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Art. 18: la flessibilità c’è, non ci sono investimenti

10/02/2012

L’accanimento sulla libertà di licenziare ignora i dati dell'economia. Il problema è aumentare produttività e occupazione, non destrutturare il mercato del lavoro

L’impressione è che l’affondo del governo sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori prosegua, ma tra notevoli difficoltà. Molto discutere, spesso a sproposito, intorno a un tema dalla duplice valenza. I diritti e la dignità del lavoro da una parte. E la rimozione degli ostacoli per favorire la crescita dall’altra. Due temi strettamente collegati, ma in modo molto più articolato di quanto si afferma comunemente nelle vulgate quotidiane della politica e degli opinionisti.

In effetti, c’è una ratio economica su cui poggia l’articolo 18 che non può essere tralasciata per cogliere il senso ultimo della norma. Nelle piccole imprese si manifesta una relazione di sostanziale simmetria tra datore di lavoro e lavoratore. Per esempio, una piccolissima impresa artigiana che licenzia il suo unico operaio produce un danno economico a quell’individuo equivalente a quello che subirebbe l’artigiano-imprenditore se fosse il lavoratore stesso a licenziarsi. Ovviamente, sul piano delle concrete relazioni produttive questa simmetria tende a sopravvivere, anche se affievolita, man mano che la dimensione dell’impresa e il numero degli occupati aumenta. Perciò, il Legislatore attraverso l’articolo 18 intese porre una linea di confine, frutto della mediazione politica tra lavoro e imprese, che divide questa zona grigia della dimensione d’impresa tra le unità produttive che consideriamo piccole, e caratterizzate da un rapporto di lavoro tra imprenditore e addetti sostanzialmente simmetrico, da quelle che consideriamo grandi e asimmetriche, in quanto per le loro dimensioni violano il principio suddetto del ”danno equivalente”; e che perciò travolgono il concetto stesso di concorrenza nel mercato del lavoro. In altre parole, un’impresa di grandi dimensioni può facilmente sostituire un lavoratore con un altro, mentre colui che è espulso (illegittimamente) dal processo produttivo rischia di essere marginalizzato nel mercato del lavoro. L’articolo 18 cattura questa asimmetria, e si configura come dispositivo regolamentativo che detta le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo (perché effettuato senza comunicazione dei motivi, oppure perché ingiustificato o discriminatorio) nelle imprese con più di 15 dipendenti (5 se agricole) e nelle imprese con più di 60 dipendenti in tutto.

Cancellare l’articolo 18 significa di fatto sostenere che questa asimmetria non esiste, e che per tanto il mercato del lavoro è sostanzialmente concorrenziale ed equo, e non richiede alcun dispositivo di tutela per la parte debole che entra nel contratto di lavoro, ossia i lavoratori. È da notare che le piccole imprese con meno di 15 addetti non sarebbero avvantaggiate dall’eliminazione dell’articolo 18, in quanto la norma già le esclude dall’applicazione. Queste rappresentano il 98% delle imprese italiane e occupano il 55% della forza lavoro. Tra queste vi sono le microimprese (che occupano meno di 10 addetti) che rappresentano il 95% del totale delle imprese. Saranno queste micro unità produttive ad trarre vantaggio dalla rimozione dell’articolo 18, trovando lo stimolo per crescere verso le maggiori dimensioni? Appare francamente velleitario sostenerlo. Se fosse così dovremmo già oggi registrare per queste microimprese un addensamento verso il numero critico di 14 dipendenti, ma questo non è nei dati nazionali. Il superamento dell’articolo 18 influirà invece nelle scelte delle medie e grandi imprese, che impiegano attualmente circa il 45% dell’occupazione, la quale è appunto tutelata nelle discriminazioni dall’articolo 18. Per le medie e grandi imprese che puntano sugli investimenti, sul progresso tecnologico e sulle competenze, l’articolo 18 non è ragione di ostacolo: le maestranze tengono molto al loro capitale umano. Per le imprese in crisi economica, siano esse grandi o piccole, l’articolo 18 non è ovviamente un vincolo operativo. Inoltre, per le medie e grandi imprese in crisi la risoluzione dei contenziosi avviene attraverso accordi, frutto delle relazioni industriali, quando ci sono, oppure con la cessazione de facto dell’attività, senza confronto con le parti sociali, così come si è rischiato accadesse per lo stabilimento Fiat di Termini Imerese. Infine, nelle fasi recessive l’articolo 18 non limita la mobilità, come conferma anche l’operato del Gruppo Espresso che negli ultimi tre anni ha mandato a casa 800 dipendenti su 3 mila.

Detto ciò, resta da capire se la rimozione dell’articolo 18 sia questione di fondamentale importanza per il rilancio del Paese. La flessibilità del lavoro è considerata da molti una tra le variabili strategiche attorno alle quali ruotano i destini dell’economia italiana. Molti sono i dati sovente citati per mostrare la supposta rigidità del mercato del lavoro italiano. Tuttavia, l’osservazione attenta dei numeri può offrire delle sorprese. L’indice sintetico Employment Protection Legislation (Epl), calcolato dall’Ocse, misura il grado di regolamentazione del mercato del lavoro relativa alla protezione dell’impiego nei diversi paesi occidentali. L’Epl è compreso in un intervallo di valori tra 0 e 6, dove ai livelli più bassi corrisponde una minore rigidità del mercato del lavoro. I dati della tabella 1 sono molto eloquenti. Tolte le economie anglosassoni (ed il Giappone), l’Italia è tra le economie europee quella con il minore EPL, ossia è il paese dove più elevata è la flessibilità del lavoro.

