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Euro, una moneta prematura e divergente

12/08/2013

Se l’Eurozona rimarrà immutata è destinata al fallimento e al collasso. Perciò è necessario realizzare gli stadi e le istituzione ancora mancanti dell’integrazione europea

I benefici e i costi attesi da una moneta comune

Dalla formazione di un’area con una moneta comune ci si attendono di solito almeno sette benefici lordi per i suoi membri:

Primo, una riduzione dei costi di transazione, ad esempio il costo cumulativo delle commissioni pagate per convertire una valuta in un’altra (e in un’altra ancora).

Secondo, un aumento della concorrenza, data la maggiore trasparenza e comparabilità dei prezzi una volta che essi siano tutti espressi in una valuta comune.

Terzo, una riduzione del tasso d’inflazione, se la nuova valuta è assoggettata ad una maggiore disciplina da parte di una Banca Centrale indipendente che si pone una bassa inflazione come obiettivo.

Quarto, l’eliminazione del rischio di variazioni del tasso di cambio nelle transazioni fra paesi membri all’interno dell’area della moneta comune.

Quinto, una riduzione dei tassi d’interesse, grazie alla riduzione dell’inflazione e all’eliminazione del rischio del tasso di cambio all’interno dell’area.

Sesto, oltre a tutti questi fattori che dovrebbero promuovere l’integrazione commerciale all’interno dell’area, la promozione di maggiori investimenti diretti esteri, data l’abilità degli investitori di rimpatriare i profitti liberamente nella stessa moneta in cui sono stati realizzati.

Settimo, i benefici attesi da una maggiore integrazione finanziaria, che fra gli altri vantaggi dovrebbe fornire una forma di assicurazione implicita contro gli effetti di shocks asimmetrici.

Al tempo stesso ci sono almeno tre svantaggi lordi che i membri dell’area di una moneta comune devono attendersi. Primo, la perdita di una politica monetaria nazionale: anche se di solito i governi delegano alla Banca Centrale nazionale l’obiettivo inflazionistico e quindi fa poca differenza se lo delegano invece alla Banca Centrale che gestisce la moneta comune, la mancanza di una politica monetaria nazionale potrebbe essere uno svantaggio serio nel caso di shocks asimmetrici. Secondo, la perdita del tasso di cambio nazionale come strumento di politica economica, specialmente la perdita della svalutazione della valuta nazionale come mezzo per migliorare la competitività del paese nel commercio internazionale. Terzo, la maggiore disciplina fiscale a cui normalmente si devono assoggettare i governi nazionali in virtù della loro appartenenza all’area della moneta comune.

Nel complesso, ci si attendono benefici netti positivi dalla formazione di un’area dalla Moneta Comune.

I benefici e i costi effettivi dell’ Eurozona

La creazione dell’area dell’euro ha portato a un misto di vantaggi e inconvenienti di diverse dimensioni, tendenze ed effetti netti nel corso del tempo. Chiaramente il risparmio nei costi di transazione è stato sopravvalutato, dato che questi costi riguardano solo una possibile divergenza fra la composizione valutaria dei ricavi e delle spese, e non l’intero volume delle transazioni. I prezzi possono essere espressi facilmente in qualsiasi valuta scelta come numéraire, tanto da rendere illusoria la pretesa di una maggiore trasparenza e concorrenza. L’inflazione è stata domata con successo dalla Banca Centrale Europea e portata al di sotto della migliore performance precedente della Bundesbank, ma nel 2013 la disoccupazione del lavoro ha raggiunto livelli medi record superiori al 12% e ancora crescenti nell’area dell’euro. I tassi d’interesse sono caduti con l’introduzione dell’euro e gradualmente hanno registrato una convergenza a un basso livello praticamente uniforme mantenuto per sette anni e mezzo fino al 2010 quando è scoppiata la crisi greca. Da allora lo spread fra i tassi sui prestiti nazionali e il tasso più basso pagato da un membro dell’area (la Germania sui suoi Bunds a lungo termine) si è disperso e allargato in maniera spettacolare, insieme al costo di assicurarsi contro il default di un paese membro mediante Cds (credit default swaps). L’integrazione fra le banche dell’Eurozona si è trasformata in un meccanismo di contagio. Gli shocks asimmetrici – una seria preoccupazione quando l’Euro veniva creato – in pratica non sono stati un problema importante, ma l’impossibilità di realizzare una svalutazione esterna ha comportato misure alternative e costose di svalutazione interna ossia di deflazione di salari e prezzi. La disciplina fiscale, sotto forma di austerità concertata, all’interno dell’intera Unione e non solo nell’Eurozona, ha depresso il reddito e l’occupazione nell’intera area e soprattutto negli stati membri del Meridione Europeo, in una misura proporzionalmente maggiore della riduzione del debito e quindi facendo aumentare sia i rapporti fra debito e Gdp sia la loro divergenza.

