Nell’era in cui gli uomini della Goldman Sachs e affini sono al vertice di governi e istituzioni, il conflitto è sedato, la giustizia sociale sostituita dal mantra della competitività, la concertazione collettiva svilita. Come e perché l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul profitto
«Ogniqualvolta un notabile di Coketown si sentiva maltrattato – vale a dire, ogni volta che non gli si permetteva di fare il comodo suo e si avanzava l’ipotesi che potesse essere responsabile delle conseguenze dei suoi atti – si poteva star certi che costui se ne sarebbe uscito con la terribile minaccia che, piuttosto, avrebbe “gettato tutti i suoi beni nell’Atlantico”»
C. Dickens, Hard Times. For These Times, 1854
Il conflitto capitale-lavoro e la scelta della Costituzione
La storia della destrutturazione dei rapporti di lavoro è ormai lunga, dalle prime leggi sulla flessibilità al c.d. collegato lavoro, dalle concertazioni sul welfare agli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori. Il lavoro, che la Costituzione disegna come strumento di dignità della persona e mezzo di emancipazione sociale, come fondamento della «Repubblica democratica» e trait d’union fra democrazia politica e democrazia economica, è sempre più solo merce. Il diritto dei lavoratori, che evoca diritti e garanzie, che ha come soggetto non la vendita di mano d’opera quanto la vita delle persone, è mistificato nella retorica dei lavori, della competitività, della “libertà” contrattuale del singolo lavoratore. La precarietà si ammanta e diviene flessibilità, quando non vuole essere ancor più affascinante e si fa flexicurity. La piena occupazione è sostituita dalla «propensione ad assumere» che, nel quadro dell’«efficientamento del mercato del lavoro», passa «attraverso una nuova [de-]regolazione dei licenziamenti» (così nella Lettera inviata dal governo italiano all’Unione europea, 26 ottobre 2011). Datori di lavoro e sindacati (nelle loro sigle maggiormente rappresentative a livello nazionale) concordano nel centrare le relazioni industriali sul profitto delle imprese (la loro competitività e produttività), nella prospettiva ordoliberale che da ciò possano discendere benefici per l’occupazione e le retribuzioni (per tutti, da ultimo, l’Accordo siglato il 28 giugno 2011 tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil).
Si è imposto, e si è optato, con il consenso o la tacita connivenza dei gruppi dirigenti delle principali forze politiche, per un modello che traduce nelle relazioni industriali il libero mercato. Dopo lo svuotamento del significato dell’art. 41 Cost., ormai così reinterpretato a tutela della libera concorrenza da non aver più nemmeno bisogno di essere modificato, si rovescia la Repubblica fondata sul lavoro (art. 1 Cost.) nella Repubblica fondata sul profitto.
Occorre recuperare la prospettiva della Costituzione fondata sul lavoro, anche contro i rapporti di forza e il vuoto di idee e di alternative che oggi dominano, sia nel contesto economico-sociale sia nel mondo politico sia nel pensiero. Non si tratta della nostalgia per un tempo che fu, ma di muovere dalla consapevolezza che la volontà di accantonare la Costituzione, una Costituzione mai attuata, se non in minima parte, nel decennio di “disgelo” degli anni Settanta, non esprime altro che la volontà di riscrivere i termini del conflitto sociale. Certo, i rapporti fra le parti sono mutati, ma proprio per questo oggi è più che mai necessario ricordare l’esistenza del conflitto, contro la retorica mistificatoria della concertazione, della governance, o dei governi tecnici.
Il conflitto è negato, assorbito, sedato, ridotto al silenzio: sindacati e “padroni” «assumono la prevenzione del conflitto come un reciproco impegno su cui il sistema partecipativo si fonda» (sic l’Accordo di Mirafiori del 23 dicembre 2010). È un conflitto che contrappone lavoratori sempre più frammentati e deboli ad un potere sempre più pervasivo ed arrogante, un biopotere legibus solutus. La Costituzione testimonia l’esistenza del conflitto, lo assume come un dato, giuridicamente non irrilevante, e disegna un progetto nel segno della limitazione del potere, politico ed economico. Nel conflitto capitale-lavoro la Costituzione prevede esplicite garanzie a tutela del lavoratore e si esprime per un progetto di riduzione delle disuguaglianze e di emancipazione sociale che “favorisce” il soggetto svantaggiato, non rimettendo interamente la risoluzione del conflitto ai rapporti di forza tra le parti.
