Pubblichiamo il documento della Fondazione “Claudio Sabattini” per il decennale della sua morte
Claudio morì prima della grande crisi, prima dell’alternanza tra Prodi e Berlusconi, prima insomma di un’intera fase economica, sociale e politica profondamente diversa da quella precedente. Non è nostra intenzione, quindi, pur sottolineando la vitalità del suo pensiero, di caricaturarne la figura facendone un essere dotato di capacità divinatorie del futuro.
L’attualità del suo pensiero riguarda, a nostro avviso, la sua comprensione e forte denuncia pubblica di alcune tendenze che, a iniziare dal 1992-1993, divennero, a suo giudizio, capaci di rovesciare le fondamenta stesse su cui si era costituito in Italia e in Europa, nel secondo dopoguerra, il rapporto tra Capitale e Lavoro, tra Stato, partiti e sindacati e, infine, l’insieme delle strategie socialdemocratiche e comuniste. Per usare una sua espressione “la storia del Novecento era finita negli anni ’80”, e non solo in Italia. Tali tendenze, aggiungiamo noi, erano preesistenti la crisi, forse componenti del suo sorgere e certamente amplificate e rafforzate dal suo manifestarsi.
Da questa sua solitaria consapevolezza e denuncia nasceva la proposta di una rifondazione del sindacato e della sinistra sociale in Italia e in Europa. Un’esigenza che rimane, per noi, del tutto attuale e non risolta e che richiede un percorso collettivo di elaborazione cui vogliamo dare un contributo, nel corso del 2013, attraverso una serie coordinata di iniziative, che avranno luogo nelle sedi territoriali nelle quali si è svolta la sua vita politica e intellettuale.
Prima di entrare nel merito della sua concezione di quanto stava accadendo è bene premettere che la sua produzione culturale è solo raramente in forma scritta; il tipo di lavoro da lui svolto lo portava a esprimere le sue convinzioni in relazioni agli organismi direttivi o ai congressi del sindacato, in interventi in dibattiti sindacali, politici e culturali, ed infine nei comizi nel corso degli scioperi e delle manifestazioni sindacali. Occorre forse aggiungere che la ragione di ciò sta anche in un’idea della produzione culturale sospettosa di ogni forma di irrigidimento del pensiero, di definizione di “tavole della legge”, favorevole, invece, ad un pensiero plastico, orientato alla prassi, proprio partendo da un nucleo di valori e modi di riflessione non negoziabili quali l’irriducibilità del conflitto tra Capitale Lavoro. Di qui, quindi, la preferenza verso il dialogo, verso una forma di produzione culturale di stampo socratico. Il dialogo si basa ed è possibile come autentico scambio solo a partire dalla chiarezza e nettezza delle posizioni di ciascuno, solo a partire da lì anche i compromessi pratici non diventano una pericolosa palude, diceva Claudio. La palude, infatti, è pericolosa sia nelle relazioni individuali sia, a maggior ragione, in quelle collettive; in queste ultime, infatti, si degrada la democrazia tradendo il ruolo della rappresentanza e non si risolvono i conflitti preparando il terreno a situazioni incontrollate.
