Pubblichiamo una sintesi dell’intervento all'assemblea nazionale di "Lavoro e libertà", che si è tenuta a Torino il 28 maggio 2011
Il lavoro è un elemento fondativo della nostra Repubblica. La nostra Costituzione tutela il diritto al lavoro e i diritti dei lavoratori. Dal dopoguerra il diritto del lavoro ha percorso una lunga strada, il cui momento più esaltante è lo Statuto dei lavoratori del 1970, quando la Costituzione entrò in fabbrica, determinando un cambiamento profondo: il riconoscimento della libertà dell’azione sindacale e della dignità del lavoro. A partire dagli anni ’80, però, sono stati fatti significativi passi indietro. È un fenomeno che ha coinvolto tutto il mondo industrializzato e ha toccato l’Italia con un certo ritardo ma, negli ultimi anni, in modo particolarmente grave.
Il lavoratore-usa e getta
Il predominio del pensiero liberista avviato con la svolta di Thatcher e Reagan ha posto al centro dell’attenzione il mercato che, con la sua ipotetica “mano invisibile”, sarebbe in grado di risolvere ogni problema. Tuttavia il mercato lasciato a se stesso, la cosiddetta deregolamentazione, altro non è stata che riscrittura delle regole a vantaggio dei più forti. L’idea di mercato ha ormai preso il posto delle relazioni sociali; gli obiettivi politici di integrazione sono venuti meno in nome del funzionamento del mercato. Col tempo si è consolidata l’idea che la pressoché illimitata flessibilità/precarietà del lavoro sia condizione necessaria per far fronte alla competizione internazionale e sia funzionale alla crescita dell’economia. Al lavoro come vettore di realizzazione dell’individuo si è andata sostituendo la figura del lavoratore-merce usa e getta. In questa ottica il lavoratore non è più al centro della considerazione sociale: il baricentro si è spostato sull’impresa e sulle sue esigenze di profitto a cui si contrappone, caso mai, non il lavoratore o il cittadino bensì l’individuo-consumatore. Anche per gran parte della sinistra lo storico conflitto lavoro-capitale è stato progressivamente sostituito da una pretesa conciliazione fra gli interessi dell’impresa e quelli del consumatore. Da più parti si sostiene che è definitivamente tramontata l’epoca dell’identificazione delle persone con il lavoro, che la realizzazione dell’individuo passa per altre vie, in particolare attraverso il modello di consumo. L’idea di poter separare il consumo dal lavoro, di considerare il consumo come elemento identitario a sé ha rivelato tutta la sua debolezza con la crisi finanziaria. Con la finanziarizzazione dell’economia si è creata l’illusione di poter creare ricchezza senza lavoro, di poter separare insomma il lavoro dal consumo. Negli Usa anche i poveri potevano accedere al consumo attraverso il credito facile e i guadagni sui mercati finanziari erano in grado di favorire consumi disgiunti dai ruoli produttivi. In questa ottica il lavoro ha subito una crescente svalutazione, ma con la crisi è emersa l’insostenibilità di tale situazione. Tale meccanismo è stato proprio una delle cause della recessione in corso, che ha rivelato quanto questo sistema fosse fragile e instabile.
Le regole del mercato
In Italia l’arretramento nell’applicazione delle norme costituzionali relative al lavoro è vistoso. Domina ormai il modello secondo cui la tutela del lavoro, la formazione professionale e la salvaguardia del livello delle retribuzioni non competono allo Stato bensì al mercato. Nel “Libro Bianco sul mercato del lavoro” del 2001 si sostiene l’esigenza di un cambiamento radicale del sistema di tutele di cui godeva il lavoratore dipendente, trasformando il sistema di regole costruito a partire dal dopoguerra su cui si reggevano i rapporti di lavoro in un sistema di tutele operanti nel mercato. Nasce l’idea di sostituire allo statuto dei lavoratori lo statuto dei lavori, che anche da un punto di vista semantico implica un distacco del lavoro dal lavoratore come persona. Con la legge 30 del 2003, la cosiddetta “legge Biagi”, si rompe ogni argine: si moltiplicano i contratti atipici, viene meno la concezione del lavoro come elemento di realizzazione dell’individuo, si afferma l’idea che è meglio un lavoretto precario e sottopagato che niente. La logica della liberalizzazione “secondo le regole del mercato” ha indebolito il potere contrattuale dei lavoratori, in particolare di quelli meno qualificati, che hanno conosciuto un impoverimento crescente in assenza di un adeguato sistema di ammortizzatori sociali.