Tabella 1. Il grado di flessibilità del mercato del lavoro per le maggiori economie mondiali nel 2009

Indice EPL
 
Stati Uniti 0.21 Finlandia 1.96  
Regno Unito 0.75 Germania 2.12  
Giappone 1.43 Belgio 2.18  
Italia 1.89 Portogallo 2.88  
Austria 1.93 Spagna 2.98  
Irlanda 1.95 Francia 3.04  

Fonte: Ocse

È da sottolineare che in Italia la riduzione dell’Epl negli ultimi venti anni (l’indice era 3.57 nel 1992; mentre, per esempio, in Francia era 2.98 nello stesso anno, ossia inferiore a quello odierno pari a 3.04) è il risultato dell’applicazione delle riforme Treu e Biagi che hanno facilitato l’ingresso e l’uscita dal mercato del lavoro attraverso l’uso di forme contrattuali atipiche con bassa tutela. Forse questo spiega perché l’Ocse, per voce del segretario generale Miguel Anger Gurria, ha dichiarato che la regola dei licenziamenti “non è la norma fondamentale delle riforme del lavoro”.

Questa evidenza può stupire alcuni, ma è nei fatti. Tra le conseguenze di questo mutamento è utile segnalarne almeno due. In primo luogo, il mercato del lavoro italiano è divenuto duale, impiegando quote crescenti di lavoro atipico, sovente sotto pagato, utilizzato in attività di bassa qualità e valore aggiunto, e privo di ammortizzatori sociali. In secondo luogo, nella fase di passaggio dalla vecchia alla nuova disciplina del lavoro si è assistito a un parallelo decadimento della quantità e qualità degli investimenti associati alla ricomposizione dell’offerta di lavoro. Questo cambiamento – campanello d’allarme del deterioramento del nostro sistema produttivo – non è stato contrastato da azioni di governo atte a sostenere la produttività e la qualità dell’occupazione.

I dati disponibili, riportati nella tabella 2, dimostrano che in Italia, a partire dalla metà degli anni Novanta, si è registrato un costante deterioramento della produttività del lavoro che ci ha allontanato dal treno europeo, spingendoci agli ultimi posti della graduatoria mondiale (una perdita di -1.31% in media annua tra il 1980-1993 e il 1994-2010, che significa una perdita cumulata pari a 23.58 punti percentuali rispetto al periodo 80-93). Non solo. Dall’analisi dei dati emerge che nell’ultimo decennio si è anche registrato un deciso rallentamento degli investimenti delle imprese in capitale tangibile e intangibile (-1.03% medio annuo), e una riduzione del tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro (ossia dell’intensità di capitale, -1.09 per cento in media annua), manifestando con ciò il fatto che il nostro sistema produttivo sta scivolando verso produzioni di beni e servizi a basso contenuto di capitale rispetto al lavoro, e quindi di bassa qualità, minore valore aggiunto e competitività. Infine, dalla metà degli anni Novanta a oggi in Italia abbiamo assistito alla recessione drammatica del progresso tecnologico (-0.86 per cento in media annua rispetto al primo quindicennio). E questo proprio durante la fase di maggiore deregolamentazione del mercato del lavoro.

Tabella 2. I fattori della crescita

Tasso di crescita medio annuo 1980-1993 1994-2011 differenza
Produttività lavoro 1,61 0,3 -1.31
Capitale 2,61 1,58 -1,03
Intensità capitale 2,08 0,99 -1,09
Progresso tecnologico 0,82 -0,04 -0,86

Elaborazioni su dati Eurostat.

A questo peggioramento si è peraltro associata una netta riduzione della quota dei redditi da lavoro sul Pil (dal 62.2 al 55 percento in media annua per i due periodi considerati). Ma a questo spostamento della distribuzione del reddito nazionale dal lavoro al non lavoro, e dunque verso i profitti, non si è unita la ripresa degli investimenti e il miglioramento tecnologico, quanto piuttosto un allarmante deterioramento complessivo della competitività economica nazionale.

L’insieme di queste contraddittorie evidenze deve indurre a qualche riflessione. Forse, il sistema produttivo italiano non ha interpretato la flessibilità del lavoro come un’occasione di sviluppo, quanto piuttosto come leva con cui modificare la distribuzione del reddito a favore delle imprese; e non ha interpretato la flessibilità come misura per recuperare risorse da ricondurre nei processi produttivi. Forse, il ridimensionamento delle azioni di governo nell’attività economica durante l’ultimo ventennio, e la contestuale rinuncia alla politica industriale, ha affidato ai mercati e alle imprese un compito gravoso, di scelte di investimento di lungo periodo, che il sistema produttivo italiano non è stato capace di fare.

Infine, e principalmente dal punto di vista della politica economica, dai dati emerge che non è con il solo strumento della flessibilità del lavoro che si possono conseguire i due obiettivi paralleli di accrescere l’occupazione e la produttività. Quest’ultima, difatti, è il combinato disposto di avanzamento tecnologico, capitale innovativo, occupazione di qualità, formazione delle competenze e conoscenza. Ove uno di questi elementi venga a mancare il doppio obiettivo di maggiore occupazione e crescita della produttività può essere mancato.

Se questa conclusione è corretta, il tema principale nell’attuale agenda della politica italiana dovrebbe essere l’individuazione dei dispositivi tecnico-normativi che rilancino l’accumulazione e l’avanzamento tecnologico, contestualmente alla nuova occupazione di qualità, e non le ulteriori deregolamentazioni come la modifica dell’articolo 18 o simili. Francamente, la principale domanda da porsi è come accrescere simultaneamente la produttività e l’occupazione, e non come destrutturare ulteriormente il mercato del lavoro, e le norme che lo disciplinano, con il rischio concreto di contribuire a mantenere la nostra economia nella trappola della bassa produttività, piuttosto che di ricondurla su un più elevato sentiero di crescita.

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