Il premier Renzi spinge per una rapida approvazione del trattato di libero scambio tra Europa e Usa. Proprio mentre, in Francia e Germania, crescono le obiezioni
L’attuale governo appare ormai chiaramente come l’ennesima sciagura, peraltro certamente non casuale, capitata al nostro paese. Se c’era ancora bisogno di una conferma a questa triste constatazione, a parte le vicende del cosiddetto job act e quelle del patto di stabilità, essa è fornita ora con evidenza dalle ultime notizie relative alle trattative che si vanno affannosamente svolgendo in gran segreto tra Bruxelles e Washington intorno al TTIP. Sul tema sono comparsi a suo tempo su questo sito molti articoli di commento e quindi non ci soffermiamo in dettaglio sui contenuti del progetto, né sui suoi molti punti deboli. Nei fatti, l’avanzamento di tale schema, la cui iniziativa si deve al governo statunitense, si sta di recente scontrando, tra l’altro, con l’opposizione di una crescente parte dell’opinione pubblica del nostro continente e, almeno per alcuni aspetti del progetto, anche da parte di alcuni tra i più importanti governi europei. Peraltro, anche la posizione del senato e del congresso statunitensi non sembra del tutto sicura in merito.
Dai promotori dell’iniziativa viene espressa la speranza che le trattative si chiudano entro la fine del 2015, ma tale data appare ormai lungi dall’essere scontata. La precedente deadline era peraltro a suo tempo stata fissata alla fine del 2014, ma gli intoppi manifestatisi sulla discussione dei singoli punti, poi le elezioni europee e la successiva fase di attesa dell’insediamento della nuova Commissione, insediamento avvenuto solo da poco, hanno fatto slittare i tempi. Intanto l’Italia sembra, in tali discussioni, svolgere sostanzialmente il ruolo del servo sciocco.
Già qualche mese fa Matteo Renzi, incontrando il presidente americano, non solo si era dichiarato d’accordo a scatola chiusa sullo stesso trattato, ma aveva anche sostenuto con energia che bisognava accelerare i tempi dell’approvazione. È opportuno però considerare che si erano poi avute delle prese di posizione piuttosto critiche sul tema, come ci informa anche il professor De Cecco (De Cecco, 2014); esse avevano mostrato tutte le difficoltà di arrivare al via libera al progetto, almeno per come esso si presentava all’inizio. Aveva cominciato a segnalare con chiarezza le sue obiezioni il vice cancelliere tedesco, Sigmar Gabriel, socialdemocratico, dichiarando pubblicamente che mentre la parte del trattato che riguardava la liberalizzazione degli scambi poteva anche andare avanti, sia pure con qualche distinguo – anche la Merkel aveva sollevato qualche osservazione al riguardo -, quella invece relativa alla risoluzione delle dispute, che è poi in effetti la più controversa, non poteva essere accettata. Più di recente anche il governo francese, per bocca del suo ministro per il commercio estero, ha fatto conoscere la sua perplessità di fronte a tali clausole.
Si poteva a questo punto pensare che i rappresentanti italiani mostrassero ormai maggiori cautele o, perlomeno, minori entusiasmi verso la questione. Ma apprendiamo ora dal Financial Times, attraverso un articolo che ha ottenuto un certo rilievo sul quotidiano (Oliver, Donnan, 2014), che l’Italia ha di recente suonato il campanello d’allarme sull’insufficiente ritmo delle trattative e che essa è piuttosto contrariata dai ritardi. Il rappresentante italiano, Carlo Calenda, tra l’altro anche sottosegretario per lo sviluppo economico del nostro amato governo, ha dichiarato, come riporta l’organo della City di qualche giorno fa, tutta la sua impazienza al riguardo ed il timore che anche la data del dicembre 2015 si presenti come un traguardo difficile da rispettare. Calenda paventa in particolare che, se si va avanti con le trattative oltre la fine di tale anno, cosa che peraltro noi auspichiamo ardentemente, l’opposizione da parte dei partiti “anticapitalistici ed antiamericani”, nonché di molte organizzazioni non-governative, diventino anche più forti. I suoi timori si estendono anche all’eventualità che poi si entri in periodo elettorale, almeno negli Stati Uniti, e che le discussioni si trascinino così sino al 2017 ed anche oltre. Naturalmente Calenda appare d’accordo, per quanto riguarda lui e il suo governo, nel lasciare il trattato sostanzialmente come è, comprese le clausole sulla risoluzione delle dispute, anche se riconosce, bontà sua, che qualche concessione al centro- sinistra tedesco bisognerà forse farla.
La linea italiana appare così nella sostanza simile a quella manifestata anche di recente da David Cameron, peraltro in odore di uscita dall’UE. Noi non siamo certo sorpresi da questa brillante presa di posizione del nostro rappresentante. Ci saremmo semmai meravigliati se, al contrario, il nostro governo avesse manifestato anche la più pallida briciola di autonomia rispetto agli Stati Uniti, evento peraltro da sempre molto improbabile. Le tradizioni vanno difese a tutti i costi.
Fortunatamente, le probabilità di un accordo sul trattato così come era configurato nel progetto originale, nonostante l’entusiasmo mostrato al riguardo da Renzi e da Calenda, appaiono ad oggi relativamente ridotte.
Testi citati nell’articolo
-De Cecco M., Un trattato transatlantico su misura dell’America, La Repubblica Affari & Finanza, 24 novembre 2014
-Oliver C., Donnan S., Europe-US trade talks delay upset Italy, www.ft.com, 23 novembre 2014
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