A partire dalla crisi greca del 2010 e le crisi successive di altri paesi membri si è seriamente discussa la possibilità che l’Eurozona si dissolva nelle sue componenti nazionali con la restaurazione delle monete nazionali, o che almeno si separi in gruppi, quali ad esempio un gruppo Nordico e uno Meridionale con una valuta rispettivamente più forte e più debole dell’euro odierno. (Vedasi il Cambridge Journal of Economics, numero speciale sui Prospects for the Eurozone, Volume 37 Issue 3 May 2013, scaricabile gratuitamente). Mentre i primi suggerimenti di una rottura dell’Eurozona venivano espressi inizialmente da circoli della destra, recentemente ad essi si aggiungeva la voce di circoli di sinistra (per una critica si veda Andrew Watt, Why Left-wing Advocates Of An End To The Single Currency Are Wrong, Social Europe Journal, 10-07-2013).

L'Eurozona: tre fallimenti

L'Eurozona ha sofferto enormemente di due maggiori difetti nella sua progettazione.

Il primo difetto di progettazione dell’euro consiste nella sua nascita prematura. La moneta comune avrebbe dovuto rappresentare l’ultimissimo stadio di integrazione economica, a “coronamento” di tutti gli stadi precedenti: dopo l’integrazione politica; dopo un’integrazione fiscale che includesse un bilancio europeo sufficientemente largo da consentire una politica fiscale comune; perfino dopo una integrazione delle politiche di difesa e della politica estera. E invece, quando l’euro veniva creato, e ancora oggi, non c’era un governo europeo ma solo una collezione variabile di ministri nazionali che più che altro legislano al posto di un Parlamento europeo che rimane più che altro un club per dibattimenti, accanto ad una potente Commissione europea di commissari non eletti e di potenti funzionari pubblici con poteri esecutivi, mentre la formulazione delle politiche europee rimane al livello inter-governamentale. Il bilancio europeo è stato fissato a un irrisorio 1%-2% del Pil europeo (invece che all’incirca del 20% come il bilancio federale degli Usa) e sempre bilanciato ex-post (e quindi senza la possibilità di ottenere un surplus primario, per non parlare di un surplus primario grande abbastanza da ripagare con gli interessi delle obbligazioni emesse dall’Ue, che in ogni caso essa non ha né bisogno né motivo di emettere perché non gli è consentito di avere un deficit di bilancio). Nella difesa e nella politica estera sono stati presi soltanto i primi passi embrionici e burocratici verso l’integrazione europea.

L’approccio seguito nella creazione dell’euro è stato esattamente l’opposto di quello che avrebbe dovuto essere, da un punto di vista sia tecnico, sia democratico: la moneta comune è stata realizzata deliberatamente fuori sequenza, prima del tempo, precisamente in modo da creare, attraverso una forma di “disfunzione controllata”, proprio quelle pressioni e tensioni che si sperava avrebbero spinto in avanti “la finalité politique” e tutti gli altri stadi di integrazione che sono ancora mancanti. Questa era una strategia rischiosa che funzionò solo temporaneamente e che per avere successo avrebbe dovuto essere rapidamente seguita dalla realizzazione degli stadi che ancora mancavano, e che invece non sono stati ancora realizzati.