Precario non è costituzionale
Si è cancellata l’idea di quello che l’Ilo chiama il decent work, il lavoro dignitoso, che è poi l’unica idea di lavoro, perché senza diritti il lavoro non è tale. Si è invece insinuata l’idea secondo cui l’importante è che la flessibilità non si trasformi in precarietà, è necessario che si attivi un sistema adeguato di ammortizzatori sociali. Ma questa idea, che ormai è radicata anche in gran parte della sinistra, è inaccettabile e lontana anni luce dall’idea di lavoro contenuta nella nostra Costituzione. Perché gli ammortizzatori sociali potrebbero risolvere i problemi materiali dell’intermittenza del reddito, ma il lavoro non è solo fonte di reddito, è un elemento identitario e fonte di realizzazione della persona. La cosiddetta flexsecurity altro non è che un velo sottile steso sulla precarietà: non elimina la precarietà, la rende solo un po’ meno gravosa, al massimo può dare la certezza del reddito, ma non soddisfa le esigenze di realizzazione del lavoratore. Ricordiamo peraltro che in Italia siamo ben lontani anche dall’aver realizzato una qualche forma di flexsecurity. Non è garantita ai lavoratori precari né la continuità del reddito, né il diritto a una pensione decente. I diritti legati al lavoro e le forme di protezione sociale garantiti dalla Costituzione stanno diventando sempre più deboli. Solo il lavoro stabile consente all’individuo di autodefinirsi nella società: esperienze di lavoro frammentarie e discontinue impediscono l’affermazione dello status di lavoratore, ne indeboliscono il ruolo e il senso di appartenenza alla società, sottraggono al lavoratore l’identità sociale e ostacolano il miglioramento della formazione professionale dei lavoratori.
La sottile coperta dei diritti
La precarietà, il lavoro flessibile e instabile che ormai investe un numero crescente di persone, ha trainato anche il mondo dei lavoratori “garantiti” a tempo indeterminato. Ed è così che spesso ci si sente ripetere che è necessario assicurare più diritti ai lavoratori flessibili mentre i lavoratori stabili dovrebbero rinunciare a qualche diritto a favore dei precari, quasi che i diritti fossero una coperta che si può tirare da una parte o dall’altra. Invece è proprio il contrario. Se si erodono i diritti di qualcuno, col tempo l’erosione dei diritti si estende, la coperta si restringe, si logora, diventa più sottile. È successo con la legge 30/2003: si sosteneva che i nuovi contratti di lavoro avrebbero favorito l’emersione del lavoro nero, si toglievano diritti a chi ne aveva per darne qualcuno a chi ne era privo. Ciò non è avvenuto ovviamente. Altrettanto emblematico è il caso Fiat, prima con Pomigliano, poi con Mirafiori e Bertone. L’erosione dei diritti si estende a macchia d’olio e, una volta rotti gli argini, risulta sempre più difficile arrestare la deriva del lavoro.
L'"artigiano" di Sennett
Il lavoro decente e dignitoso fa bene anche all’economia, perché crea l’identificazione del lavoratore con il lavoro, crea – per dirla con Sennett – “l’uomo artigiano”, l’uomo che ricerca per sé e per la propria soddisfazione il lavoro fatto ad arte, che, attraverso un processo continuativo di apprendimento, realizza al meglio l’oggetto del suo lavoro, qualunque esso sia. Se da un lato questa è la condizione necessaria per il lavoratore per creare e difendere la propria identità, d’altro lato costituisce anche la condizione necessaria per il buon funzionamento dell’attività produttiva. Il lavoro svolto senza identificazione del lavoratore con la sua attività, senza interesse, giusto perché deve essere fatto per avere un reddito è frustrante per il lavoratore ma è anche poco produttivo. La crescente svalutazione del lavoro in Italia è una delle fonti dell’arretramento della nostra economia. è nel lavoro e nella crescita professionale sul lavoro che si manifesta l’identità degli individui ed è proprio la formazione professionale (di cui tratta l’art. 35 della Costituzione) che, con la ricerca, permette lo sviluppo dell’economia. Il lavoro continua a essere alla base dello sviluppo economico ed è illusorio pensare che il progresso tecnologico comporti la fine del lavoro. Anzi, la riconversione dell’economia in un’ottica ambientalista, così come il soddisfacimento di molti bisogni sociali ancora negati, richiederà notevoli input di lavoro. Si noti inoltre che la compressione dei salari che deriva da questo modello ha avuto come conseguenza anche la compressione dei consumi e il ristagno dell’economia. Non solo, è venuto meno anche lo stimolo all’innovazione che normalmente trova un elemento propulsivo nella crescita dei salari. Si è affermato così un modello produttivo basato sulla precarietà e sul basso costo del lavoro, modello che ha portato a un netto peggioramento della posizione dell’economia italiana nel contesto internazionale.
Necessità del modello partecipativo
Ci troviamo ormai in una situazione in cui si richiede al lavoratore solo di farsi carico dei rischi e degli oneri degli imprenditori, ci si appella alla contrattazione decentrata per abbassare i salari, mentre nei momenti in cui le imprese hanno fatto utili si sono ben guardate dal proporre un modello partecipativo. Si tratta di una visione miope della classe imprenditoriale italiana, considerato anche che il modello partecipativo rinsalda la pace sociale e favorisce la crescita.
Tanto la Costituzione, quando fu redatta, dava centralità al lavoro, tanto questa centralità è oggi negata: rimettere il lavoro e i lavoratori al centro è dunque la priorità se si vuole ridare dignità e sviluppo al Paese.
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: old.sbilanciamoci.info.
Vuoi contribuire a sbilanciamoci.info? Clicca qui