Il mantra della competitività e i sindacati aziendali
Oggi la giustizia sociale scompare, sostituita dal mantra della competitività. Nel nome del dio competitività si recepiscono le indicazioni della lettera della Banca Centrale Europea al Governo italiano del 5 agosto 2011 e si avvia la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con la contrattazione aziendale. L’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 (non sottoscritto dalla Cgil) aveva del resto già introdotto la derogabilità del contratto nazionale e la preferenza per il secondo livello di contrattazione, e il governo Monti, in perfetta continuità, si propone di «perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro» (Dichiarazioni programmatiche del Governo, 17 novembre 2011). Tutto ciò è coerente con un vero e proprio stravolgimento di senso della contrattazione collettiva, finalizzata non alla tutela dei lavoratori ma alla predisposizione della merce-lavoro necessaria alla produzione.
Attraverso il contratto collettivo i lavoratori oppongono la forza del numero al possesso dei mezzi di produzione. Oggi la ratio riequilibratrice della contrattazione collettiva scompare dietro la finzione di contraenti in condizioni di parità e accomunati dal medesimo obiettivo. Il contratto collettivo diviene uno strumento, si potrebbe dire, ex parte “padrone”. Libertà contrattuale e lavoro autonomo occultano condizioni sempre più servili del lavoro dipendente; dietro la libertà della partita Iva si nasconde un’alienazione totalizzate del lavoratore. Del resto, quale libertà contrattuale può esserci in presenza di una differenza sostanziale nel potere contrattuale? Mirafiori e Pomigliano docent.
Resta il diritto di sciopero, o meglio, restava: perché con le «clausole di tregua sindacale» è inibito il suo profilo collettivo, il suo utilizzo come strumento di coazione per bilanciare il minor potere contrattuale dei sindacati. Il diritto di sciopero diviene un diritto disponibile, rimesso alla contrattazione fra le parti, in coerenza con il disegno che lo vuole alla pari del diritto di serrata (come nell’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), nella prospettiva di una libertà cieca alle disuguaglianze. È la logica della “libera” competitività, in nome della quale fra l’altro i lavoratori devono competere fra loro per «cercare lavoro», in un orizzonte dove il diritto al lavoro è sostituito dal «diritto di lavorare» e dalla «libertà di cercare un lavoro» (art. 15 Carta dei diritti fondamentali): un mero diritto di libertà negativa, una possibilità dell’individuo, senza alcun obbligo o vincolo per le istituzioni.
Senz’armatura e senz’arma, dunque, il lavoratore, ma la storia è magistra vitae: i lavoratori unendosi hanno costruito armature ed armi. Coerentemente, allora, la destrutturazione e l’indebolimento si rivolgono anche alle associazioni sindacali. Attraverso la concertazione si persegue l’obiettivo di smussare le rivendicazioni sussumendo i sindacati nel governo delle relazioni industriali, frammentandone se del caso l’unione ed escludendo i sindacati più riottosi ad accettare il ruolo di negazione/assorbimento del conflitto. Ad essere colpiti sono sia l’autonomia sia il pluralismo sindacale, costituzionalmente garantiti e promossi dall’art. 39 Cost.
Si attaccano autonomia ed indipendenza del sindacato e si favoriscono i sindacati aziendalizzati, nel duplice senso di frammentati a livello di azienda e di complici dell’azienda. Emblematici gli accordi separati della Fiat, che mirano all’esclusione della Fiom, sindacato “scomodo” (esclusione considerata antisindacale dal Tribunale di Torino in relazione al sito di Pomigliano). Non solo, si riducono gli spazi di democrazia sindacale, nel senso di partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione delle relazioni industriali.