Il secondo difetto di progettazione della Moneta Comune è stato la creazione di una Banca centrale europea dimezzata. La Bce veniva creata indipendente – seguendo le teorie delle aspettative cosiddette “razionali” che a quell’epoca andavano di moda, e della pretesa mancanza di un trade-off fra inflazione e disoccupazione con esse associate che consentiva di delegare l’obiettivo dell’inflazione alla Banca centrale – così come la Federal Reserve degli Usa, la Banca d’Inghilterra e la Banca centrale del Giappone. Tuttavia – diversamente da tutte queste altre istituzioni sorelle ma seguendo invece il modello della Bundesbank – la Bce era inoltre totalmente distaccata dalla politica fiscale. La Bce doveva seguire un target inflazionistico inferiore al 2% ma ad esso vicino; ignorare preoccupazioni circa l’occupazione a meno che non fosse soddisfatto l’obiettivo inflazionistico; e soprattutto gli doveva essere precluso l’acquisto di titoli di Stato, sia che fossero emessi dall’Europa (che poteva farlo solo attraverso la Banca europea degli investimenti) sia dagli stati membri. E al momento della sua costituzione la Bce non aveva alcune delle altre funzioni di una Banca centrale, quali: supervisione bancaria, ri-capitalizzazione e risoluzione delle banche in caso d insolvenza, assicurazione dei depositi – tutte funzioni che venivano mantenute dalle Banche centrali nazionali, e ancora lo sono tranne per una misura di devoluzione alla Bce della funzione di supervisione bancaria.

La inabilità di finanziare il deficit pubblico, di supervisionare, ri-capitalizzare e dissolvere le banche e di assicurare i depositi ha fatto della Bce una Banca centrale dimezzata, se non addirittura meno della metà di una Banca centrale. Recentemente si sono viste varie iniziative per la creazione di una “Unione bancaria”, ma a rigore una istituzione del genere non esiste, e la si cercherebbe invano nei libri di testo sull’integrazione economica internazionale. Esistono solamente dei surrogati imperfetti e improvvisati per alleviare in qualche modo la mancanza di queste funzioni tradizionali di una Banca centrale da parte della Bce.

Il terzo grosso difetto della Eurozona è, dopo avere operato per quasi dieci anni con tassi di interesse bassi e uniformi, la mancanza di convergenza degli Stati membri dell’Emu verso i parametri statutari fissati dal Trattato di Maastricht per accedere all’Emu e dal cosiddetto Patto di stabilità e sviluppo che vale per tutti i membri dell’Ue indipendentemente dalla loro appartenenza all’Eurozona. Ciò vale sia per la convergenza monetaria – dei tassi di interesse a lungo termine sui titoli di stato a dieci anni, e del tasso d’inflazione – sia per la convergenza fiscale mantenendo il deficit di bilancio e il debito pubblico rispettivamente al di sotto del 3% e 60% del Pil. I paesi dell’Emu inoltre mancarono di convergere ad altri parametri reali che non gli erano mai stati richiesti ma che – in vista del disegno prematuro e incompleto dell’Eurozona – avrebbero dovuto essere inclusi nel processo di convergenza, come il tasso di disoccupazione, i costi unitari di lavoro (con la residua divergenza fra i salari compensata dall’equivalente divergenza nella produttività del lavoro fra gli Stati membri), la bilancia commerciale, la proporzione dei prestiti in sofferenza nei portafogli bancari. Anziché convergere, i parametri rilevanti dei paesi membri dell’Eurozona sono diventati sempre più divergenti nel corso della recente crisi.

