Bric. Crisi, tsunami giapponese, trasformazioni produttive: nonostante tutto, non si ferma la corsa delle delocalizzazioni produttive verso la Cina
Premessa
L’economia cinese appare in rilevante trasformazione, come lo è del resto ormai da più di trent’anni. Tra l’altro, nell’ultimo periodo, si discute molto sulle tendenze dei processi di delocalizzazione delle imprese estere nel paese, in relazione, da una parte, alla spinta a una forte crescita del costo della manodopera locale, dall’altra agli effetti possibilmente indotti dalla crisi e ora, anche, dal terremoto e dallo tsunami in Giappone.
Sullo sfondo sta un paese che viene da tempo qualificato come “l’atelier del mondo”, anche se va ricordato che solo di recente esso è diventato la prima potenza industriale del pianeta in termini quantitativi, superando gli Stati Uniti e che comunque per molte produzioni il contenuto in valore aggiunto di quanto vi viene fabbricato appare ancora piuttosto ridotto. Ma, in prospettiva, comunque, tutte le strade sembrano condurre sempre più a Pechino.
Il dibattito sui processi di delocalizzazione in Cina è in questo momento particolarmente vivace in Giappone e negli Stati Uniti, con riferimento alle strategie di internazionalizzazione delle grandi imprese di tali paesi.
I rapporti Cina-Giappone
I rapporti tra la Cina e il Giappone, come del resto quelli tra la Cina e l’India, sia pure con qualche diversa sfumatura, sono determinati, da una parte, da un conflitto di fondo per l’egemonia economica e politica in Asia e comunque da una storia recente che ha registrato importanti episodi di scontro tra la Cina e le altre due potenze, dall’altra, peraltro, da un forte interesse economico a sviluppare dei legami più stretti che possono certamente portare un fondamentale contributo alla crescita di tutti e tre i paesi (Emmott, 2008).
Queste due tendenze contrastanti giocano un ruolo e hanno un peso diverso nel tempo, ma oggi in particolare la bilancia delle relazioni tra Cina e Giappone, dopo un periodo piuttosto contrastato, tende a volgere al bello, in particolare per un evidente stato di necessità in cui si trova lo stesso Giappone.
Diciamo intanto che la battaglia per l’egemonia tra le tre grandi nazioni sembra pendere con decisione a favore della Cina, nonostante alcuni importanti atout, in particolare, ma non solo, sul terreno del know-how scientifico e tecnologico posseduti dal Giappone (Meyer, 2010) e che sembravano sino a qualche tempo fa poter contribuire per lo meno a un maggiore bilanciamento di forze tra le due potenze.
Il terremoto, seguito subito dopo dallo tsunami, ha posto il paese del sol levante di fronte a grandi problemi, sia in relazione alla messa fuori circuito di molte centrali nucleari che fornivano una parte rilevante dell’elettricità al paese, che per i danni subiti da molte fabbriche e per la rottura di molte catene logistiche che legavano i produttori finali con i fornitori di parti, componenti e servizi; i problemi si potrebbero estendere ora al terreno finanziario, con il timore abbastanza diffuso di un crollo del mercato dei titoli di stato del paese (Funabashi, 2011).
Nel settore dell’auto non sono tanto le fabbriche finali ad avere sofferto, con qualche ridotta eccezione, ma soprattutto molti fornitori di componenti e non si prevede una ripresa piena delle attività del settore prima dell’autunno (The Economist, 2011, a), mentre le case giapponesi stanno perdendo quote di mercato in giro per il mondo per la rilevante mancanza di prodotti. Il lancio di molti nuovi modelli ha dovuto essere rimandato.
Ricordiamo che le imprese giapponesi hanno in generale investito moltissimo sino a ieri in Cina e anzi, a un certo punto, di fronte alle proteste statunitensi contro l’invasione di merci del sol levante sul loro mercato, hanno scelto di “nascondere” l’origine di molti loro prodotti, facendoli passare proprio per la Cina, dove comunque essi subiscono il più delle volte delle lavorazioni con un valore aggiunto limitato.
Su di un altro fronte, Germania e Giappone sono i due paesi che hanno beneficiato di più, sino a oggi, della fame di apparecchiature avanzate di cui il processo di industrializzazione cinese ha bisogno.
Lo sviluppo dei rapporti economici tra i due paesi asiatici, che è pure molto rilevante e ha aiutato in passato lo stesso Giappone a superare delle congiunture difficili e a tenere in qualche modo sostenuti i livelli della produzione, è stato frenato negli anni scorsi da vincoli politici. Ma ora, bando agli indugi; in effetti, nella presente situazione la Cina appare come una possibile ancora di salvezza per molti. Diverse imprese stanno così cercando di trasferire una parte delle produzioni in tale paese e stanno spingendo anche molti loro fornitori a insediarvisi o a potenziarvi le loro fabbriche. I cinesi non nascondono, a questo proposito, l’opportunità che si presenta loro di acquisire delle tecnologie importanti dai nuovi insediamenti, nonché, contemporaneamente, di catturare comunque qualche quota di mercato in più in giro per il mondo là dove i giapponesi abbiano lasciato dei vuoti.
