Invertire la rotta delle scelte istituzionali in una situazione come quella attuale può sembrare impossibile. Uno dei modi per farlo è quello di sviluppare un’analisi comune sulle cause della crisi e sui percorsi per uscirne. Per questo, dal 6 all'8 settembre, arriva la task force speciale di Sbilanciamoci!
A inizio settembre l’Ocse stima per l’Italia un -1,8% del Pil per il 2013. In controtendenza rispetto all’Europa, l’Italia chiuderà l’anno in recessione nonostante le (e a causa delle) politiche di austerity imposte come unica ricetta per uscire dalla crisi. Il fallimento di questa ricetta è sotto gli occhi di tutti, gli annunci di un cambiamento di prospettiva contenuti nel discorso di insediamento del Presidente del consiglio Enrico Letta hanno prodotto poco o nulla. Né potrebbe essere altrimenti con un governo imprigionato nel cappio delle larghe intese, blindato dal Presidente Napolitano, che continua ad avere come interlocutore sociale di riferimento i più ricchi e le imprese. Il recente provvedimento sull’Imu ne è il segnale più chiaro ed eclatante: un provvedimento che ignora le diseguaglianze che dividono il paese, le accresce e contribuisce a legittimarle.
Invertire la rotta delle scelte istituzionali in una situazione come quella attuale può sembrare impossibile: i ceti più deboli, i lavoratori precari, i cassintegrati e i disoccupati, i giovani non sono ancora riusciti a costituire quel blocco sociale necessario per invertire i rapporti di forza tra i grandi poteri economici e finanziari che tengono sotto scacco l’Italia e l’Europa e i comuni mortali che stanno pagando sulla propria pelle il peso di politiche irresponsabili e sbagliate.
Eppure non possiamo rassegnarci all’accettazione dell’esistente e uno dei modi per farlo è quello di sviluppare un’analisi comune sulle cause della crisi e sui possibili percorsi per uscirne. Il forum di Sbilanciamoci! che terremo a Roma dal 6 all’8 settembre vuole dare un contributo in questo senso. Da tempo la campagna ha elaborato proposte di politiche alternative (94 quelle presentate nell’ultimo rapporto) individuando alcune priorità di intervento.
1. Il lavoro
Creare nuova occupazione – accanto allo stop ai licenziamenti di massa e ai prepensionamenti – è la priorità che dobbiamo darci. È un refrain che rimbalza dovunque nel dibattito pubblico, politico e mediatico, in Italia e in Europa. Ma il punto è capire come, in quali settori produttivi, a quali condizioni e nell’ambito di quale modello economico. Qualsiasi politica per l’occupazione non può non tenere conto dell’impatto che l’introduzione delle nuove tecnologie, “i limiti dello sviluppo” e le tendenze di un mercato del lavoro ormai globale provocano sulla capacità di creare nuovi posti di lavoro. Elemento non secondario è quello del lavoro per produrre che cosa: auto, armi, grandi opere che deturpano l’ambiente e sconvolgono i sistemi locali dei territori nelle quali vengono costruite?
Non può esserci una politica per il lavoro efficace e lungimirante se non all’interno di un ripensamento completo del modello di sviluppo che vogliamo costruire. Come ci ricorda Gallino e come Sbilanciamoci! sostiene da tempo, non servono palliativi ma un vero e proprio piano del lavoro che sia finalizzato a creare lavoro di qualità: stabile, pulito, “disarmato” e finalizzato a migliorare la nostra qualità della vita. Serve una ripresa della produzione di beni e servizi, anche di quelli “fuori mercato”, sia pubblici che del terzo settore, e un miglioramento qualitativo di ciò che si produce. Un impegno dello Stato nella creazione di lavoro pubblico per la costruzione di piccole opere e il riordino del territorio, nei servizi massacrati dai tagli degli ultimi anni (edilizia scolastica, centri per la prima infanzia, servizi di cura e di sostegno alle famiglie, accoglienza dei migranti, servizi per le pari opportunità, restauro dei beni culturali, produzione di energie alternative) potrebbe essere una delle vie da seguire. Un nuovo tipo di intervento pubblico potrebbe riorientare le strategie d’investimento dei privati, offrire un sostegno mirato alle imprese che investono in questi settori, nella ricerca e nell’innovazione, nella riconversione di produzioni sbagliate (le armi prima di tutto), ripensando il funzionamento della Cassa depositi e prestiti e prevedendo incentivi mirati.
