Perché peggiorano le condizioni di lavoro in Europa. Un libro spiega come i modelli organizzativi, la regolazione di mercato e la mediazione istituzionale hanno chiuso gli spazi per democratizzare i rapporti di lavoro
Il libro collettaneo Workers, Citizens, Governance. Socio-Cultural Innovation at Work, curato da Garibaldo, Baglioni, Casey e Telljohannn, ha due obiettivi espliciti: da una parte ricostruire le caratteristiche salienti delle attuali condizioni di lavoro in Europa, dell’organizzazione della produzione che si è affermata e delle istituzioni europee di regolazione dei mercati e del welfare state; dall’altra, indicare percorsi di innovazione in ambito organizzativo, manageriale e istituzionale che siano in grado di invertire la direzione dei processi socioeconomici del passato, ancora oggi largamente dominanti. Ciò che allo stesso tempo interessa gli autori dei saggi raccolti nel volume è lo stato di salute attuale, lo spazio d’azione a disposizione e le prospettive future delle organizzazioni dei lavoratori. Tuttavia, per comprendere tutto questo conviene partire dalle due tesi di fondo che rappresentano i binari su cui scorrono le riflessioni svolte nei dodici contributi che formano il libro.
La prima tesi, esplicitata già nell’introduzione, è una constatazione forte che non lascia “vie di fuga” per chi voglia riflettere sull’attuale “stato di salute del lavoro” (e dei lavoratori). La tesi recita più o meno nel seguente modo: nel modello di sviluppo economico e sociale che si è affermato in Europa non c’è spazio per pratiche di democratizzazione del mondo del lavoro e della produzione. In altri termini, i processi sociali e culturali oggi dominanti in ambito organizzativo e nel campo delle relazioni industriali implicano che l’integrazione dei lavoratori (nei luoghi di lavoro, ma anche nella società più in generale) non possa passare attraverso una rappresentanza e una cittadinanza democratica, ma attraverso l’adeguamento alle regole e ai vincoli stabilito “di volta in volta” e “di luogo in luogo” dal management. Proprio questo “di volta in volta” e “di luogo in luogo” deve, tuttavia, essere considerato attentamente per comprendere a pieno la complessità del sistema di fronte a cui ci troviamo. Infatti, al netto di una tendenza generale al restringimento della dimensione della partecipazione democratica e della qualità del lavoro nei luoghi di produzione, la situazione appare differenziata al suo interno.
La specifica frammentazione della struttura industriale, la particolare ri-articolazione della catena del valore e l’esplosione della divisione sociale del lavoro – processi che hanno in comune una stessa logica di concentrazione (di potere decisionale) senza centralizzazione (delle strutture produttive) – e il carattere iper-competitivo dei mercati in cui la posta in gioco per le imprese non è semplicemente l’acquisizione di un vantaggio rispetto agli altri competitor, ma la sopravvivenza, hanno generato uno scenario in cui all’interno della stessa filiera produttiva o della stessa attività economica è possibile trovare condizioni di lavoro molto diverse tra loro. Tutto ciò, secondo gli autori, non deve però trarre in inganno e far pensare ad una normale riproposizione di configurazioni di potere del passato. Infatti, l’elemento di novità sta nel fatto che l’integrazione “tra chi sta in basso” (imprese e lavoratori) e “chi sta in alto” (imprese e lavoratori) è diventata sempre più stretta e le linee gerarchiche si sono rafforzate in modo inedito.
L’opzione gerarchia o mercato (make or buy) attraverso cui il mainstream economico spiega il funzionamento dell’impresa come istituzione di regolazione del mercato è, se così stanno le cose, da rivedere, poiché la possibilità di scelta delle imprese lungo la filiera sembra essere sempre più ridotta fino a scomparire man mano che ci si allontana dall’impresa leader. In altri termini, la relazione di potere appare del tutto sbilanciata verso le imprese che si situano al vertice della filiera, le quali determinano tempi, quantità e modalità di produzione delle imprese da loro dipendenti di fatto gerarchicamente (anche se attraverso una relazione di mercato). Il prezzo da pagare per non sottostare a tali vincoli da parte delle imprese che si situano nella parte più bassa della filiera non è un semplice riposizionamento strategico di mercato o un riassetto organizzativo, ma la morte. E d’altra parte le imprese leader della filiera, per l’acquisita sovra-capacità produttiva globale, sono a loro volta coinvolte in una competizione internazionale per la sopravvivenza ispirata al semplice principio di mors tua vita mea.
