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La crisi la pagano i più poveri. Il Rapporto Social Watch
L’onda lunga della crisi continua a farsi sentire e colpisce soprattutto i paesi che meno hanno contribuito a scatenarla. Fra le prime vittime del crollo dei mercati ci sono infatti gli abitanti delle zone più povere del mondo che, spendendo dal 50 all’80 per cento del reddito in beni alimentari, risentono maggiormente dell’aumento del costo delle derrate agricole. Ma anche le donne, spesso impiegate in lavori precari o a cottimo. Così, l’obiettivo di sradicare fame e povertà entro il 2015 rischia di rimanere un miraggio, mentre in Italia crescono ancora le differenze di genere. Sono questi, in sintesi, i principali risultati che emergono dal rapporto annuale “People First” diffuso oggi (9 febbraio) dalla rete internazionale Social Watch.
“Studiando l’impatto sociale della crisi a livello internazionale, emerge che a pagarne le conseguenze più dure sono i paesi impoveriti e le persone più vulnerabili, molte delle quali sono nuovi poveri”, afferma Jason Nardi, portavoce per il nostro paese del network di organizzazioni della società civile presente in oltre 60 nazioni. Tramite il “Bci” un indice alternativo che definisce la povertà non in termini di reddito, ma in base alla possibilità di godere di alcuni diritti fondamentali, il rapporto analizza lo stato di salute e il livello dell’istruzione elementare di ciascun paese. I risultati sono preoccupanti: al 2009, quasi la metà dei paesi analizzati ha valori bassi, la maggior parte della popolazione mondiale vive in paesi in cui i principali indicatori sociali sono immobili o progrediscono troppo lentamente per raggiungere un livello di vita accettabile nel prossimo decennio.
Nel 18 per cento dei paesi, si legge ancora nel dossier, è in atto una regressione in alcuni casi accelerata. La parte del mondo che se la passa peggio è l’Africa subsahariana, che già in precedenza registrava i valori più bassi. L’Asia meridionale sta invece progredendo rapidamente, pur partendo da valori molto bassi, mentre in America Latina e nei Caraibi non si registrano miglioramenti. Al ritmo di sviluppo attuale, solo Europa e Nord America potrebbero raggiungere entro il 2015 valori accettabili dell’indice. Lo scenario desta ancora più preoccupazione se si considera che solo Danimarca, Norvegia, Svezia, Olanda e Lussemburgo hanno rispettato gli obiettivi delle Nazioni Unite destinando lo 0,7 per cento del Pil all’aiuto pubblico allo sviluppo, mentre l'Italia, nonostante le ripetute promesse del nostro governo, scende dallo 0,2 per cento del Pil a meno dello 0,17 per cento, ultimo tra i paesi più ricchi poco al di sopra della Repubblica Ceca.
Il rapporto si occupa anche delle differenze tra uomo e donna che non si riducono, mentre cresce la distanza tra i paesi più virtuosi e quelli in cui la discriminazione è maggiore. Lo rivela l’Indice di Parità di Genere (Gei), che analizza la disparità tra i sessi in 157 paesi tramite una scala in cui 100 indica la completa uguaglianza. I valori piu’ alti sono attribuiti alla Svezia (88 punti). Seguono Finlandia e Ruanda, entrambi con 84 punti. Poco al di sotto si classificano Norvegia (83), Bahamas (79), Danimarca (79) e Germania (78). L’indice dimostra quindi che un alto livello di reddito non è sinonimo di maggiore uguaglianza. In questa speciale classifica, l’Italia scende rispetto al 2008 dal 70° al 72° posto, con un valore di 64 punti, collocandosi subito dopo paesi come Grecia, Slovenia, Cipro e Repubblica Dominicana (66). Confrontando il dato dell’Italia con la media europea (72), emerge il ritardo del nostro paese nel raggiungere un’effettiva uguaglianza di genere.
Per scaricare il rapporto, http://www.socialwatch.it/