Ridimensionare la finanza e uscire dalla crisi è possibile. Far pagare le banche e non farsi schiacchiare dalle regole europee anche. E perfino convincere il Fondo monetario. La lezione dell’Islanda
Mentre si spengevano le luci del circo di Davos, l’Islanda iniziava la settimana con il piede giusto. Proprio al World Economic Forum, il presidente Olafur Ragnar Grimsson – definito dall’inviato di Al-Jazeera “l’unica voce di speranza” per un continente in recessione – aveva rilasciato un’intervista al canale satellitare arabo, scatenando l’interesse della rete. Per spiegare le politiche “non ortodosse” del suo paese, il presidente usa una semplice domanda: Why do we consider banks to be like holy churces? Perché – si chiede Grimsson – consideriamo le banche diverse da altre imprese “normali”, come le compagnie aeree o di telecomunicazioni, e non dovremmo permettere loro di fallire? Perché, soprattutto, dovremmo invece lasciar fallire le persone, introducendo nuove tasse e misure di austerità, e non proprio le banche, che hanno già beneficiato dei proventi di quelle stesse attività rischiose all’origine della crisi?
A dare una risposta al Presidente islandese è intervenuta la Corte dell’Efta – European Free Trade Association, organizzazione che riunisce, oltre alla stessa Islanda, Norvegia, Lichtenstein e Svizzera. Proprio l’Efta nel 1994 ha siglato, insieme ai membri dell’allora CEE, un accordo che istituiva l’European Economic Area (EEA): è in virtù di questo trattato che l’Islanda – pur non essendo membro dell’Unione Europea – è sottoposta a gran parte della regolamentazione comunitaria, anche in materia finanziaria. La corte, con sede nel Lussemburgo, era stata chiamata in causa per risolvere un contenzioso (denominato “Icesave”, dal nome di un sito di banking online) apertosi dopo il collasso del sistema finanziario islandese – avvenuto nell’autunno del 2008. Dopo il fallimento della casa madre di Icesave, Landsbanki Íslands – principale istituzione finanziaria islandese da oltre un secolo, incaricata dell’emissione delle banconote fino alla creazione della Banca Centrale nel 1961 – il governo di Reykjavík si era infatti rifiutato di coprire le perdite realizzate dalle filiali olandesi e britanniche della banca.
Come precisa il New York Times, in realtà le autorità islandesi avevano tentato per due volte di ottemperare agli obblighi previsti dalla Direttiva 94/19 della Commissione Europea, recepita con apposita legge dal Parlamento islandese, che prevede un rimborso parziale per i risparmiatori. Ma per due volte gli elettori islandesi, chiamati a confermare le misure con appositi referendum, hanno respinto la proposta, rifiutandosi di ripagare con le tasse i debiti contratti dalle banche private. Come riassunto nel comunicato stampa rilasciato dalla Corte dell’Efta, le autorità britanniche e olandesi avevano reagito secondo gli schemi previsti dalla propria legislazione per far rimborsare i propri cittadini. In particolare, il governo britannico aveva operato in maniera particolarmente decisa e lesiva della sovranità nazionale islandese, avvalendosi della normativa anti-terrorismo al fine di congelare gli asset detenuti nel Regno Unito da Landsbanki. Per sanare la questione ci si è rivolti alla Corte dell’Efta, che proprio lunedì scorso ha emesso la sua sentenza, riconoscendo le ragioni dell’Islanda.
La legislazione europea precedente la crisi, secondo la Corte, non era pensata in previsione di crisi sistemiche della natura e dell’estensione di quella registratasi in Islanda nell’autunno del 2008, e lasciava in effetti non sufficientemente specificato chi avrebbe dovuto ripianare i debiti di un intero sistema finanziario al collasso. L’esposizione record raggiunta nel 2008 dalle banche islandesi (comunemente stimata, a seconda delle fonti, tra 9 e 12 volte il Pil del Paese in quell’anno), rendeva infatti materialmente impossibile per il governo rimborsare tutti i debiti: per questa ragione, il possibile precedente rappresentato da Icesave pendeva fino a lunedì come una spada di Damocle sulla ripresa economica del Paese.
In mancanza di norme precise in tal senso, la Corte ha invece ritenuto di assolvere il governo islandese, che potrà continuare le sue politiche eterodosse, senza dover imporre nuove strette fiscali per ripagare il debito contratto dalle sue banche. Come rivendica Grimsson nell’intervista rilasciata ad Al Jazeera, a seguito della crisi finanziaria il governo islandese ha operato esattamente all’inverso di quanto prescritto e portato avanti dai governi del resto d’Europa: dopo aver lasciato fallire le banche, ha introdotto controlli sui movimenti di capitale; non ha – almeno in un primo periodo – introdotto misure di austerità, intervenendo al contrario a sostegno dei cittadini lasciati senza lavoro e a rischio povertà dall’improvvisa dissoluzione dei loro risparmi. Ma soprattutto, come spiega ancora il NYT, a differenza degli Stati Uniti e dei Paesi europei – pur tra mille difficoltà – le autorità politiche e giudiziarie islandesi hanno costantemente lavorato per inchiodare alle proprie responsabilità i manager responsabili della crisi. Cosa che, continua il quotidiano statunitense, ha dato al governo sufficiente autorevolezza di fronte all’opinione pubblica per introdurre le misure necessarie a uscire anticipatamente dal programma di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale. Lo stesso Fondo ha poi dovuto ammettere pubblicamente il successo della politica islandese.
Nel rivendicare questi successi, il Presidente Grimsson si lascia andare ad altre, interessanti dichiarazioni: a suo dire, infatti, alla base della robusta ripresa islandese c’è anche l’impatto innovativo di un settore finanziario “sterilizzato”, sufficientemente piccolo non solo da non fallire, ma da non “drenare” i più brillanti laureati in informatica, ingegneria, persino fisica. Una volta lasciate fallire le banche, questi lavoratori altamente istruiti – difesi dal rischio di indigenza in virtù delle politiche fiscali e monetarie fortemente anticicliche portate avanti da Reykjavík – sono rimasti in Islanda ed hanno finito, secondo Grimsson, per ridare slancio all’economia reale.
C’è da dire che – come fanno notare alcuni blogger islandesi – la repentina svolta dell’Islanda si spiega, più che con la lungimiranza del suo ceto politico, con la cruda impossibilità di ripagare quei debiti, sommata al pungolo costituito dalle proteste dei cittadini. Viene da chiedersi se la “debolezza” dell’Islanda – il suo essere cioè fuori dal riparo delle istituzioni comunitarie – non sia stata, in realtà, la sua fortuna.
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