Un opuscolo in italiano, al primo giorno di lavoro. Oppure solo i tappi per le orecchie, e via nel reparto. La sicurezza in fabbrica raccontata dagli immigrati
Ogni giorno in Italia ci sono 2500 incidenti sul lavoro, 27 i lavoratori che restano invalidi in modo permanente, 3 quelli che ci muoiono. A provocare morti e malattie, anche se la causa scatenante è intervenuta molto tempo prima, c’è poi l’esposizione a sostanze nocive per inalazione e contatto. Responsabilità innanzitutto delle aziende, ma anche imprudenze ed errori dei lavoratori in gran parte dovuti – dicono studi attendibili - a scarsa e inadeguata formazione. Un problema enorme in un paese dove le imprese che si occupano di formare i propri dipendenti sono solo il 32% ( 47% in Spagna, 74% in Francia, 90% nel Regno Unito ). E dove sono in aumento lavori atipici e temporanei in cui sia l’impresa che il lavoratore hanno poco interesse ad investire in attività formative. E poi, come si fa concretamente la formazione per la sicurezza? Che cosa si insegna, per esempio, a chi entra per la prima volta in un reparto? E quale attenzione si riserva a come sono le persone, se hanno o no un’istruzione, se hanno già esperienza di quei tipi di lavorazione, se capiscono davvero quello che gli viene detto sul funzionamento delle macchine, sui dispositivi di protezione individuale, sui rischi che possono correre loro stessi e far correre agli altri?
Parecchie cose attorno a questi temi ce le dice l’indagine di Riconversider condotta d’intesa con Fim, Fiom,Uilm in aziende lombarde e venete di tipo metallurgico – il settore industriale a più alto tasso di incidenti. A parlare, per una volta, non sono politici o giornalisti, ma Rsu, rappresentanti sindacali della sicurezza, e anche lavoratori. Lavoratori immigrati, perché questo è il fuoco dell’indagine: capire perchè è così alta la frequenza di incidenti che colpiscono i lavoratori stranieri, verificare se pesano comportamenti derivanti dall’estraneità di alcuni gruppi nazionali alla cultura industriale, indagare come si svolge la loro formazione alla sicurezza. Un buon approccio, utile per tutti, lavoratori italiani compresi.
“Nella mia fabbrica – dice un delegato sindacale – quando si assumono dei lavoratori stranieri nessuno accerta se uno sa l’italiano oppure no, gli danno i tappi per le orecchie e le scarpe e lo mandano in reparto, con il capo che lo affianca, un’ora o una giornata intera, dipende da com’ è il lavoro... gli dice di guardare come fanno gli altri... la formazione alla sicurezza non si fa subito, può succedere anche molto dopo, quando è programmato il corso per l’antincendio o la 626 o un’altra cosa... corsi uguali per tutti, si capisce, immigrati e italiani". Siamo in Veneto, fonderia, più del 35% i lavoratori stranieri. In un’altra azienda, sempre siderurgica, sempre veneta, come vanno queste cose lo racconta un pakistano – nell’università del suo paese ha studiato statistica, qui è operaio comune – che ci lavora da quattro anni : “...il primo corso sulla sicurezza l’ho fatto solo l’anno scorso, quando sono entrato non c’era niente... mi hanno dato un opuscolo, solo in italiano, e poi mi hanno fatto firmare che avevo avuto l’informazione sui rischi... per noi stranieri è un problema... io quando leggo e non capisco non chiedo agli altri, nessuno di noi chiede agli altri.. all’inizio capivo solo i disegni, per fortuna c’era un vecchio operaio che mi ha aiutato... negli altri paesi quello che serve per la sicurezza lo scrivono nelle diverse lingue, anche quattro o cinque, magari in inglese, tanti di noi lo capiscono perchè l’hanno studiato a scuola.. non si può fare così, è troppo pericoloso. Quando è stato assunto un altro pakistano, l’hanno portato da me e mi hanno detto di spiegargli il lavoro.. ma anche i corsi per la sicurezza dovrebbero farne di speciali per noi immigrati perché gli italiani capiscono mentre noi diciamo subito che abbiamo capito anche se non è vero... o se no farci prima imparare l’italiano”.