È facile comprendere, a questo punto, come tendano a distribuirsi le condizioni di lavoro all’interno della stessa filiera, della stessa rete di imprese o della stessa attività produttiva e quanto siano forti le spinte alla loro frammentazione. Di più: la piena realizzazione e l’estensione pervasiva del modello di sviluppo che si è descritto sopra presuppone che sia possibile sfruttare un contesto istituzionale in cui coesistano bacini di forza lavoro che, seppur integrati a livello sistemico, siano anche diversamente regolati in termini di tutele e retribuzioni; e, ancor più importante, che tale “diversità integrata” dei bacini di forza lavoro non sia negoziabile se non in aspetti marginali. Le istituzioni che agiscono sul mercato del lavoro e sulle condizioni di lavoro, infatti, devono essere molteplici e produrre una diversità di tutele, diritti e livelli salariali per permettere lo sviluppo delle reti di imprese lungo le traiettorie delineate sopra; e la stessa logica deve essere applicata rispetto ai sistemi di welfare e ai regimi fiscali.
L’esigenza di adattamento diventa così un principio-mantra per i sistemi di relazioni industriali, più che un orientamento, un vero è proprio imperativo. Adattamento variabile nel tempo e nello spazio a seconda della contingenza temporale e dello specifico contesto a cui ci si riferisce (che può essere un paese, ma sarebbe ancora meglio se l’adattamento si potesse realizzare a livello regionale o addirittura a livello d’impresa), ma che una volta definito non ammette grandi margini di negoziazione.
Tutto ciò si ricollega alla seconda tesi presente nel libro, ovvero che la costruzione dell’Unione Europea non ha rappresentato un processo parallelo e autonomo rispetto alle dinamiche descritte sopra, ma piuttosto una sponda istituzionale decisiva affinché potessero realizzarsi i processi di ri-articolazione del tessuto economico e sociale dei paesi membri. Non si tratta solo del rifiuto, verrebbe da dire scontato, della neutralità tecnocratica delle politiche economiche e sociali dell’UE; non si tratta nemmeno semplicemente della constatazione, pur ribadita in tutti i contributi, che l’Europa rappresenti oggi un’arena politica sovranazionale imprescindibile per potere mettere in atto strategie (tran-scalari) di cambiamento economico e sociale.
Nella tesi proposta, infatti, c’è di più. Gli autori, anche se con diversa enfasi, sostengono che la costruzione dell’UE è parte costitutiva di quegli specifici processi di riorganizzazione istituzionale e di ri-regolazione sociale orientati verso un regime di mercato. Naturalmente la formazione dell’Unione Europea non è vista come un processo lineare. La governance europea, inoltre, coinvolge inevitabilmente una pluralità di attori rappresentanti di interessi eterogenei e talvolta contrapposti. Le politiche, gli orientamenti e gli indirizzi che sono generati a livello europeo, dunque, possono perseguire obbiettivi diversi e non sempre coerenti. Tuttavia, dalle pagine del libro traspare l’idea che durante tutto il processo di costruzione dell’Unione Europea l’equilibrio tra ”Europa sociale” e processi di deregolamentazione del mercato, di restringimento del welfare e di mercificazione dei beni e dei servizi pubblici (una delle parole chiave e più ricorrenti è commodification) non solo non si sia mai realizzato, ma non sia nemmeno mai stato ricercato veramente.
Gli anni settanta, il periodo iniziale della diffusione globale della cultura e del regime economico neoliberista, sono ovviamente ritenuti il momento seminale del modello d’Europa che successivamente si è affermato e che negli ultimi anni ha celebrato il proprio trionfo, ma quello che gli autori sembrano suggerire e talvolta affermano esplicitamente è che l’Europa si sia fatta trovare pronta ad accogliere il neo-liberismo essendosi dotata fin dalla sua costituzione di una architettura istituzionale ospitale.
Proprio a partire dall’assunzione di questa “asimmetria costitutiva” (tra dimensione sociale e dimensione di mercato) dell’UE, Hyman ritiene sorprendente non che oggi si sia affermata una logica liberista in Europa, ma piuttosto che tale logica non si sia affermata prima. In altri termini, la costruzione dell’Europa, così come è avvenuta, ha rappresentato la creazione del contesto adeguato perché i processi economici e sociali di cui si è scritto sopra potessero realizzarsi.