Diritti flessibili e derogabilità della legge
Se il quadro di riferimento è questo, non dovrebbe stupire la spudoratezza del passaggio successivo: la «politica di sviluppo adeguata alle differenti necessità produttive» è «da conciliare con il rispetto dei diritti e delle esigenze delle persone» (Accordo del 28/06/2011). I diritti, inviolabili, indisponibili, inalienabili, sono degradati al rango di benefici – di ottocentesca memoria – da modulare, in spregio all’inviolabilità e all’eguaglianza. Diritti flessibili? È la prospettiva del governo Monti, che constata l’esistenza di un mercato del lavoro duale, dove alcuni sono totalmente privi di tutele e altri sono «fin troppo tutelati». Come dire, la risposta alla precarietà è diminuire le garanzie legate alla stabilità, nella prospettiva per cui non è un diritto ma un (indebito) privilegio.
Il quadro è completato con la riduzione dello spazio della legge a favore della contrattazione collettiva. Il ritrarsi della legge apre le porte ad una diminuzione delle garanzie e in periodi, come l’attuale, di debolezza delle forze del lavoro non può che veicolare un peggioramento delle condizioni di lavoro (i c.d. give-back agreements). Tutto ciò senza dimenticare che in presenza di un sistema elettorale con effetti maggioritari come il Porcellum e di un sistema partitico bipolare, tendenzialmente centripeto, sono già ridotte le possibilità delle classi più deboli di veder rappresentati i propri interessi in Parlamento. Non solo: la legge diviene derogabile dalle parti (art. 8, legge n. 148 del 2011, c.d. manovra finanziaria-bis). Norme flessibili? Regole sfuggenti e informali funzionali ad un sistema economico che plasma diritto e politica? Svanisce il diritto che conforma il fatto e ragiona di interessi generali, sostituito da un diritto prostrato agli interessi privati di una (sempre più) ristretta oligarchia economica. Il diritto diviene fluido, pronto a liquefarsi quando lo richiedono gli interessi del mercato. Si ragiona di medievalizzazione e privatizzazione del diritto, in coerenza con un mondo del lavoro neofeudale, dove ciascuna azienda costituisce un feudo a sé stante. L’impresa, con un sindacato locale, magari creato ad hoc, si dota di un proprio “non diritto del lavoro”, disponendo delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori. Un biopotere aziendale. Come in ogni feudo che si rispetti anche la giustizia è amministrata dal signore feudale e qui soccorre la legge n. 183 del 2010, il c.d. collegato lavoro, con l’“incentivazione” a ricorrere all’arbitrato e la facoltà di decidere secondo equità.
Il lavoratore, novello vassallo dell’era Marchionne
Diritti flessibili, norme fluide, corporativizzazione delle relazioni industriali, contratto collettivo parcellizzato, quando non individualizzato: verso rapporti di lavoro vassallatici? La liquidazione del lavoro come mezzo di emancipazione destruttura le fondamenta della democrazia e della Costituzione. Nulla di strano, anzi coerente con un’epoca in cui evapora la distinzione pubblico-privato (a vantaggio del secondo, ça va sans dire), l’economia domina la politica, e si ragiona, come detto, di medievalizzazione del diritto e di neofeudalizzazione delle relazioni industriali. In un mondo in cui tutto è sempre più privato, dall’acqua alla sicurezza, dalla giustizia alla moneta, il lavoro non può che (tornare ad) essere servile. La fictio di una artificiale parità fa da sfondo ad meccanismo conciliativo-concertativo dove la negazione del conflitto segna il dominio della parte più forte. Nell’era in cui gli uomini della Goldman Sachs e affini sono al vertice di governi e istituzioni definite tecniche e neutrali, i vari Marchionne spadroneggiano nelle loro terre. Per fortuna la storia non è finita, è in continuo movimento: schiavi e dannati della terra si sono sempre ribellati.
Una versione più ampia di questo articolo è in www.costituzionalismo.it, 3/2011
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