Una nascita prematura non avrebbe causato inconvenienti se la Banca centrale europea fosse stata disegnata come la Banca d’Inghilterra o la Fed o la Banca centrale del Giappone, invece di prendere a modello la Bundesbank. Nè la nascita premature né una Banca centrale europea dimezzata avrebbero creato problemi se gli Stati membri fossero riusciti a convergere verso parametri monetari, fiscali e reali comuni. Ma la combinazione di tutti e tre questi difetti (includendo la crescente divergenza) è letale. Se l’Eurozona rimarrà immutata così come è oggi riuscirà a difendersi ancora per un periodo di tempo indeterminato, ma prima o poi è indubbiamente destinata al fallimento e al collasso.

Sviluppi recenti

Nel 2010 ha cominciato ad allargarsi e successivamente ha continuato a farlo lo spread fra i tassi d’interesse pagato sui loro titoli dai membri meridionali dell’Emu e i più virtuosi membri nordici dell’Emu, specialmente la Germania. Si può dire in proposito che questo paese è stato troppo virtuoso, in vista del suo eccessivo successo nel promuovere le sue esportazioni nette, attualmente dell’ordine di 210 miliardi di euro, equivalenti al 6% del suo Pil, senza che si attivi alcun meccanismo o politica economica, né in Germania né tantomeno a livello Europeo o di Emu, per eliminare o almeno ridurre questo squilibrio che ha enormemente danneggiato non solo tutti gli altri membri dell’Emu e dell'Ue ma anche – alla resa dei conti - la stessa Germania.

La storia dei tre anni successivi fino ad oggi è quella di miglioramenti parziali, lenti e inefficaci, e delle misure coraggiose e innovative introdotte dal Presidente della Bce Mario Draghi per far funzionare la Bce quasi come una vera e propria Banca centrale nonostante la persistente opposizione tedesca.

Nel 2010-2013 due programmi temporanei dell’Ue hanno fornito accesso istantaneo all’assistenza finanziaria per i paesi dell’Eurozona in difficoltà: la European financial stability facility (Efsf) e l’European financial stabilisation mechanism (Efsm). Nel settembre 2012 essi venivano sostituiti da un permanente Esm (European stabilisation mechanism, mentre l’Efsf e l’Efsm continueranno a gestire i trasferimenti e i monitoraggi per i prestiti precedenti per il bailout dell’Irlanda, il Portogallo e la Grecia). Tuttavia la dotazione dell’Esm è visibilmente insufficiente (500bn di euro) per poter far fronte a una crisi di larga scala che includa almeno uno dei più grandi paesi membri, e inoltre la sua assistenza è condizionata all’adozione di misure recessive di austerità e di dolorosi programmi di riforme istituzionali sotto la supervisione della Troika (Commissione europea, Bce, Imf).

Due nuovi strumenti non convenzionali erano introdotti dalla Bce sotto la leadership di Mario Draghi, ostensibilmente allo scopo di restaurare il funzionamento inceppato di meccanismi di trasmissione di politica monetaria. Attraverso le Ltro (Long term re-financing operations), la Bce forniva iniezioni di fondi ad un basso tasso di interesse alle banche dell’Eurozona su garanzia di una larga gamma di titoli. Attraverso le Omt (Outright monetary transactions) la Bce si arrogava la possibilità di acquistare titoli di Stato dei paesi in difficoltà sui mercati secondari – un vero colpo da maestro il cui stesso annuncio ha avuto un impatto stabilizzatore sui mercati finanziari senza che la Bce ancora abbia sborsato un solo centesimo. Recentemente i tassi d’interesse sono stati tagliati fino ad un record basso dello 0.5%, con l’annuncio non solo della loro persistenza ma della possibilità senza precedenti di una loro caduta ulteriore finanche a livelli negativi.

