Come salvare la Dichiarazione universale dal prepensionamento: stop alla logica intergovernativa, controlli globali. E partecipazione dei cittadini del mondo
L’Occidente arriva senza fiato alle celebrazioni del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite; ha perso la sua autorità morale e sembra diventato incapace di offrire una prospettiva di dignità al resto del mondo. Guantanamo, Extraordinary Rendition e Abu Ghraib diventeranno le parole chiave che verranno rinfacciate all’Occidente per negargli quel ruolo di paladino dei diritti umani di cui si è auto-investito. Molti regimi dispotici che sono stati sotto accusa non si sono lasciati sfuggire l’occasione per teorizzare che nello stato di eccezione tutti i paesi, democratici e non, sono ben disposto a sacrificare i diritti umani. E’ ovviamente falso che i diritti umani siano violati con la stessa frequenza in Nord America e in Asia, in Europa e in Africa, ma chi si prende a cuore la loro difesa deve avere la coscienza immacolata. Compiuti i sessant’anni, c’è ora il pericolo che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani possa addirittura finire in pre-pensionamento perché gli stati che l’hanno sponsorizzata si sono dimostrati incapaci di rispettarla.
Il discredito in tema è associato alla Presidenza di George W. Bush e c’è la fondata promessa che con Barack Obama ci sia un categorico cambio di rotta. Ma le degenerazioni dell’amministrazione Bush sono la testimonianza di un ben più profondo problema occidentale e che riguarda Europa e Stati Uniti, progressisti e conservatori. L’Occidente ha ritenuto che, poiché si era fatto il portatore dei valori enunciati nella Dichiarazione Universale, sarebbe stato immune dalle degenerazioni e, di conseguenza, ha impostato l’agenda dei diritti umani come un problema di sola politica estera. In gran parte del mondo ciò ha fatto percepire la retorica dei diritti umani come una nuova forma di dominazione coloniale dell’Occidente piuttosto che come uno strumento di emancipazione dei popoli contro i despoti di casa loro.
Non è ancora chiaro in che direzione si muoveranno gli Stati Uniti per quanto riguarda i diritti umani. Lo smantellamento della prigione di Guantanamo e la messa al bando delle “extraordinary rendition” saranno segnali fondamentali per segnalare che c’è, anche per i diritti umani degli altri, quel cambiamento che Obama ha promesso. Eppure, la lezione principale da trarre è che la causa dei diritti umani non si può mai rimettere nelle mani di un solo paese, per quanto efficace possa essere il suo sistema di controlli e contrappesi democratici interni. Occorre, al contrario, aggiungere un controllo anche esterno, esercitato da istituzioni imparziali e svincolate dai governi in carica.
E’ certamente incoraggiante che la gran parte della popolazione mondiale sostenga l’idea che le nazioni Unite debbano svolgere un ruolo attivo nel promuovere i diritti umani (si veda il World Public Opinion Poll) ma ogni azione svolta dalle Nazioni Unite diventa autorevole se è sostenuta dai cittadini e dai loro rappresentanti piuttosto che solamente dagli ambasciatori governativi. Se oggi i governi occidentali intendono riprendere la leadership, devono avere il coraggio di andare al di là della logica essenzialmente inter-governativa che ha dominato il regime dei diritti umani e rafforzare e ove necessario anche creare controlli e contrappesi globali e che si fondino su una maggiore partecipazione. Che cosa significa in pratica?
