Crisi, disoccupazione, recessione e depressione; il vuoto della politica e l'insorgere dei populismi. L'Italia del 2013 assomiglia inquietantemente alla Germania tra il 1928 e il 1932
Facciamo il punto della situazione utilizzando le parole di un lavoratore manuale: “Il fardello terribile del dissesto minaccia di trascinare in un vicolo cieco l’intera economia nazionale. ... Migliaia di fabbriche chiudono i battenti. Il governo si accanisce a tal punto sui cittadini che tanta brava gente per sfamarsi deve ridursi a rubare”.
Il prolungarsi della crisi altera la percezione della realtà e all’inizio di ogni anno si è pensato di aver toccato il fondo e regolarmente l’anno dopo le cose si sono rivelate peggiori.
Assistiamo a ondate di licenziamenti di operai e di impiegati da parte di molte piccole e medie imprese e di alcune grandi aziende. Gli uffici di collocamento registrano 3.218.000 disoccupati, pari al 14% della popolazione in età da lavoro, ma se si tenesse conto dell’orario di lavoro ridotto in molte fabbriche, la quantità si aggirerebbe sui 4 milioni e mezzo. Siamo in presenza di un disoccupato ogni 10 lavoratori. Fra i disoccupati poi, solo 2/3 scarsi possono godere delle modeste somme messe a disposizione dai fondi della previdenza contro la disoccupazione, mentre gli altri sono costretti a vivere dell’esiguo sussidio distribuito dall’assistenza cittadina, o a fare addirittura a meno di qualsiasi tipo di aiuto.
Il 64% dei disoccupati appartiene alle leve lavorative al di sotto dei 30 anni e, all’interno di questo gruppo, la fascia più colpita è quella che ha terminato da poco i diversi corsi di studio e da soli costituiscono il 20% dei senza-lavoro. Le prospettive non sono rosee neppure per i giovani forniti di istruzione universitaria. Ingegneri e architetti o sono disoccupati o si devono accontentare di posizioni di second’ordine. Ormai è saturo anche il mercato delle libere professioni, tanto che i nuovi medici e avvocati si inseriscono con grande difficoltà nel mondo del lavoro.
La caduta della domanda ha messo sul lastrico un gran numero di proprietari di piccoli esercizi commerciali, di artigiani e di imprese industriali minori.
Nell’ultimo anno il consumo di carne della popolazione è sceso del 4% e l’industria automobilistica accusa un calo produttivo del 35%.
Da dieci anni è in atto una ristrutturazione del debito statale e la crisi americana ha accresciuto la dipendenza dai prestiti esteri a breve.
In contrasto con l’immiserimento progressivo di operai, impiegati, della piccola borghesia e del ceto medio, risalta l’ostentata ricchezza di una fetta della popolazione.
La cultura non offre stimoli immediatamente tangibili, né sostanze nutritive valorizzanti. La crisi economica, diffondendosi in ogni dove, ha scompaginato le precedenti strutture di vita e toglie il riposo e la serenità. Non solo ci sono tutti questi disoccupati, ma il lavoro ha perso valore per la maggioranza della popolazione e questo si accompagna alla perdita dell’autostima e contribuisce alla crescita dell'amarezza per la sensazione di essere traditi e frustrati.
Avanzano così le istanze di rinnovamento della società e di una società più giusta, nella speranza di non tornare alle vecchie gerarchie sociali del passato, fondate sul rango, sui privilegi e sulla ricchezza di una minoranza. La richiesta è quella di una società che salvaguardi i talenti e le inclinazione, valorizzi le capacità, supporti lo spirito di iniziativa e la creatività.
Il governo si trova a dover affrontare il problema di un’intera popolazione di contribuenti che dichiarano il falso e questo non è certamente una situazione facile da rimediare. A peggiorarla si aggiunge il fatto che le persone sono sempre più deluse e scettiche nei riguardi della classe politica; si tratta di un sentimento diffuso a tutti i livelli, ampliato dalla dilagante corruzione.
Produzione industriale, prezzi e salari cadono. Così depressione economica, depressione sociale e depressione nazionale si intrecciano.
Più si è allargata la crisi più si è andato restringendo lo spiraglio di strategie politiche e tanto maggiore è stato lo spazio che si è aperto a libere iniziative individuali sul piano politico. Due anni fa si è così dovuto mettere in piedi una sorta di Grande Coalizione, che ha prodotto una rafforzamento dei poteri presidenziali e che ha visto tre partiti stretti nella morsa dei vincoli di austerità imposti dall’esterno per il debito contratto e che ha tentato di far fronte sia a una disoccupazione che aveva già raggiunto i 2,8 milioni, comunque ben al di sotto dei valori attuali, sia all’inconciliabile scontro fra tasse e sussidi per il lavoro.