Questi sviluppi hanno incontrato la tenace opposizione soprattutto da parte dei rappresentanti tedeschi nel Board della Bce, e sono stati denunciati come indebiti o addirittura illegali fino ad arrivare a un ricorso presso la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe. La Germania si è anche opposta vigorosamente a ogni suggerimento di una mutualizzazione sia pure parziale del debito dell’Eurozona attraverso l’emissione di Eurobonds soggetti a responsabilità collettiva e individuale di tutti gli stati membri – un’obiezione comprensibile dato che la Germania, nella sua qualità di debitore più credibile e solvente rischierebbe di dover ripagare l’intero debito dell’Eurozona (anche se si ritiene generalmente che operazioni del genere sia nei primi stadi della Federazione degli Stati uniti sia nell’unificazione italiana del 1862 siano stati vantaggiosi per tutti).

É vero che la Bce ha accesso a risorse su grande scala che non figurano nemmeno nel suo bilancio, ossia il valore presente del suo signoraggio sull’Euro (che si compone dei profitti ottenuti dalle emissioni di base monetaria, gli interessi ottenuti dall’investimento delle passate emissioni, l’imposta inflazionistica attesa ossia la perdita di valore reale della base monetaria causata dall’inflazione attesa, così come l’imposta inflazionistica inattesa).

Nel 2011 Willem Buiter stimava il valore presente del signoraggio della Bce a un ordine di grandezza intorno a 3.300 miliardi di euro (in “The Debt of Nations Revisited: The Central Bank as a quasi-fiscal player: theory and applications”). Se una parte significativa di queste risorse fosse usata per ritirare titoli di Stato dei paesi membri dell’Eurozona nelle stesse proporzioni in cui essi sono azionisti della Bce la crisi dell’euro sarebbe risolta senza trasformare l’Eurozona in una “Transfer Union”, poiché ciò non comporterebbe alcun trasferimento fra gli stati membri. Le conseguenze potenzialmente inflazionistiche di una tale operazione potrebbero essere neutralizzate riducendo le dimensioni del bilancio della Bce (vendendo assets e riducendo i prestiti), sterilizzando le passività monetarie, aumentando le riserve obbligatorie e migliorando la remunerazione delle riserve in eccesso allo scopo di indurre le banche a tenerle inattive. Tuttavia questo tipo di operazione incontrerebbe l’opposizione della Germania e degli stati membri nordici e del loro conservatorismo monetario, ed è improbabile che possa essere adottata.

Sono state espresse speranze di un ammorbidimento della opposizione tedesca alla trasformazione creativa della Bce, o perlomeno del suo supporto per l’austerità, dopo le elezioni tedesche del settembre 2013. Ma ci sono sempre frequenti elezioni in ogni paese a livello nazionale o regionale e/o al livello europeo (il cui prossimo round sarà nel 2014), e in ogni caso l’opposizione tedesca non incoraggia a contemplare un cambiamento d’opinione anche nel caso improbabile di alternanza politica al governo.

E ora?

Si potrebbero realizzare gli stadi e le istituzione ancora mancanti dell’integrazione Europea, e si potrebbe promuovere la convergenza monetaria, fiscale nonché reale più seriamente e vigorosamente di quanto non si sia fatto in passato. Non è chiaro se ciò potrebbe essere realizzato in maniera abbastanza effettiva e rapida da risolvere la crisi presente, ma questa incertezza non è un buon motivo per non provare. Oppure l’Eurozona, come è stato ripetutamente suggerito con crescente frequenza, potrebbe o addirittura dovrebbe frammentarsi nei suoi paesi componenti ognuno ritornando a diverse valute nazionali, o magari dividersi in due aree valutarie, una nordica e una meridionale, con due valute diverse (è stato persino suggerito che le due monete potrebbero addirittura essere gestite dalla Bce, con diversi obiettivi e diverse politiche monetarie).

