Scuole superiori: non è una riforma, è un aggiustamento dell'esistente. Resta il buco nero delle medie, resta la gerarchia tra licei, tecnici e professionali, si archivia la società della conoscenza, si accentua il rischio che a 14 anni già tutti i giochi si chiudano. Mentre dovrebbero aprirsi, per il futuro del paese
Non occorrono chissà quali prevenzioni ideologiche per dubitare che i nuovi regolamenti per la scuola superiore meritino la definizione di riforma. Basta assai meno. Basta sapere che in un sistema educativo fanalino di coda in Europa - per risultati di apprendimento e numero di dispersi - c’è un assoluto bisogno in tutta la secondaria di un salto di qualità della didattica, di un mutamento radicale dei suoi paradigmi. Che vuol dire tante cose - formazione professionale e ricambio generazionale degli insegnanti, sistemi scientifici di valutazione, tecnologie, laboratori - che non sono però nell’agenda di un governo determinato a impoverire di risorse professionali ed economiche la scuola pubblica. Eloquenti, del resto, i tempi e i modi di attuazione dei regolamenti, che il prossimo settembre coinvolgerà le prime classi imponendo contemporaneamente – tranne ai privilegiati licei – riduzioni di orari e discipline anche nelle successive.
Al di là del merito (la riduzione di troppe discipline segmentate è di buon senso, e lo è anche l’alleggerimento orario nei professionali e tecnici), tutto ciò renderà impraticabile ogni tentativo di recuperare quello che di buono si è realizzato nei lunghi anni di innovazioni “senza riforma”. Non è previsto, e si è deciso altrimenti nei molti mesi di ripetute limature dei testi. Irragionevolmente. Se era necessario porre fine a quell’abnorme diversificazione sperimentale di indirizzi e titoli di studio (più di 300) che disorientava anche il mondo del lavoro, il riordino era l’occasione per far tesoro delle esperienze di successo. Le sperimentazioni Brocca, per esempio, quelle del piano nazionale di informatica e diverse altre, dovevano essere riviste, non azzerate. Ma ora non ci sono i tempi. E in futuro è probabile che non ci saranno i mezzi, anche se sono ampi (dal 25% al 45% dell’orario, secondo gli indirizzi) gli spazi di flessibilità previsti dai regolamenti. Intanto, da qui a settembre, è già tanto se le scuole riusciranno a chiarirsi le idee. E di qui alla scadenza di marzo delle iscrizioni anche per le famiglie non sarà una passeggiata.
Arroganza politica, indifferenza burocratica, disprezzo per le risorse di professionalità che ci sono in molte scuole? C’è anche questo, oltre all’obbligo per Gelmini di portare il prima possibile a casa tutti i previsti risparmi di spesa e di impedire che si aprano subito varchi a nuove richieste. Va ricordato che l’attuazione dei regolamenti solo nelle prime invece che in prima e seconda come era nella decisione iniziale, è il risultato di opposizioni arrivate da ogni parte, compreso il (mai eversivo nei suoi quarant’anni di storia ) Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione.
