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Un grande welfare contro la grande crisi

11/03/2009

Il nostro sistema di ammortizzatori sociali è del tutto inadeguato. Ed è oggi, in tempo di crisi, che va radicalmente e urgentemente rivisto, stanziando tutte le risorse necessarie. Senza subordinare l'intervento ai tagli alla previdenza pubblica

Le posizioni emerse nel dibattito sulla proposta di aumentare gli assegni ai disoccupati sono sintomatiche dell’estemporaneità con la quale ancora si affronta il tema degli ammortizzatori sociali e, più in generale, dell’inadeguatezza delle politiche sociali correnti rispetto alle esigenze anche economiche accentuate drammaticamente dalla crisi in atto.
Quella che oramai senza enfasi può essere chiamata “la grande crisi del 2008” rende incontestabilmente più urgente il potenziamento degli ammortizzatori sociali, cosicché oggi appaiono particolarmente ingiustificate le contrarietà ad attuarlo o a subordinarlo alla riduzione delle prestazioni pensionistiche. Va tuttavia sottolineato che le carenze delle misure di sostegno al reddito del nostro sistema di welfare sono da anni sotto gli occhi di chi vuol vedere (o leggere: ad esempio, le periodiche edizioni del “Rapporto sullo stato sociale” elaborato annualmente presso il Dipartimento di Economia Pubblica della “Sapienza”. Nella sezione Documenti di questo sito c'è una sintesi dell'ultima edizione).
Fatta pari a 100 la spesa sociale procapite della media dell’Unione Europea a 15, il dato italiano, dopo una riduzione di 7 punti negli ultimi dieci anni, è arrivato a 75. Se si fanno confronti omogenei, il divario è sensibilmente superiore a quello che emerge dai dati ufficiali. Infatti nelle statistiche Eurostat le prestazioni previdenziali includono quelle di fine rapporto (pari all’1,5% del Pil, che non sono affatto prestazioni pubbliche) e le ritenute fiscali (pari al 2,5% del Pil, che negli altri paesi sono assenti o comunque inferiori).
Dall’uso di dati omogenei emerge anche che la nostra spesa pensionistica non è affatto anomala; non solo, ma le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali sono inferiori alle entrate contributive per un ammontare pari allo 0,8% del Pil, cosicché il bilancio pubblico è alimentato (non appesantito) dal sistema pensionistico.
Oltre all’inferiorità della spesa, la vera anomalia strutturale del nostro stato sociale è (da tempo) la grande insufficienza degli ammortizzatori sociali; per essi la spesa è pari a circa un terzo della media europea e, per di più, lascia scoperti proprio le categorie di lavoratori più precarie. Inoltre, mentre nell’ultimo secolo quasi tutti i sistemi di welfare si sono dotati di misure di sostegno al reddito minimo, in Europa solo Italia e Grecia non garantiscono questo livello di protezione sociale.
Dunque la netta inadeguatezza dei nostri ammortizzatori sociali non è affatto una novità. In più, dovremmo tutti esserci resi conto che non siamo in tempi normali, ma che stiamo attraversando la crisi economica più grave dai passati anni ’30 (per ora, poiché non sappiamo quanto ancora si aggraverà e come e quando ne usciremo).
La coscienza della natura della crisi dovrebbe dunque spingere ad affrettare, non a frenare, l’adeguamento dei nostri ammortizzatori sociali.
Certo, abbiamo un elevato debito pubblico e un suo aggravamento potrebbe penalizzarci nell’opinione dei mercati; ma una politica di bilancio che - come sta accadendo - facesse poco o nulla per frenare il calo particolarmente accentuato del nostro reddito nazionale (-1% nel 2008 - mentre negli altri paesi europei il dato è stato positivo - e per il 2009 è previsto il -2,6%) produrrebbe comunque effetti negativi già nell’immediato sul bilancio (ad esempio per la riduzione delle entrate fiscali). L’aspetto “nuovo” da considerare è che le preoccupazioni dei mercati - come dimostrano le loro reazioni al mancato salvataggio pubblico della Lehman Brothers e agli interventi a sostegno dei settori reali e finanziari dell’economia ritenuti tardivi e insufficienti - sono legate più all’aggravamento degli indicatori connessi alla crescita (i bilanci aziendali, i livelli dei consumi e degli ordinativi, le aspettative per il futuro) che non al peggioramento dei bilanci pubblici. Negli Usa, patria del neoliberismo, il deficit di bilancio ha raggiunto il 12% del Pil, cioè quattro volte il limite imposto dai criteri di Maastricht, ma i mercati reputano ancora insufficiente l’intervento pubblico.
Gli effetti della crisi non riguardano solo gli equilibri del sistema economico, ma anche la teoria economica e la percezione che di essa hanno gli operatori e l’opinione pubblica.
