicamente adottabili per consentire all’Ume di sopravvivere. In questo contesto, gli operatori finanziari sviluppano una forte preferenza per la liquidità. La politica monetaria, quindi, diventa preda della “trappola della liquidità” ed è incapace di trasmettere alle politiche di credito degli operatori finanziari le misure espansive fino ad ora messe in atto. Dal canto loro, le imprese non finanziarie adottato comportamenti conservativi e si astengono dall’assumere decisioni di investimento. La domanda per investimenti risulta in larga misura insensibile a qualsivoglia riduzione dei tassi d’interesse determinata dalle autorità monetarie, e certamente insufficiente a ricondurre i sistemi economici alla piena occupazione (3).
La situazione appena è assai vicina a quella analizzata da Keynes nella Teoria Generale, e alla quale Keynes pensava di far fronte attraverso una politica fiscale espansiva di “socializzazione degli investimenti”. Ciò nonostante, le ultime notizie economiche inerenti l’eurozona riferiscono che i paesi periferici, Italia in primis, sono ancora sotto stretto controllo da parte delle istituzioni comunitarie per quanto concerne la sostenibilità dei propri conti pubblici. Posto che tale sostenibilità sembra dipendere da fattori politico-istituzionali, di cui l’eurozona è colpevolmente priva, piuttosto che da cattivi “fondamentali” economici (4), tali pressioni impediscono ai paesi membri di adottare le politiche espansive di cui sopra. In assenza di esse, la persistente paranoia comunitaria circa la necessità di una rigida disciplina fiscale renderà assai difficile la messa in sicurezza dei bilanci pubblici nazionali e, soprattutto, il realizzarsi di una ripresa economica minimamente apprezzabile.
Per uscire da tale impasse è necessaria una forte politica fiscale anticiclica condotta a livello comunitario e potenzialmente finanziata attraverso l’emissione di eurobonds (i.e. titoli di debito pubblico garantiti congiuntamente da tutti gli Stati Membri dell’eurozona) da parte di una istituenda agenzia fiscale europea. La proposta di emettere eurobonds non è nuova. La maggior parte delle proposte già avanzate, tuttavia, concepisce gli eurobonds come strumenti di mutualizzazione degli stocks di debito pubblico già accumulati. Loro obiettivo specifico sarebbe dunque la riduzione degli stocks di debito pubblico nazionali esistenti da operarsi in concomitanza con il mantenimento di rigorose politiche di bilancio volte ad impedire che tali debiti si ricostituiscano rapidamente. Ben poco si dice invece del finanziamento di forti politiche fiscali comunitarie di natura anti-cicliche. Alla luce dell’analisi di cui sopra, dovrebbe essere invece quest’ultimo l’obiettivo prioritario, se non unico, degli eurobonds. Il ritorno ad una vera politica fiscale espansiva che unisca obiettivi di breve periodo (contrasto immediato alla stagnazione economica e supporto alle finanze pubbliche nazionali attraverso il sostegno comunitario alla crescita) a obiettivi di lungo periodo (sostegno allo sviluppo produttivo e tecnologico dei paesi periferici): ecco di che cosa ha davvero bisogno l’eurozona. Si tratta certo di un cambiamento politico-istituzionale radicale che implica, in buona sostanza, il muoversi verso la piena integrazione fiscale dei paesi membri e la riforma della Bce nel senso di una vera Banca centrale capace di supportare, alla bisogna, l’emissione di titoli di debito comunitari. È logico attendersi, soprattutto dai paesi centrali dell’eurozona, una strenue opposizione a tali riforme (5), le quali abbracciano un’impostazione economica diametralmente opposta a quella strettamente monetarista su cui sono state disegnate le istituzioni europee. Si tratta tuttavia delle uniche riforme che possono rendere l’Ume davvero sostenibile, come parte della teoria economica ben sa da parecchio tempo (6).
1 Fondo Monetario Internazionale (2013) – World Economic Outlook, Ottobre 2013.
2 Nei prossimi 5 anni il Pil pro-capite misurato secondo la parità dei poteri d’acquisto continuerà a ridursi, rispetto a quello tedesco, in Spagna, Italia e Portogallo. In Grecia, si assisterà ad una debole ripresa relativa solo a partire dal 2015, dopo una caduta di oltre venti punti percentuali rispetto ai livelli pre-crisi (più o meno la stessa contrazione registrata in Irlanda).
3 Nel periodo 2007-2011, gli investimenti fissi lordi nei paesi PIIGS sono crollati dal 21% del PIL al 14,6%.
4 Alberto Botta (2013) – A Proposito di eurobonds, Il Politico, vol. 78 (2).
5 Si vedano le critiche mosse dalla Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe alle misure recentemente adottate dalla BCE.
6 Peter Kenen (1969) – The theory of optimum currency areas: an eclectic view, in Muldell R., Swoboda A. (eds.) – Monetary Problems of the International Economy, The University of Chicago Press.
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