La Corte penale internazionale: far aderire gli Stati Uniti e definire il reato di aggressione
Prima di tutto, bisogna rafforzare la Corte penale internazionale, istituita oramai cinque anni fa con il compito di perseguire i responsabili delle più gravi violazioni dei diritti umani (una valutazione periodica è svolta dal Global Policy Forum). La Corte non ha né la funzione né le risorse per occuparsi di tutto, ma ha un grande vantaggio rispetto alle altre agenzie inter-governative: possiede l’indipendenza (almeno formale) che si attribuisce al potere giudiziario. In questi primi anni la Corte ha aperto procedimenti esclusivamente contro politici africani, nei confronti dei quali sono stati raccolti indizi assai fondati. Ma la Corte può essere percepita come un ulteriore strumento nelle mani dell’uomo bianco per giudicare l’uomo nero. I membri dell’Unione Europea vi hanno aderito ma, come è noto, con la Presidenza Bush gli Stati Uniti si sono ritirati, vanificando quanto fatto dalla precedente amministrazione. Già ai tempi dell’amministrazione Clinton, i paesi europei dovettero faticare sette camicie per convincere gli Stati Uniti ad aderirvi, come ben sa l’allora Commissario della Commissione Europea Chris Patten, e neppure allora si era ottenuta la ratifica del Senato. Se intende realmente porsi in una condizione di uguaglianza con gli altri, gli Stati Uniti dovrebbero oggi aderire pienamente alla Corte. Gli stati membri della Corte devono anche definire e far entrare in vigore il reato di aggressione, l’unico che può effettivamente preoccupare i governi occidentali. Non sorprende dunque che sia finora rimasto sospeso. Diventa a questo punto fondamentale che la Review Conference programmata per il 2009 sia in grado di giungere ad una definizione che sia un deterrente per tutti gli statisti, inclusi quelli occidentali.
Consiglio di diritti umani: rompere il carattere inter-governativo
La seconda riguarda il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Sorto sulle non gloriose ceneri della vecchia Commissione per i diritti umani, il Consiglio ne ha ereditato il vizio principale, dimostrando tutti i limiti di un approccio principalmente inter-governativo. Solo i rappresentanti dei governi siedono nel Consiglio e le indagini compiute sono lente e inefficaci, mentre le denunce sono scritte con tutte le cautele del linguaggio diplomatico. Un tale organismo può forse servire come palestra per la giurisprudenza, ma certamente non è di alcun aiuto per coloro che subiscono violazioni. Bisogna ora avere il coraggio di rompere la logica inter-governativa e dare peso istituzionale alla società civile, incluse le organizzazioni non governative e le associazioni delle vittime, che fino ad ora hanno avuto una funzione solo decorativa. Le modalità istituzionali per farlo possono essere molteplici, purché ci sia la volontà di accettare che la Valutazione universale periodica non diventi una scatola vuota, una sorta di canto gregoriano in cui i rappresentanti dei governi finiscono per assolversi vicendevolmente.
Dare potere ai cittadini del mondo
La terza, infine, dovrebbe far finalmente diventare i cittadini anche partecipi nella produzione e protezione dei diritti. Il quadro normativo attuale rende gli individui titolari di diritti dati loro da altri, senza che abbiano alcun canale istituzionale (diverso dai propri governi) per poterli rivendicare. Non sorprende dunque che gran parte degli abitanti del pianeta li percepisca come fenomeni astratti e lontani dalla propria vita. La modalità per sancire l’uguaglianza politica nella rivendicazione dei diritti umani potrebbe essere una Assemblea parlamentare mondiale direttamente eletta dagli individui, come richiesto da varie coalizioni e sostenuto da un numero crescente di Parlamenti nazionali. Un Parlamento del mondo potrebbe essere il primo germe per dare ai popoli oppressi quella rappresentanza politica necessaria per fargli diventare capaci di proteggersi da soli.
Le celebrazioni della Dichiarazione universale finiscono spesso in grandi esaltazioni dei nobili principi e sentite indignazioni per le violazioni commesse. Né l’esaltazione né l’indignazione contribuiscono tuttavia molto a far diminuire le violazioni. Dopo l’elezione di Obama, un Occidente non più diviso ha la possibilità di riscrivere l’agenda dei diritti umani non solo dando finalmente il buon esempio, ma anche fondandoli sulla partecipazione e l’uguaglianza dei popoli. C’è solo da sperare che non perda anche questa seconda occasione.
Quest'articolo è pubblicato anche su opendemocracy
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