Non va così dappertutto, per fortuna. Le parole dei delegati e degli operai srotolano anche qualche storia diversa, che tiene conto del fatto che nell’industria meccanica veneta, per esempio, gli occupati stranieri dal 2000 al 2007 sono più che raddoppiati, da 20.820 a 42.410. Una “babele linguistica “, dice un delegato, in cui qualcosa comincia però a andare nel verso giusto. “Da noi hanno fatto un corso di italiano chiesto dall’azienda, tre mesi fuori dall’orario di lavoro...il corso l’ha fatto la regione o il comune.. comunque da noi appena uno viene assunto gli fanno un test per sapere cosa sa di italiano e anche cosa capisce di macchine e motori..e finché uno di italiano non ne sa abbastanza non viene messo su certi lavori... ci sono troppi pericoli in certi reparti, e dall’errore di uno dipende la vita di tanti”. Ma su una ventina di casi aziendali sono pochine le situazioni in cui sembra non ci sia sottovalutazione dei rischi , formazione tempestiva, attenzione – nel caso degli stranieri – alle competenze linguistiche. Tanti, per esempio, dicono che ci sono problemi anche per gli italiani, con corsi fatti in fretta – poche ore per moltissime nozioni - , nessuno che ti dica che cosa succede se un certo dispositivo per la sicurezza personale non viene usato regolarmente o se, per fare più in fretta, aggiri qualche regola, e si comincia a lavorare sapendone troppo poco del ciclo produttivo, dell’organizzazione del lavoro e delle macchine. Con capi che qualche volta i nuovi assunti li prendono davvero in carico, e altre volte invece se la cavano in poche battute. Quanto agli operai stranieri, i problemi vengono anche dal fatto che raramente vengono assunti stabilmente dopo un contratto di apprendistato o a tempo determinato, come succede per lo più agli italiani. La maggioranza arriva all’azienda dal lavoro interinale o dalle cooperative, e quindi chi assume dà per scontato che abbiano già esperienza e che conoscano la lingua. Ma le cooperative, quasi sempre di un unico gruppo nazionale – ce ne sono di soli bosniaci, bengalesi, polacchi, senegalesi – non sono luoghi dove si impara l’italiano. E anche le agenzie interinali, che pure di risorse per la formazione ne hanno in abbondanza, ne utilizzano assai poche per la formazione linguistica. Il resto lo fanno processi di inserimento che, anche se migliorati rispetto ad anni fa quando di formazione per la sicurezza non ce n’era quasi niente, sono casuali o troppo brevi o fatti prevalentemente di lezioni astratte che sono poco utili. Anche per gli italiani, anche se per loro ovviamente va decisamente meglio. Ma ci vorrebbero, come sugli aerei, non solo opuscoli ma anche filmati. Non solo in italiano, ma anche in altre lingue. E magari il buon esempio, dei capi e degli operai più anziani , che non sempre c’é.
In entrambi gli studi, quello sulle aziende lombarde e quello sulle aziende venete, si è anche cercato di capire se il maggior coinvolgimento negli incidenti degli operai stranieri derivi da fattori soggettivi: come il fatto di non avere alcuna esperienza pregressa di organizzazione industriale del lavoro, o di prendere troppo sottogamba regole e disciplina. Le risposte sono ovunque più o meno le stesse. Ci sono, è vero, lavoratori che non hanno mai visto prima il lavoro in fabbrica – come del resto parecchi giovani italiani – e che vengono da paesi poveri di sviluppo industriale come quelli dell’Africa subsahariana, ma in genere gli stranieri fanno una grande attenzione, almeno all’inizio, a rispettare le regole. Molti , del resto, e più spesso di quanto non si immagini, hanno storie scolastiche e professionali che garantiscono della capacità di disciplina e di autocontrollo. Semmai è più tardi che prendono le cattive abitudini degli operai italiani, specie quelli più giovani. I problemi più seri sono altrove. Nel fatto – richiamato da diverse testimonianze raccolte da Riconversider – che gli immigrati vengono solitamente collocati nei reparti di maggior rischio e nelle postazioni di lavoro più dequalificate (le stesse che vengono per lo più tagliate fuori dalla formazione continua ) e che sono soggetti a turni e ritmi più stressanti (“qualche volta li vediamo addormentarsi sul posto di lavoro") : e che tutto ciò si verifichi sopratutto per la loro maggiore disponibilità a orari prolungati, a straordinari, al lavoro notturno e festivo (“capita perfino che accettino di fare un secondo turno dopo il primo”). Perché il lavoro è importante per il permesso di soggiorno, il mantenimento delle famiglie lontane, la scuola per i figli. Perché si deve negoziare con l’azienda la possibilità di cumulare tutte insieme le ferie di due-tre anni per poter tornare nei paesi d’origine : e dunque si accettano anche le condizioni che i nostri rifiutano. Ma pesa, e parecchio, anche il fatto che molti degli operai stranieri, in quanto dipendenti da imprese esterne di pulizia, manutenzione impianti, trasporti, lavorano in fabbrica ma senza conoscerne l’intero ciclo produttivo e il funzionamento degli impianti. Fuori dalla possibilità di essere coinvolti nella formazione strutturata che riguarda solo i dipendenti in organico, estranei alla trasmissione delle conoscenze dai più ai meno esperti , tagliati fuori – finché non imparano la lingua – da molte informazioni e relazioni. Un quadro complesso, pieno di sfumature, che dice molto sulla sicurezza nel lavoro, su che cosa è oggi il lavoro in fabbrica, su come bisognerebbe fare la formazione. Meglio tenerlo a mente, quando si discute – e si litiga - di norme e contratti.
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