Questa crisi e le modalità con le quali si sta manifestando offrono un insegnamento significativo: ripropongono all’attenzione generale l’incertezza che è cosa diversa e più inafferrabile rispetto al rischio probabilisticamente prevedibile; essa è una caratteristica qualificante dell’economia di mercato capitalistica, anzi è una delle sue contraddizioni principali: più il mercato si intensifica (mercati derivati, finanziarizzazione dell’economia, ecc) e si estende territorialmente (globalizzazione), più genera risultati fragili ed equilibri instabili. L’incertezza è accresciuta dal mercato ma ne mina sempre più il funzionamento, e gli strumenti per compensarne gli effetti vanno necessariamente cercati al suo esterno, cioè in un ambito decisionale che non sia regolato dal profitto e dagli interessi individuali, ma dalle istituzioni collettive.
Lo stato sociale - che da sempre ha tra le sue funzioni quella di sopperire ai fallimenti del mercato, e di fatto ne costituisce un superamento, – è l’istituzione che, debitamente usata, si presta particolarmente ad affrontare e compensare l’incertezza.
La crisi dunque, sia per i suoi effetti destabilizzanti che creano problemi economici e sociali da fronteggiare immediatamente sia perché ripropone nei suoi termini strutturali la questione dell’incertezza congenita del mercato che le analisi economiche e le politiche neoliberiste si erano illuse di aver sostanzialmente rimosso derubricandola a rischio probabilisticamente prevedibile, accresce l’esigenza anche economica della sicurezza sociale la quale può essere favorita, tra l’altro, dalle misure di sostegno ai redditi presenti (in particolare dei disoccupati) e futuri (come le prestazioni pensionistiche attese).
Sia sul piano sociale sia su quello economico, si manifesta dunque come del tutto controproducente la posizione di non adeguare gli ammortizzatori sociali per salvaguardare il bilancio pubblico che, invece, mai come in questa fase critica deve svolgere una funzione anticiclica richiesta a gran voce dagli stessi mercati. Proporre poi una nuova riduzione delle prestazioni pensionistiche equivale a gettare acqua bollente su un corpo (il sistema economico e sociale) già drammaticamente ustionato da una crisi al cui fondo c’è sfiducia e incertezza per il futuro.
Ci si può chiedere, infine, come mai, in un contesto internazionale nel quale anche la “rigorosa” Germania ha dovuto superare le proprie idiosincrasie storiche per le politiche di bilancio espansive, proprio il nostro governo sia diventato “più realista del re” in materia di attenzione ai vincoli del bilancio pubblico. A questo riguardo vengono in mente due considerazioni.
La prima è che Tremonti, pur dichiarandosi molto critico verso il ”mercatismo” (ma non verso il mercato), considera questa crisi essenzialmente di natura finanziaria e imputabile al comportamento dei banchieri; cosicché sarebbe sufficiente sperare che il nostro settore finanziario non manifesti le stesse criticità di quelli “dove si parla inglese”. Il nostro ministro dell’economia non considera invece che quelle in crisi sono le modalità assunte dal processo di accumulazione negli ultimi tre decenni; la stessa finanziarizzazione dell’economia e la conseguenza fragilità del sistema esplosa con la crisi attuale sono stati stimolati anche dall’esigenza di compensare le difficoltà di realizzare profitti nel settore reale dell’economia. E’ qui, dunque, che sta il nodo principale del problema e per affrontarlo occorrerà migliorare sia le condizioni della domanda (mediante un aumento dei salari e delle prestazioni sociali) sia quelle dell’offerta (favorite anche dalla capacità dello stato sociale di stimolare l’innovazione aumentando il capitale umano e offrendo reti di sicurezza) sia la distribuzione del reddito (uno dei compiti primari del welfare state).
La seconda considerazione riguarda un problema di reputazione che i rappresentanti di questo governo sono intimamente consapevoli di avere a livello internazionale e che potrebbe pregiudicare l’efficacia di una pur corretta impostazione anticiclica della politica di bilancio.
La gravità di questa crisi e l’analisi delle sue cause indicano che per uscirne bene e in fretta occorrerà liberarsi al più presto delle visioni economiche e politiche dominanti negli ultimi decenni e che si dovranno costituire nuovi e più efficaci equilibri tra i mercati e le istituzioni pubbliche, nazionali e sovranazionali; ma in entrambi gli ambiti si avverte anche la forte esigenza di nuove classi dirigenti.

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