L’approfondimento dei legami economici tra i due paesi potrebbe peraltro essere in qualche modo rallentato da dubbi e incertezze politici ancora presenti a Tokyo nel partito al potere e ancora di più in quello d’opposizione. Ma la strada per un grande accordo sembra sostanzialmente aperta. Così, nel recentissimo incontro trilaterale – Giappone/Cina/Corea del Sud – che si è tenuto a Tokyo, i tre paesi hanno convenuto sull’idea di avviare uno studio di fattibilità per la creazione di una zona di libero scambio tra di loro.
…e quelli Cina-Stati Uniti
E il terremoto giapponese, dopo anche l’epidemia di Sars, è uno degli elementi che stanno contribuendo ad alimentare una nuova riflessione anche tra molte imprese statunitensi riguardo alle loro catene di fornitura asiatiche e anche alla localizzazione più generale dei loro impianti nel mondo. Pesano sulla riflessione anche l’aumento del costo del lavoro che si registra di recente in molti paesi emergenti, a cominciare dalla Cina, nonché quello del costo delle materie prime energetiche, che tendono tra l’altro a far lievitare i costi di trasporto e questo ancora di più sulle lunghe distanze.
Apparentemente, gli elementi appena indicati sembrerebbero spingere le imprese statunitensi a cercare, da una parte, di accorciare la lunghezza delle loro catene di fornitura, avvicinandole a casa e, dall’altra, anche a riportare molte produzioni direttamente negli Stati Uniti.
Ma la questione non appare in realtà così semplice da risolvere, come potrebbe apparire a prima vista.
In effetti, intanto, molte imprese multinazionali continueranno a collocare la gran parte dei loro nuovi insediamenti nei paesi emergenti e in primis in Cina, che continua a essere lo sbocco privilegiato per gli investimenti esteri, non tanto, o non solo, per esportare poi le loro produzioni negli Stati Uniti, ma soprattutto per rifornire i mercati locali in fortissima espansione. Magari, nel paese di mezzo, si spostano alcuni insediamenti dalla costa verso l’interno, dove tutto costa di meno. Ma nessuno vuole abbandonare il lucrativo mercato cinese o anche quello indiano, che stanno diventando in molti settori – si pensi soltanto a quello dell’auto – anche più importanti di quello statunitense.
Per altro verso, molte imprese troverebbero parecchio difficile riportare le fabbriche negli Stati Uniti anche se lo volessero, dal momento che, soprattutto per quanto riguarda alcune attività, l’America non possiede più, magari da tempo, le necessarie infrastrutture e una base di fornitori adeguati; ricominciare daccapo sarebbe piuttosto complicato. Per questo le loro decisioni di delocalizzazione di un tempo si rivelano oggi come sostanzialmente irreversibili (The Economist, 2011, b).
Inoltre, spesso il costo del lavoro è solo un elemento, a volta neanche tanto rilevante, del costo di un prodotto e, ad esempio nel caso cinese, bisogna anche tener conto di un forte e continuo aumento nei livelli di produttività del lavoro, risultato che attenua in misura notevole – insieme in molti casi alla solo moderata incidenza generale dello stesso costo del lavoro sul costo finale dei prodotti – il fenomeno dell’aumento dei salari (Comito, 2011). O si pensi anche alla grande dotazione infrastrutturale della Cina, che appare decisamente migliore di quella di qualsiasi altro paese emergente e che si colloca ormai almeno allo stesso livello di quella dei principali paesi sviluppati.
Comunque, alla fine, si può pensare che si arriverà, da una parte, a qualche insediamento in più in paesi che continuano ad avere un costo del lavoro molto basso, quali il Vietnam o l’Indonesia, tendenza cui sembrano partecipare del resto anche un certo numero di imprese cinesi, dall’altra, che forse diversi imprenditori statunitensi eviteranno tutt’al più di portare all’estero qualche nuova fabbrica o di rifornirsi in qualche caso da imprese collocate in paesi lontani. Si dovrebbe trattare, tutto sommato, di fenomeni quantitativamente piuttosto contenuti.
Conclusioni
Non sembra poi molto vicino, almeno per quanto si possa vedere, il momento in cui la Cina cesserà di essere la fabbrica del mondo, in relazione ad alcuni sviluppi recenti quale quello dell’aumento del costo del lavoro o dei prezzi del petrolio; i segni di un possibile esodo di imprese estere dal paese non sono, al momento, molto visibili. Negli ultimi anni abbiamo assistito semmai al fenomeno opposto; la crisi in atto, con le difficoltà che essa ha comportato sui mercati dei paesi sviluppati, mentre invece si registrava una forte crescita dei consumi in quelli emergenti, nonché la necessità, indotta sempre dalla crisi, di diversificare maggiormente la propria presenza geografica a livello mondiale, hanno avuto e continuano ad avere un grande peso sulle decisioni delle imprese multinazionali. Ora, anzi, i problemi del Giappone potrebbero segnare un ulteriore rilevante approfondimento dei legami economici con la Cina e una crescita degli insediamenti industriali del primo paese nel secondo.
Testi citati nell’articolo
Comito V., La Cina si avvicina, old.sbilanciamoci.info, 28 aprile 2011
Emmott B., Rivals, Allen Lane, Londra, 2008
Funabashi Y., Tokio has no option but to cleave to China, www.ft.com, 17 maggio 2011
Meyer C., Chine ou Japon, quel leader pour l’Asie, Presses de SciencesPo, Parigi, 2010
The Economist, After the quake, www.economist.com, 19 maggio 2011, a
The Economist, Moving back to America, 14 maggio 2011, b
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