Ma i commenti centrati solo su questi aspetti non danno conto dei danni dell’aver liquidato ogni idea di rinnovamento strutturale - durata, articolazione, collegamento con il primo ciclo di istruzione – gabellando per novità quello che non è altro che la stabilizzazione dell’assetto attuale. Resta la ripartizione rigida e incomunicante tra licei, tecnici, professionali e il loro ordine gerarchico, di tipo sociale ma anche funzionale a ribadire la superiorità della formazione umanistica su quella scientifico-tecnica, e l’inferiorità del sapere professionale orientato al lavoro. Gentile è ancora tra noi, anche se da allora è cambiato il mondo, e nonostante gli effetti di una scolarizzazione di massa iniziata mezzo secolo fa. Riesumato, di conseguenza, lo scenario di un lavoro immutabilmente divaricato tra le professioni liberali, i ruoli tecnici intermedi, i mestieri operativi che non hanno bisogno di troppa cultura e di troppi fondamenti scientifici. Eppure quello che sappiamo delle relazioni vitali e reciproche tra scienze e tecnologie, le previsioni (ultima, quella del Cedefop 2009) sulla crescita inarrestabile in area europea e anche in paesi manifatturieri come l’Italia, di un lavoro che ha sempre più bisogno di competenze di base e trasversali forti, perfino la vistosa esplosione, in questi mesi di crisi e licenziamenti, delle difficoltà di riconversione e di mobilità di tanti lavoratori inchiodati da una povertà che è più culturale che professionale, consiglierebbero scelte assai diverse. Non è solo la mitica “società della conoscenza” a venire archiviata, a non trovare soluzioni neppure per il futuro è la segregazione formativa che porta immancabilmente i ragazzi dei ceti più poveri e meno istruiti nei canali di minor valore culturale e spesso anche ad abbandoni precoci (sono circa un milione i giovani adulti privi di diplomi e qualifiche, e la dispersione morde perfino nella scuola media).
Non è di un astratto egualitarismo che si sta parlando. A scaldare il cuore non è una formazione identica per tutti il più a lungo possibile, o un obbligo rigidamente dentro la scuola fino a 19 anni. Idee vecchie, anche queste. La questione è un’altra. Si tratta, pur in una diversificazione anche spiccata dei percorsi successivi alla media (e anche integrata di formazione- lavoro), di non dare per scontato che a 14 anni utti i giochi siano già fatti. Di rendere possibile nella fase incerta e complicata dell’adolescenza la reversibilità delle scelte, attraverso lo sviluppo per tutti di alcune competenze culturali fondamentali, di tutte le diverse “intelligenze”, di molti diversi linguaggi. Di restituire all’istruzione il suo ruolo di “ascensore sociale” , di sparigliamento delle appartenenze originarie, di maturazione delle capacità e dei talenti di ciascuno. Occasione – di democratizzazione e di modernizzazione – largamente perduta. Nelle due prime classi della scuola superiore, che pure fanno parte dell’obbligo di istruzione, non si prevede che accanto al campo “vocazionale” ci sia un’area formativa di valore comparabile in tutti i comparti finalizzata al conseguimento delle “competenze chiave” definite in ambito europeo . Non c’è un’integrazione tra tecnici e professionali fatta di percorsi flessibili e a più uscite secondo gli interessi e i talenti. Non c’è un curricolo verticale che colleghi il primo e il secondo ciclo di istruzione. Vince la nostalgia del passato, e l’ostinazione a conservarne perfino i simboli, fino al mantenimento per le prime due classi del liceo classico dell’evocativa definizione di “ginnasio” .
Con un’altra occasione perduta. Perché in nome, appunto, delle competenze-chiave in uscita dall’obbligo di istruzione, si doveva intervenire anche sulla scuola media, il segmento più invecchiato e meno efficace, come dimostrano gli scadenti risultati di Ocse-Pisa che rileva gli apprendimenti a 15 anni, quindi all’indomani della sua conclusione. Si doveva cambiarne struttura e durata, mettendo tra l’altro fine all’anomalia che costringe in Italia a percorsi di studio di un anno più lunghi rispetto alla media europea. Senza vantaggi in termini di qualità dei risultati e di quantità di dispersione, e con un evidente maggior peso in termini di spesa pubblica. Non sarebbe stato più intelligente ricavare da qui, se proprio si voleva farlo, una razionalizzazione degli oneri economici , invece che stressare tutta la scuola, primaria compresa? Non sarebbe stato apprezzato anche dalle famiglie e dai giovani? Ma non c’è lungimiranza, e neppure coraggio, in questo governo. Virtù del resto scarse anche altrove, visto che è dai tempi dei tentativi senza successo di Berlinguer che nella sinistra politica questi sono diventati argomenti tabù. Analogamente, non c’è chi si occupi seriamente degli effetti che produrrà la perdita da parte degli istituti professionali del ciclo triennale di qualificazione – liquidato nel 2008 da un centrosinistra pentito di una revisione costituzionale che li consegnava alla “regionalizzazione” – che spingerà i ragazzi meno propensi a impegnarsi in un percorso quinquennale verso una formazione professionale oggi inadeguata per quantità e qualità dell’offerta. Col risultato che a molti potrebbe apparire sensata e credibile persino la recente decisione del ministro del lavoro di introdurre l’apprendistato per i quindicenni senza licenza media. Anche se nessuno oggi può scommettere un euro sulla sua valenza formativa. Anche se l’odore che emana il provvedimento è quello degli anni cinquanta del secolo scorso.