Grande è stato lo stupore della stampa per il fatto che alle ultime elezioni 6.400.000 cittadini abbiano dato il voto “alla ciarlataneria più comune, insulsa e piatta”. E così il nuovo partito ha ben centosette parlamentari e rappresenta il secondo raggruppamento.
Da un giorno all’altro il panorama politico è improvvisamente mutato. Ma a causa degli effetti della crisi economica, anche di fronte al nuovo partito i cittadini hanno manifestato perlopiù indifferenza e scetticismo sul fatto che l’ennesimo avvicendamento possa portare a un qualche miglioramento. Eppure il nuovo partito è riuscito a condurre alle urne elettori che da tempo non erano più avvezzi a praticarla, convogliando su di sé un coacervo di motivazioni individuali e facendo breccia sulle dimensioni emotive. Inoltre, gli esponenti della nuova formazione hanno dichiarato che “il nostro partito rappresenta l’unico argine contro la ribellione sociale” e che si tratta di denunciare la “tirannia dei tassi d’interesse” in modo da poter espanderne benefici effetti sulle piccole industrie e sul ceto medio proprietario.
Come se non bastasse, la situazione è stata resa ancor più complessa dal fatto che il mandato settennale dell’ottantaquattrenne Presidente della Repubblica è scaduto proprio a ridosso delle elezioni. Così, le condizioni della grave crisi economica e la paura di una furibonda contesa politica hanno fatto sì che i partiti, nell’impossibilità di mettersi d’accordo sul nome di un nuovo Presidente, abbiano chiesto al vecchio di rendersi disponibile per un nuovo mandato e nonostante la sua riluttanza, con una consistente maggioranza questi è stato rieletto.
Quella descritta fino a ora non è l’Italia del 2013, bensì la Germania del 1928-1932.
Una Germania che dopo il 30 gennaio 1933, il giorno delle elezioni che sancirono la vittoria del partito Nazionalsocialista, non sarebbe più stata lo stesso paese. Quel giorno segnò una fine e insieme un inizio: da un lato Hitler fece precipitare l’Europa verso una mattanza senza precedenti e di converso Roosevelt accompagnò l’America verso il New Deal con una politica economica che introdusse come modello di sviluppo il welfare.
La Germania veniva da alcuni anni di prosperità nei quali si era indebitata, prevalentemente con gli Stati Uniti, per pagare le riparazioni della I Guerra mondiale. Anni che però avevano alle spalle il lungo periodo di iperinflazione (1919-1923), le cui prime avvisaglie si ebbero già nel 1915 per una politica del credito espansiva finalizzata al finanziamento della guerra e utile anche a proteggere le riserve auree del paese. Per dare l’idea dell’imponenza del fenomeno basti pensare che ogni mattina, nel 1923, i giornali pubblicavano la lista dei prezzi del giorno; per ogni settore commerciale e nell’ambito di ciascuno di essi, per ogni categoria di merci, si doveva moltiplicare per un indice diverso. Per il più banale degli acquisti in un negozio occorrevano due o tre minuti di calcoli e, una volta calcolato il prezzo venivano impiegati altri minuti per contare le banconote necessarie per pagare.
Così gli indumenti per coprirsi divennero più essenziali della democrazia e il cibo più necessario della libertà, tanto che in una lettera del 24 luglio 1933 il cardinale Michael von Faulhaber indirizzata a Hitler, dichiarava “Quello che il vecchio sistema parlamentare e partitico non è riuscito a compiere in sessant’anni, lo ha ottenuto in sei mesi la Vostra lungimiranza di uomo di stato”.
Non c’è dubbio che l’impressionante parallelo è da un lato un monito e dall’altro ci dice che quella che deve essere potenziata è una visione non contabile dell’Unione Europea, che rimane la più rilevante ideazione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per irrobustire tale ideazione gli stati membri hanno bisogno di rafforzarne le strutture politiche e gli stati nazionali devono rinunciare in modo consapevole, con il coinvolgimento dei cittadini, a spazi di sovranità.
Il lavoratore manuale è un lavoratore tedesco del 1933; l'ultimo governo parlamentare di Weimar - la Grande Coalizione - fuu diretto dal socialdemocratico Hermann Müller e il Presidente ottantaquattrenne rieletto era Paul von Hindenburg. Un aiuto a ripercorrere le analogie richiamate vengono dalla biografia di Hitler di Ian Kershaw, dal libro di Adam Fergusson Quando la moneta muore e dallo storico Martin Broszat con il suo lavoro che va Da Weimar a Hitler.
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