I paesi emergenti riusciranno a tenersi al riparo dalla tempesta finanziaria? Un'analisi del distacco di Cina e India dal contagio mondiale
F. Braudel ha a suo tempo sottolineato come l’accentuata finanziarizzazione di un’economia sia normalmente legata alla maturità di una civiltà, alla sua crisi anche terminale. Lo sviluppo dei commerci, dell’industria e dei servizi genera crescenti surplus di capitale.
Ora, sino a quando un’area si sviluppa, tali surplus vengono impiegati in gran parte nel settore di riferimento, o in settori vicini; ma, ad un certo punto, per qualche ragione, a volte per molte ragioni contemporaneamente, l’economia “reale” di quell’area va in crisi. Le ragioni possono essere molte: i business diventano maturi, la concorrenza di altri paesi emergenti si fa molto forte, le difficoltà di adattarsi ai mutamenti del mondo si fanno rilevanti. Questo è avvenuto a suo tempo con le città italiane nel Cinque-Seicento, poi con il sistema di dominio olandese nel Settecento e, infine, con quello britannico in tempi più recenti. Si può pensare che il fenomeno possa ripetersi - anche se non si può essere certi di niente-, con l’attuale egemonia americana. La crisi finanziaria in atto potrebbe essere proprio il segno della crisi di un sistema.
Ma, sia pure in collegamento con quanto ricordato, concentriamo ora l’attenzione su di un problema di più breve termine.
Cento anni fa od anche più, se negli Stati Uniti scoppiava una crisi finanziaria, il resto del mondo sostanzialmente non se ne accorgeva. In tempi più recenti, come è noto, le cose sono da questo punto di vista molto cambiate. Ma in questi ultimi mesi ferve il dibattito relativamente alla questione se le attuali difficoltà di quell’economia trascineranno con loro il resto del mondo o se, invece, almeno alcune aree del pianeta e segnatamente quelle delle economie emergenti, riusciranno a cavarsela, magari con qualche graffio. Il dibattito ruota così intorno ad una parola, decoupling, che potremmo forse tradurre con l’espressione “desincronizzazione” o, forse, “distacco”.
Molti pensano che in un’epoca caratterizzata da una mondializzazione spinta dell’economia sia ben difficile per uno o più paesi isolarsi; in particolare gli stretti legami ormai in essere da tempo sul fronte del commercio, degli investimenti, della finanza, tra gli Stati Uniti e la Cina spingerebbero in direzione di un contagio inevitabile della recessione sino alle sponde asiatiche. E, ad esempio, l’attuale andamento negativo della borsa di Shangai, che in pochi mesi ha perso una parte consistente del suo valore, sembra per alcuni versi dare ragione a tale tipo di analisi. Va considerato che le vendite cinesi sul mercato americano sono enormi e inoltre che sono anche molto importanti quelle a paesi come il Giappone e la Corea, anch’essi legati a loro volta e in misura molto rilevante alle esportazioni verso gli Stati Uniti.
Per analizzare meglio la questione, distinguiamo intanto le conseguenze dirette della crisi del subprime sul fronte finanziario da quelle relative invece all’attività “reale”.
Sul primo punto, bisogna considerare che l’esposizione in particolare delle istituzioni finanziarie asiatiche ai titoli subprime non rappresenta neanche l’1% del totale dei loro attivi di bilancio. L’equilibrio finanziario di tali paesi non è minacciato, visti gli eccedenti delle partite correnti e le grandi riserve di cambio. Colpiti a suo tempo dalla crisi del 1997, questi paesi hanno fortemente ridotto il loro debito estero e i deficit di bilancio. Inoltre, i debiti dubbi delle banche dell’area si collocano oggi intorno al 5% del totale, contro una cifra molto più alta al momento della crisi degli anni novanta (Asia, 2008).
Semmai, per quanto riguarda gli investimenti diretti del resto del mondo verso le aree emergenti, essi dovrebbero tendere ad aumentare nei prossimi mesi, dato che l’area, in un momento di difficoltà per l’economia occidentale, mostra invece la presenza di rilevanti opportunità.
Sul fronte dell’economia “reale”, certo bisogna considerare che un certo rallentamento dei paesi emergenti ci sarà, ma la gran parte delle stime degli enti internazionali prevedono che esso sarà relativamente modesto. Una delle stime “pessimistiche” è quella della Deutsche Bank, che, per quanto riguarda almeno 12 economie asiatiche, afferma che nel 2008 il loro tasso di sviluppo del pil sarà del 7,7% contro il 9,2% del 2007.
Certo, fare delle previsioni affidabili è un mestiere molto difficile in generale e le attuali incertezze che gravano su molti fattori le rende ancora più aleatorie, ma ci sono, a nostro parere, delle rilevanti ragioni che militano a favore di un accentuato decoupling.