È evidente che in uno scenario così concepito lo spazio per la democrazia nel lavoro e nella società più in generale risulta ristretto se non addirittura inesistente. Si afferma un ambiente competitivo a carattere bellico, in cui i lavoratori di ciascuna impresa o di ciascuna rete di imprese e i cittadini di ciascun territorio (non necessariamente coincidente con i confini di uno Stato) sono soldati mandati a combattere gli uni contro gli altri. Naturalmente i lavoratori/cittadini di ciascuna impresa o rete di imprese e di ciascun territorio non sono tutti uguali, ma d’altra parte quale esercito ha tra le proprie fila una massa di soldati dello stesso ordine e grado? Anche l’orda, in fin dei conti, ha una propria organizzazione interna che prevede divisione e integrazione.
A partire dalla ricostruzione di questo scenario gli autori riflettono su quali siano le condizioni di lavoro in Europa e quali siano gli attuali spazi d’azione per un processo di democratizzazione del mondo del lavoro e della società in generale; e soprattutto in ciascun contributo contenuto nel libro, gli autori indicano possibili percorsi di innovazione socio-culturale in grado di rappresentare una rottura rispetto alla situazione attuale che, tuttavia, implicano un allargamento dello spazio di partecipazione democratica dei lavoratori e dei cittadini europei. Tutto ciò porta inevitabilmente a considerare le condizioni di salute delle relazioni industriali in Europa, le posizioni che i sindacati hanno assunto rispetto alla costruzione istituzionale ed economica dell’Unione Europea e le strategie e le strutture organizzative che i sindacati dei singoli stati membri, ma anche le confederazioni sindacali sovranazionali, possono mettere in campo da qui in avanti.
Infatti, nonostante sia evidente la condizione critica dei sindacati europei (spiazzati e disorientati dal campo transnazionale in cui si muove il capitale) e il rischio che gli stessi sindacati possano essere tentati di perseguire strategie adattive (un ripiegamento burocratico) e/o difensive (un ripiegamento in una dimensione nazionale), i sindacati sono considerati gli unici attori potenzialmente in grado di opporsi allo status quo e di rilanciare un’idea alternativa di Europa. In questo senso la ripresa di un’azione critica e autonoma da parte dei sindacati europei, la rivitalizzazione dei processi di mobilitazione e di partecipazione dei lavoratori, il ripensamento delle dimensioni territoriali d’azione sindacale e la ri-articolazione degli assetti organizzativi delle organizzazioni dei lavoratori appaiono elementi imprescindibili perché si possa verificare una trasformazione del modello di sviluppo che si è affermato.
Nel riflettere sullo stato attuale della democrazia in Europa, sulle sue prospettive e sulla condizione e sul futuro delle organizzazioni sindacali, gli autori portano il lettore a ragionare non in termini di dimensione congiunturale, ma piuttosto in termini di dimensione strutturale. Non a caso le indicazioni di innovazioni socio-culturali proposte nel libro, non risultano essere fattori di correzione, ma piuttosto fattori capaci di innestare profondi cambiamenti nel tessuto socioeconomico europeo. La prospettiva europea, in altri termini, non è abbandonabile, ma una sua correzione appare sempre più illusoria o per lo meno insufficiente a garantire spazi di democrazia.
L’Europa non può che essere rifondata; e solo partendo dal mondo del lavoro sarà possibile ricostruire in Europa un modello in grado di conciliare sviluppo e democrazia. Le organizzazioni sindacali, dunque, possono avere un ruolo centrale per “riaprire i giochi” all’interno dell’unione e per una “nuova strutturazione del campo”. L’impressione, però, è che dal libro emergano sensibilità diverse rispetto a come tutto questo possa avvenire. Se in alcuni contribuiti, infatti, l’assunzione radicale di un principio di democrazia nella ricostruzione del rapporto di rappresentanza tra lavoratori e organizzazioni (dunque un profondo e generale ripensamento del rapporto dei sindacati con i lavoratori) è ritenuto presupposto imprescindibile per la rivitalizzazione dell’azione sindacale e per la possibilità che questa possa essere incisiva nell'aprire alternative al modello di sviluppo attuale, in altri contributi l’imprescindibilità di tale presupposto è più sfumata o sembra essere una opzione tra le altre. Su questo terreno le analisi contenute nel volume forniscono comunque materiale utile per l'urgente riflessione che ne dovrebbe conseguire.
Francesco Garibaldo, Mirella Baglioni, Catherine Casey, Volker Telljohann (a cura di), Workers, Citizens, Governance. Socio-Cultural Innovation at Work. Peter Lang, Frankfurt, 2012.
Il volume contiene saggi di Garibaldo, Erne, Baglioni, Hyman, Greca, O’Kelly, Da Costa, Rehfeldt, Lucchese, Pianta, Brodner, Telljohann, Pulignano, Casey.
Questo articolo è in pubblicazione anche sulla rivista Inchiesta.
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