Vi è poi la questione centrale delle condizioni contrattuali. La ricetta della cosiddetta flessibilità, lungi dal rilanciare l’occupazione, ha indebolito e reso ricattabili i lavoratori. Non serve lavoro precario ma lavoro stabile, e serve maggiore equità: le differenze salariali tra i manager (pubblici e privati) e i lavoratori di media e bassa qualifica è ormai diventata inaccettabile. Serve maggiore equità prevedendo, ad esempio, un limite massimo e minimo salariale. E serve distribuire il lavoro: l’ipotesi di una diminuzione delle ore di lavoro avanzata da alcune aree della sinistra potrebbe essere utilmente recuperata.
2. Giustizia fiscale e riduzione delle disuguaglianze
Ridurre le diseguaglianze significa cambiare radicalmente le politiche fiscali alleggerendo il peso fiscale per chi ha meno e aumentandolo per chi ha di più. I fronti sui quali intervenire sono principalmente quattro.
Il governo ha scelto di cancellare in modo indiscriminato l’Imu sulla prima casa per tutti. Ma una rimodulazione progressiva dell’Imu che prevedesse, ad esempio, di esonerare le prime case i cui valori catastali non superino i 300 mila euro e al tempo stesso di ristabilire un’imposizione fiscale progressiva sui patrimoni immobiliari di valore superiore a 500 mila e a un milione di euro, garantirebbe una maggiore entrata fiscale e sarebbe un atto di giustizia sociale.
È necessario poi ridimensionare il potere della finanza, aumentando al 23% la tassazione sulle rendite finanziarie e modificando il provvedimento adottato dal governo Monti sulla tassazione delle transazioni finanziarie, estendendola ai derivati e sostenendo una maggior iniziativa europea su questo fronte.
La tassazione sui redditi è oggi molto meno progressiva di venti anni fa. Tutti i redditi superiori a 75 mila euro hanno una uguale imposizione fiscale pari al 43%. Modificare le aliquote e gli scaglioni fiscali è necessario, aumentando l’imposizione dei redditi superiori a 70mila euro al 45%, dei redditi superiori a 200mila euro al 50% e degli ultramilionari al 75% ed esentando totalmente i redditi inferiori ai 1.000 euro mensili. Sarebbe un modo giusto e veloce per sostenere le famiglie più povere e recuperare le risorse necessarie per finanziare la spesa pubblica.
A questi interventi potrebbe poi affiancarsi un nuovo sistema di tassazione ambientale, con imposte sui consumi e le attività dannose per l’ambiente: la reintroduzione della Carbon Tax potrebbe essere uno degli strumenti.
3. Tagli sì, ma alla spesa pubblica sbagliata
La lotta ai privilegi, alla corruzione e alle forme di degenerazione della politica è giusta e necessaria, ma chi cavalca in modo demagogico la campagna contro la “casta dei politici” (rimuovendo completamente il fatto che c’è un’altra casta, quella dei manager delle grandi imprese che ha provocato danni ben peggiori) inganna l’opinione pubblica. La spesa per il personale della nostra pubblica amministrazione incide per il 20,6% circa sul totale della spesa pubblica e per il 10,4 sul Pil. Gli sprechi veri sono altri: sono i miliardi di euro destinati alla spesa militare (26,7 miliardi nel 2012), in primo luogo agli F35 (più di 54 miliardi previsti in venti anni, 504 i milioni stanziati sul bilancio 2013); sono i miliardi destinati alle grandi opere come la Tav (15-20 miliardi stimati solo per la spesa di competenza italiana); sono i milioni di euro destinati alle politiche del rifiuto dei migranti (almeno un miliardo e 600 milioni spesi tra il 2005 e il 2011); sono i finanziamenti alle scuole e alla sanità privata. Sono queste le spese da tagliare, razionalizzando, certo, la gestione delle risorse destinate ad altri settori di intervento.
4. Più spesa pubblica per proteggere le persone
Le cronache giornalistiche e il discorso pubblico e istituzionale sono costretti a fare i conti con le storie delle migliaia di famiglie colpite dai licenziamenti, dalla cassa integrazione, dai pignoramenti delle case i cui mutui non riescono a pagare, dai debiti con le banche e con le agenzie finanziarie.
Alla compassione, spesso spettacolarizzata, non si accompagnano politiche conseguenti. Per avviare serie e incisive politiche di redistribuzione, sostenere i redditi delle famiglie, rivedere e rafforzare il sistema delle prestazioni sociali, i soldi non ci sono mai. Si tratta di un approccio miope, destinato ad allargare la forbice delle diseguaglianze e a peggiorare le condizioni di vita di milioni di persone. Ed è il modo migliore per impedire il rilancio della domanda, dei consumi e dunque dell’economia.