Uscendo dall’Eurozona e restaurando una moneta nazionale, un paese sarebbe in grado di condurre di nuovo una politica monetaria più consona ai suoi obiettivi, presumibilmente rilanciando la sua economia e selezionando il proprio desiderato trade-off fra inflazione e disoccupazione. Potrebbe anche, se lo desiderasse, scegliere un modello di Banca centrale ancora indipendente ma anche capace di finanziare la spesa pubblica (come ad esempio fa la Banca d’Inghilterra), eccetto che questa capacità potrebbe non essere di grande utilità dato che anche un paese che esca dall’Eurozona, qualora rimanga nell’Unione europea, dovrebbe adottare politiche di austerità imposte su tutti i membri dal Patto cosiddetto di stabilità e sviluppo: il Regno Unito, infatti, pur restando fuori dall’Eurozona, si è distinto per una formula di austerità particolarmente severa.

Un paese che esca dall’Eurozona potrebbe ricostituire la propria concorrenzialità internazionale attraverso la svalutazione nominale esterna della sua moneta, anzichè dover ricorrere a una svalutazione interna, ricorrendo a politiche dolorose e impopolari di deflazione dei prezzi e dei salari. E uscendo dall’Eurozona un paese potrebbe fare un default – unilateralmente o d’accordo con i suoi creditori – e ridurre il proprio debito addossando delle perdite ai creditori (bail-in), come potrebbe fare anche rimanendo membro dell’Eurozona ma senza dover concordare con la Troika (Ec, Bce, Imf) i termini del bail-in e senza l’assistenza finanziaria della Bce e dell’Ec (ma pur sempre ricorrendo a quella dell’Imf). Naturalmente la partecipazione all’Eurozona resterebbe uno degli obblighi dell’acquis communautaire, e pertanto un paese che esca dall’Eurozona (ad eccezione forse dell’Uk e della Danimarca che ne sono esenti per deroga al Trattato di Maastricht) prima o poi, anche se non immediatamente, dovrebbe lasciare anche l’Ue – un costo non trascurabile dell’uscita dall’Eurozona.

L’uscita dall’euro potrebbe essere imposta ad un paese da una corsa al ritiro dei depositi dalle banche (un bank run) in condizioni nelle quali la Bce non possa garantire assistenza di emergenza alla liquidità: tale situazione si era approssimata a Cipro nel 2013 quando il Parlamento aveva respinto i termini dell’accordo imposto dalla Troika, il bail-in delle sue banche. A quel punto l’unico modo di mantenere la liquidità sarebbe l’introduzione, da parte della Banca nazionale o del Tesoro, di una moneta nazionale, chiamiamolo un euro nazionale, inizialmente emessa alla pari con l’euro. Successivamente la nuova moneta si inflazionerebbe e sarebbe svalutata, perché dovrebbe fluttuare liberamente per non incappare nella legge di Gresham e scomparire dalla circolazione nel caso di un tasso di cambio sopravvalutato con l’euro. Anzi, la nuova moneta nazionale probabilmente si inflazionerebbe e svaluterebbe a tassi particolarmente elevati. In conseguenza i tassi di interesse nella nuova moneta aumenterebbero molto rapidamente relativamente a quelli dell’euro, con conseguenze avverse per la sostenibilità del debito pubblico. L’uscita dall’euro di vari piccoli paesi o anche di un solo grande paese probabilmente causerebbe una corsa ai ritiri dei depositi dalle banche di altri paesi deboli dell’eurozona e scatenerebbe un indesiderato e non necessario effetto domino.

Se e quando il tasso di cambio fluttuante della nuova moneta nazionale recuperasse il tasso di cambio di parità con l’euro al quale era stato emesso (magari per i due anni di stabilità del cambio previsti dal Trattato di Maastricht per i nuovi membri) il processo potrebbe essere invertito: il paese che ne rispettasse anche tutte le altre condizioni potrebbe chiedere la riammissione all’Eurozona, con la riconversione dell’euro nazionale nell’euro. Fino ad allora il contante cartaceo e metallico in euro diventerebbe moneta estera nelle mani delle famiglie e delle imprese, mentre tutti i conti correnti e tutti i debiti e crediti sarebbero convertiti nella nuova moneta alla pari, che di per sé ridurrebbe le dimensioni di tutto il debito pubblico e privato. Tecnicamente il debito estero rimarrebbe denominato in euro o nelle altre monete internazionali in cui sia denominato (almeno per la maggior parte del debito soggetto alla legge inglese) ma i creditori volenti o nolenti dovrebbero rassegnarsi ad accettare il default dei creditori e il bail-in di fatto. Se la svalutazione della nuova moneta fosse reale – ossia non cancellata dalla maggiore inflazione – e sufficientemente ampia, e se le importazioni ed esportazioni fossero sufficientemente elastiche rispetto ai prezzi, si registrerebbe un miglioramento della bilancia commerciale e dell’occupazione.