Senza questo sfondo, diventa difficile, e persino frivolo, valutare il grado di sensatezza della riduzione o della soppressione dell’una o dell’altra disciplina. Mentre potrebbero portare fuori strada la maggiore presenza dell’insegnamento della lingua inglese o l’insistenza dei richiami all’apprendimento laboratoriale o a una maggiore vicinanza con il lavoro. Tutto giusto, ma astratto e condizionato da mezzi che probabilmente non ci saranno, e da professionalità che non ci sono. Chi sarà, per esempio, in grado di insegnare una disciplina non linguistica in inglese ? E dove sono gli specialisti in "lingua 2" o i nuovi insegnanti capaci di valorizzare per tutti il plurilinguismo e il multiculturalismo che la crescente presenza di studenti di provenienza straniera porta nelle aule ?
E’ però indispensabile – soprattutto per chi dovrà tentare di utilizzare al meglio i previsti spazi di flessibilità – analizzare i diversi approcci ed effetti del riordino. Il settore dell’istruzione che esce meglio è quello dell’istruzione tecnica, in cui la severa ridefinizione degli indirizzi e dei quadri disciplinari è stata sostenuta , perché imposta dalle associazioni imprenditoriali guidate da Confindustria, dal confronto con i settori economici e con gli ordini professionali di riferimento. Mentre quello che esce peggio, non troppo paradossalmente date le premesse, è quello dei licei che, pur vedendo una moltiplicazione degli indirizzi (escono finalmente dall’assetto sperimentale i licei linguistici e delle scienze umane, si introduce ex novo il liceo musicale) risente di una sconcertante miseria di idee su cosa dovrebbe essere una formazione liceale moderna. Con l’eterno ricorso al latino come fattore identitario anche fuori del classico, con l’assenza delle scienze sociali (opzione secondaria solo nel liceo delle scienze umane) e di approcci culturali coerenti con i nuovi bisogni formativi in un mondo globalizzato, non più italo o euro-centrico. Mentre il liceo scientifico resta l’ibrido di sempre, anche se gli viene regalata un’opzione di “Scienze applicate” , in verità di difficile attuazione in scuole dove mancano sia i laboratori che i tecnici per gestirli. Quanto agli istituti professionali, la drastica riduzione degli indirizzi, una distinzione dai tecnici affidata alla minore complessità dei fondamenti scientifici , la scomparsa del ciclo triennale di qualificazione professionale, ne fanno un canale dall’identità incerta, una figlio di un dio minore su cui pende un probabile destino di comprimario o supplente dei sistemi regionali di formazione professionale. Del resto esplicitamente previsto, e già sancito in Lombardia da un accordo tra Formigoni e Gelmini in cui si dice che potranno realizzare corsi di qualifica per conto della Regione .
Non sarà banale, per le scuole che non usciranno depresse e disorientate da un riordino per tanti versi così indigesto, recuperare il filo di un impegno innovativo. Ha qualche ragione chi sostiene che, in un’Italia che ha perso il gusto e la capacità di cambiare, si può solo resistere.
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