La prima intuizione è quella che riguarda il cuore stesso di un sindacato, la sua capacità cioè di contrattare e stipulare un contratto. A un certo punto Claudio giunge alla conclusione che il contratto nazionale, senza la possibilità per i lavoratori di approvarlo o respingerlo in una votazione democratica, è finito. Ciò che egli intende dire è che il contratto si svuoterà vieppiù di contenuti con il rischio di diventare un totem, senza alcun reale valore, cui sacrificare sostanziali elementi dell’autonomia del sindacato e della condizione di lavoro; il problema quindi che si porrà è quello della sua riconquista come contratto dell’industria e non di una sola categoria, realizzando così un elemento di unità. Tale conclusione è figlia di una vera riflessione critica sugli anni ’80 che concerne sia il sindacato sia il rapporto tradizionale di divisione del lavoro tra sindacato e uno o più partiti “laburisti”, siano essi socialisti, comunisti, come nella tradizione europea sia continentale sia inglese. La prima osservazione critica riguarda la teoria dello scambio. Già nel 1995 Claudio, dopo il nobile tentativo confederale del 1993, avvertiva i “suoi metalmeccanici” e tutto il movimento sindacale: “che siamo di fronte all’esaurimento della politica sindacale fin qui svolta e alla necessità di una nuova proposta strategica. La linea dello scambio, inaugurata all’Eur nel ’77, non ha più alcun spazio, per la semplice ragione che non abbiamo più nulla da scambiare. È necessario allora avere il coraggio di una innovazione radicale nell’analisi e nella proposta.” Poiché aggiunge: “Siamo a una svolta profonda di trasformazione radicale dei rapporti sociali e politici, che io credo abbia un significato non transitorio, poiché punta non solo a un nuovo sistema istituzionale, ma anche a una diversa collocazione delle forze sociali in campo, a partire dal sindacato.”
Di qui il pericolo estremo di una situazione che mette in gioco: “la struttura dell’industria italiana in settori di punta, l’intero sistema contrattuale, l’esistenza stessa del sindacato”.
Ecco quindi il punto cruciale del suo pensiero, che è ancora del tutto attuale. La “politica dello scambio” tra contenimento salariale e occupazione, che non ha portato a nulla di positivo, si basa, infatti, sul riconoscimento del sindacato come istituzione sociale stabilizzatrice nell’ambito di politiche macroeconomiche che non sono più orientate né alla piena occupazione né alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e delle lavoratrici. In tale ruolo quindi il sindacato, qualunque sindacato, non può assolvere il suo compito di tutela e progresso del mondo del lavoro perché il suo potere di contrattazione è prima neutralizzato a livello centrale, per quanto concerne le dinamiche salariali, e poi progressivamente sterilizzato a livello settoriale e aziendale, per quanto concerne la condizione complessiva di lavoro. Non sfugge, infatti, a Claudio che, dopo Maastricht, L’Unione Europea sviluppa un processo d’integrazione produttiva, dominato dai grandi gruppi capitalistici produttivi e finanziari, che comporta continue ristrutturazioni dei settori e delle imprese e che l’architettura complessiva di tali accordi di scambio impedisce di affrontare con un punto di vista autonomo, basato sulla rappresentanza delle esigenze e delle volontà dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il sindacato quindi deve recuperare un potere che nasce solo dalla sua natura di coalizione sociale, basata sulla rappresentanza democratica e la militanza.
Il suo ruolo “istituzionale”, se possibile, è utile solo nel momento in cui nasce da una sua forza autonoma e non da deleghe del potere statale o dei partiti; in tal caso, infatti, il sindacato è in grado di diventare forza generale di cambiamento, di produrre, come è accaduto, reali “riforme” non solo per quanto concerne la regolazione sociale del lavoro.
Il sindacato quindi non può pensare solo a una “manutenzione straordinaria” degli assetti degli anni ’80 o alla ricerca di un “principe” amico.
Il sindacato deve rifondarsi come un’organizzazione di tutti i lavoratori e le lavoratrici, qualunque sia il loro status contrattuale, cercando quindi un’estensione della sua rappresentatività. Per fare questo deve essere un sindacato rigorosamente democratico, una democrazia di tutti i lavoratori e non solo degli iscritti. Tutto ciò non è possibile se non si è “indipendenti”. Il che presuppone una capacità di autonomia e di analisi e di «un’idea di società perché il sindacato è nato su un’idea di società». La crisi, quindi, va affrontata con un’autonomia politica, con un’autonomia di analisi e avendo un’idea di società, uno dei cui tratti essenziali è l’eguaglianza.
La concertazione, cioè la prassi di questi trent’anni almeno sino al governo Monti, quella prassi che oggi è richiesta esplicita delle Confederazioni sindacali è divenuta di fatto, secondo Claudio, ”una ideologia” che prevede “l’obbligo a concludere” come “una alternativa al conflitto” e, nell’ambito di questa concezione, “gli interessi dell’impresa vengono considerati ineludibili e generali “; essa insomma “non esiste più come accordo di concertazione tra le parti.”