Di frequente sono state avanzate proposte che la nuova moneta nazionale non dovrebbe sostituire l’euro ma circolare in parallelo con esso. Purtroppo in economia non ci sono miracoli, una moneta parallela sarebbe una soluzione pasticciata e di dubbia efficacia. Considerando che la svalutazione interna e il default sono opzioni che rimangono aperte anche rimanendo all’interno dell’Eurozona, e che la disciplina fiscale rimane obbligatoria anche per un paese che lasci l’Eurozona, l’unico vantaggio netto di lasciare l’euro sarebbe una maggiore facoltà di default, al costo di perdere il sostegno finanziario europeo dell’Ue e della Bce, ma pur sempre con l’accesso ad un possibile sostegno finanziario da parte dell’Imf.

In conclusione l’uscita dall’euro non comporterebbe un grosso vantaggio netto specialmente considerando che l’uscita e l’inevitabile default disordinato che ne seguirebbe comporterebbe la perdita di accesso ai mercati finanziari per un periodo più lungo (dell'ordine di una ventina d'anni o giù di lì) di quanto non accadrebbe con un default ordinato e bail-in come nel caso di Grecia, Irlanda o Cipro. E in ogni caso l’introduzione di una moneta nazionale non sarebbe un modo di evitare il default ma la forma che prenderebbe il default.

Quanto alla prospettiva che sia la Germania (magari seguita da altri paesi nordici) a lasciare l’Eurozona, come suggerito recentemente da George Soros, questa uscita probabilmente sottostima in grande misura le perdite che, nei paesi Nordici, seguirebbero la rivalutazione dell’euro nordico rispetto all’euro dei paesi rimanenti.

Chiaramente se uno avesse voluto costruire un’area con una moneta comune non avrebbe mai dovuto seguire il metodo seguito dall’Emu, né avrebbe scelto di partire dallo stato di cose che prevale oggi nell’Eurozona. Ma partendo necessariamente da dove siamo oggi forse la cosa migliore è che i membri più deboli e vulnerabili dell’Eurozona si adoperino per andare avanti per quanto possibile e quanto più rapidamente possibile, dato il limitato consenso esistente fra i membri, in modo da riempire gli elementi mancanti: costruire una qualche forma di Unione bancaria; appoggiare il progresso di fatto della Bce verso una genuina Banca centrale; appoggiare qualsiasi forma di integrazione politica e di integrazione fiscale, in primo luogo facendo aumentare progressivamente le dimensioni del bilancio comunitario (anche se nell’ultimo round di negoziati il Regno unito è riuscito ad ottenerne la diminuzione); cercare di rilanciare iniziative di investimenti comuni, e di introdurre ed estendere forme di indebitamento europeo anziché nazionale.

A questo scopo sarebbe un utile espediente minacciare con maggiore frequenza e vigore una possibile uscita dall’Eurozona anziché farlo per davvero. Allo stesso tempo un paese potrebbe, sempre rimanendo nell’Eurozona, e sempreché le istituzioni democratiche fossero abbastanza robuste da consentirlo, replicare con la svalutazione interna gli effetti di una svalutazione esterna che sarebbe consentita dall’uscita dall’Eurozona – ma solo se questa fosse considerata una misura essenziale per rilanciare lo sviluppo.

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