Servono invece interventi urgenti e capaci di guardare lontano.
Il dibattito sull’opportunità di introdurre una forma di sostegno al reddito è aperto. Questo dibattito non può fare a meno di tener conto che l’obiettivo della piena occupazione, così come declinato nel Novecento, rischia di rimanere una chimera. Se il lavoro, e unicamente il lavoro, debba rimanere l’unica fonte di reddito in un contesto in cui l’offerta di lavoro è destinata a rimanere a lungo ben superiore alla domanda è un nodo che prima o poi deve essere affrontato e che viene considerato da parte di coloro che ad esempio stanno discutendo e proponendo l’introduzione di un reddito di cittadinanza. Il punto è che abbiamo bisogno di risposte immediate, non effimere né caritatevoli, capaci di restituire dignità e garantire un livello minimo di sopravvivenza a chi non riesce ad entrare o è espulso dal mercato del lavoro. La proposta di legge d’iniziativa popolare sul reddito minimo garantito presentata nei mesi scorsi da una larga coalizione di soggetti sociali va in questa direzione.
I fondi per la spesa sociale hanno conosciuto negli ultimi cinque anni tagli draconiani. Il Fondo nazionale delle politiche sociali nel 2008 pari a 1,464 miliardi, è sceso nel 2012 a 42,9 milioni di euro. La quota del fondo distribuita alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano pari nel 2008 a 656,4 milioni, è scesa progressivamente a 518,2 milioni nel 2009, a 380,2 nel 2010, a 178,5 nel 2011 fino ad arrivare a 10,8 milioni nel 2012. Il Fondo per la non autosufficienza introdotto nel 2008 è stato azzerato nel 2011 ed è stato rifinanziato nel 2013 solo con 275 milioni di euro. Il Fondo per le pari opportunità dai 64,4 milioni del 2008 è sceso agli 11 milioni del 2012. Un’evoluzione analoga ha interessato il Fondo per la famiglia: pari a 346,4 milioni di euro nel 2008 (anno in cui il solo Piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi fu finanziato con 166,4 milioni di euro), nel 2012 ha ricevuto uno stanziamento di soli 31,9 milioni di euro.
Tagliare i Fondi sociali significa non assicurare le risorse necessarie per gestire i servizi pubblici per l’infanzia, i centri di aggregazione giovanile e i servizi di assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti: il modo migliore per lasciare sole le famiglie e ostacolare l’inserimento o la permanenza delle donne nel mercato del lavoro.
Investire nell’istruzione e nella sanità pubbliche, nella lotta alla povertà e nel sistema di protezione sociale, nei servizi e nelle infrastrutture sociali territoriali, privilegiare i servizi di qualità rispetto ai sussidi economici caritatevoli come la social card, aumentare le risorse per i Fondi sociali è necessario.
5. Politiche per uno sviluppo alternativo, umano e sostenibile
Ci hanno fatto credere che la crescita del Pil sia l’unico indicatore rilevante per misurare lo sviluppo. Ma contribuiscono all’aumento del Pil la produzione di armi, la cementificazione dei nostri territori, la produzione di mezzi inquinanti, lo sfruttamento indiscriminato dei nostri mari, la mercificazione delle nostre acque. Senza una riconversione ecologica della nostra economia non può esserci futuro. Serve investire nella produzione di energie rinnovabili, nella tutela dei beni comuni, nella salvaguardia del territorio e dei nostri beni culturali, nella riconversione civile dell’industria militare, nel sostegno a quelle molteplici forme di economia solidale capaci di produrre reddito a partire dai bisogni dei territori, della tutela dei beni comuni e della qualità della vita delle persone.
6. Costruire un’Europa meno diseguale, più giusta
Un cambiamento reale delle politiche nazionali non può avvenire senza un’inversione di rotta delle politiche europee che assuma l’obiettivo di ridurre la distanza tra i paesi forti del centro e quelli deboli della periferia, di porre un argine alle speculazioni finanziarie, di sostenere il rilancio dell’economia e dell’occupazione con investimenti pubblici, di uniformare le politiche fiscali, di adottare misure tese a ridurre il peso del debito pubblico, di rimettere in discussione le politiche di austerità e i vincoli stringenti del Fiscal compact.
Di tutto questo e di molto altro discuteremo a Roma dal 6 all’8 settembre.
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