Agli albori della conferenza di Copenhagen, cala il sostegno popolare per la lotta ai cambiamenti climatici perché i cittadini sono sempre più preoccupati dalla crisi economica. Ma è un falso dualismo. Ecco perché
Bisogna studiarsi le analisi internazionali per capire come si muova la politica internazionale in vista del vertice di Copenhagen sul clima. Perché in Italia non se ne parla. Zero. Nessun dibattito pubblico, se non in qualche circolo ambientalista. E ciò che emerge dai pre-negoziati è piuttosto deprimente: il COP15 sarà probabilmente un nuovo vertice preparatorio. Cioè, nella migliore delle ipotesi si arriverà ad un accordo di principio, ma le vere decisioni verranno rimandate di qualche mese. Forse alla metà del 2010, sostengono alcuni insiders.
La ‘presenza-assenza’ di Obama, ne è già un’indicazione. Il presidente USA arriverà il 9 dicembre per una visita di cortesia, prima di volare ad Oslo per ritirare il Nobel. Non parteciperà ai lavori conclusivi del summit, che costituiranno il momento chiave per arrivare ad un accordo. I suoi advisors gli hanno sconsigliato di investire troppo sul vertice, perché il probabile insuccesso potrebbe avere un effetto negativo sulla sua credibilità (soprattutto in America). Il Congresso, intanto, promette battaglia su qualunque ipotesi di target per le emissioni. D’altronde un sondaggio PEW di poche settimane evidenziava come il numero di scettici nei confronti dei cambiamenti climatici sia in aumento. Solo il 57% degli americani crede che il global warming stia davvero accadendo (in calo di oltre 20 punti rispetto al 2008) ed è una minoranza (il 37%) a ritenere che i fenomeni climatici siano imputabili alle attività umane (http://people-press.org/report/556/global-warming). Ma il trend non coinvolge soltanto l’altra sponda dell’Atlantico. Secondo una ricerca della Commissione europea, gli europei che considerano la lotta ai cambiamenti climatici una priorità sono scesi dal 62% (nel 2008) al 50% (http://www.economist.com/world/international/displaystory.cfm?story_id=14807107). Anche in Australia, nonostante lo sforzo lodevole del governo Rudd, che si è impegnato a raggiungere un accordo coraggioso a livello globale, cresce lo scetticismo di molti cittadini e la riottosità dei politicanti, come testimoniato in questi giorni dall’opposizione in senato (http://en.cop15.dk/news/view+news?newsid=2729).
A cosa si deve questa inversione di tendenza? Sono tanti i fattori in gioco, ma l’elemento più dirompente è probabilmente l’inasprirsi della crisi sociale che ha fatto seguito alla debacle finanziaria globale. Con il tasso di disoccupazione in ascesa in tutti i paesi economicamente avanzati, molti cittadini hanno perso di vista la questione climatica. Ora la priorità è rimettere in marcia l’economia e creare nuovi posti di lavoro. In questo senso, la retorica di Obama, che legava la ripresa economica al lancio della green economy, non sembra aver fatto breccia. E comunque il governo americano avrà bisogno di tenere le mani libere nei confronti di target vincolanti sulle emissioni se vuole davvero lanciare il capitalismo ‘verde’. Nel breve periodo le emissioni continueranno a crescere, anche in virtù di sussidi pubblici, come è sempre avvenuto nelle fasi espansive dei nuovi settori economici. Non è un caso che la Cina sia diventata uno dei maggiori produttori al mondo di pannelli solari, turbine eoliche e celle combustibili. Nella logica del libero mercato, questi prodotti oggi viaggiano in giro per il pianeta, esasperando le emissioni che promettono di abbattere.
È tutto qui il problema. I dubbi e le incertezze dei cittadini nascono dal fatto che si continua a descrivere la questione climatica come un problema ambientale. È un grave errore. I cambiamenti climatici sono la prova ultima dell’insostenibilità sociale del nostro sistema economico, che produce crisi dopo crisi, rende precario qualunque posto di lavoro e soffoca il pianeta. Un approccio liberista al global warming, come quello in parte promosso dal Protocollo di Kyoto, non farà altro che presentare gli stessi problemi del modello classico. I mercati internazionali si accapiglieranno per riempirci di prodotti, i paesi del ‘sud globale’ verranno ri-colonizzati per imporre foreste monocoltura, i lavoratori verranno sfruttati per produrre a basso costo, i cittadini verranno ridotti al rango di meri consumatori, ed il lavoro, invece di nobilitare l’uomo, continuerà ad essere una schiavitù nascosta.
La crisi sistemica ci offre la possibilità di re-inventare un modello fallimentare. Per questo è indispensabile che, anche in Italia, il dibattito sui cambiamenti climatici esca dai piccoli circoli di ambientalisti e divenga un’occasione per riflettere sulle sue cause sociali ed economiche. Il protrarsi della crisi economica deve essere visto come un’opportunità per creare un’economia diversa, che renda il lavoro qualcosa di cui andare fieri e l’acquisto un atto di cui non vergognarsi. Ma se continueremo a nasconderci dietro un dito rifiutando di vedere il legame tra crisi economica e questione climatica, finiremo con il condannarci all’auto-lesionismo perpetuo.
Lorenzo Fioramonti è promotore della campagna di comunicazione sociale Global Reboot (www.globalreboot.org)
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