Essere indipendenti è un requisito rivolto non solo ai governi e alle imprese ma anche ai partiti. L’autonomia di cui si parlava nel secondo dopoguerra, cioè quella della politica contrattuale, non è più possibile, secondo Claudio, poiché “ non esistono ormai più partiti laburisti nell'Europa mediterranea e nemmeno nel Regno Unito”. Questo per dire che il problema dell'autonomia non è più “la regola di rapporto tra sindacato e partiti politici della sinistra (..) tanto più nel luogo di lavoro.” Al contrario tutti i partiti “considerano l'autonomizzazione della politica come indipendenza dal sociale”.
Ma se questo è vero allora il sindacato non può più affidarsi alla rassicurante divisione del lavoro tradizionale per la quale il sindacato aveva il compito della redistribuzione, in specifico dei salari, e il partito politico amico quello di delineare la nuova società. Il sindacato deve essere un soggetto politico e sociale al contempo. Il che non vuol dire trasformarsi in un partito ma, accettando pienamente la propria natura di parte della società, significa avere “un proprio punto di vista sulla società e sulla sua possibile evoluzione”. Il sistema di valori fondativo del sindacato, la solidarietà, di per sé non è sufficiente “se non c'è una strategia sulla possibile trasformazione della società”. Se si accetta la propria parzialità, allora il conflitto è un valore fondante la democrazia; un pensiero autenticamente democratico, infatti, si fonda sul ritenere che una società si debba evolvere secondo “una dinamica che è alimentata dal rapporto tra società civile e società politica”. Ciò è possibile se si rifugge da ogni organicismo evitando cioè di pensare che la società civile sia un “luogo esaustivo di tutti i problemi e altrettanto vale per la società politica.” Claudio dedicò sempre più attenzione, specialmente nell’ultimo anno di vita, alla necessità crescente di avere in Italia una vera sinistra politica fortemente radicata nel mondo del lavoro, come complemento a un sindacato indipendente.
La riflessione critica va portata ancora più a fondo sino a riconsiderare il ruolo attribuito nel novecento alle politiche redistributive. Il movimento sindacale, infatti, si è spesso, soprattutto nelle situazioni di grande difficoltà, rifugiato nel campo della redistribuzione, inibendosi il campo più ampio delle trasformazioni dell’impresa e del lavoro, di quelle sociali, istituzionali e politiche. Quando ciò avviene, sia nella forma del corporativismo aziendale o categoriale sia in quella dei patti nazionali neocorporativi, il sindacato lascia all’impresa e alle sue rappresentanze il dominio sia delle modalità di lavoro che più in generale di come si organizza la società. Così facendo restringe vieppiù la sua capacità di rappresentanza e cancella la soggettività dei lavoratori su tutto ciò che non è il reddito. In realtà quindi il potere del sindacato nasce dalla sua capacità di contrattare la situazione lavorativa nel suo insieme, per chi è già occupato e per chi vuole diventarlo, il che non è possibile in un orizzonte solo redistributivo. I rischi democratici non riguardano solo il mondo del lavoro ma la società nel suo insieme e quindi la lotta per la democrazia non può che essere una lotta che coinvolge la società nel suo insieme.
Infine la costruzione dell’Europa a Maastricht e la globalizzazione con la conseguente costruzione di nuove forme della produzione, basate anche sull’uso delle nuove tecnologie informatiche, da un lato rendono i confini nazionali inadeguati e dall’altro spingono verso una diversa organizzazione del sindacato che superi le tradizionali divisioni categoriali. Il sindacato europeo è una necessità con cui fare rapidamente i conti.
Un pensiero come si può vedere di estrema attualità e che tuttora ci interroga.
Attorno a questi nodi quindi organizzeremo a Roma, Brescia, Bologna, Palermo e Torino delle giornate di riflessione.
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