L’economia cinese ha raggiunto nel 2007 l’incremento record dell’11,4% del pil e le valutazioni per il nuovo anno si aggirano intorno al 9,5%-10% e questo forse più per effetto di un deliberato tentativo da parte delle autorità del paese di raffreddare la crescita– che sta incappando in problemi di inflazione, extrainvestimento, ecc.-, che per le spinte esterne.
Su di un piano più specifico, bisogna intanto considerare che mentre le esportazioni dei paesi asiatici verso gli Stati Uniti stanno in effetti rallentando, quelle complessive stanno invece continuando ad aumentare in misura rilevante; il punto, più in generale, è quello che i paesi emergenti tendono a sviluppare i rapporti economici –a livello di commercio, di investimenti, di altri flussi finanziari, di scambio di tecnologie- tra di loro molto più fortemente che in passato e più fortemente che con i paesi sviluppati. Oggi essi tendono ad esportare complessivamente più verso la Cina che verso gli Stati Uniti ed appare evidente il forte legame che si va creando tra l’aumento dei tassi di sviluppo dell’Africa e dell’America Latina negli ultimi anni e i loro crescenti rapporti in termini di commercio, investimenti, accordi di joint-ventures, con la Cina.
Ci si chiede se non potremmo assistere ad una versione particolare del decoupling, con i paesi emergenti che vanno avanti per la loro strada senza curarsi molto di noi che arranchiamo.
Un altro punto da sottolineare è quello che l’influenza del commercio internazionale sullo sviluppo cinese è stato in passato probabilmente sopravalutata; a parere di diversi analisti esso è oggi spinto soprattutto dagli investimenti – e solo il 15% circa degli investimenti del paese appare oggi legato al settore delle esportazioni (The Economist, 2008, a)- e, in misura crescente, anche dai consumi interni.
In un paese come l’India, poi, il peso delle esportazioni è sostanzialmente irrilevante e il suo modello di sviluppo è molto centrato sull’interno. Certo, l’economia indiana sta rallentando – nell’anno chiuso al 31 marzo del 2007 il tasso di crescita del pil aveva raggiunto il suo massimo storico, al 9,6%, ma gli ultimi dati mostrano una riduzione tendenziale di almeno un punto (The Economist, 2008, b)-; ma le ragioni di tale fenomeno hanno molto poco a che fare con la crisi statunitense e sono semmai collegabili ad alcune rilevantissime strozzature economiche, sociali, finanziarie, politiche, interne.
Ricordiamo infine il caso del Brasile, il cui pil risulta di nuovo in forte crescita, mentre per la prima volta da molti anni il paese è diventato creditore e le sue riserve di cambio superano il livello del debito pubblico e privato con l’estero. Questo sviluppo è alimentato dalla crescita delle esportazioni verso la Cina (quintuplicate in soli due anni) ed altri paesi emergenti; il mercato mondiale richiede sempre più i suoi prodotti (carne bovina, soia, minerale di ferro, etanolo, ecc.), mentre gli Stati Uniti assorbono ormai soltanto il 15% di tali esportazioni (Le Monde, 2008). L’economia è anche trascinata da una forte domanda interna.
Certo, per alcuni paesi le cose andranno peggio; si pensi ad esempio al caso del Messico, i cui destini economici sono necessariamente collegati a quelli dell’ingombrante vicino, ma meno comunque che in altre crisi recenti. Qualche preoccupazione importante si può nutrire anche verso paesi quali Singapore o la Malasia, che dipendono in misura molto forte dalle esportazioni.
Ovviamente, molto dipenderà anche dal livello della recessione Usa e dalla sua durata, nonché dalle politiche portate avanti dagli stessi paesi emergenti, che ragionevolmente dovrebbero spingere ancora di più, in questa situazione, verso una crescita della domanda interna.
La sensazione attuale è comunque che la crescita mondiale rallenterà un po’, ma non si arresterà.
La crisi, rallacciandoci alle considerazioni contenute nelle prime righe di questo testo, potrebbe semmai contribuire a segnare il passaggio da un mondo che vede l’egemonia economica assoluta statunitense a quello che potrebbe mostrare invece almeno la coabitazione con altre importanti realtà.
Testi citati nell’articolo
- D. Hochraich, La crise des subprimes: l’Asie épargnée ?, Asia, n. 3, 2008
-The Economist, Emerging markets: the decoupling debate, 8 marzo 2008, a
-The Economist, India’s budget, 8 marzo 2008, b
- J.-P. Langellier, Le Brésil espère échapper à la crise financière grace à des réserves record et à la diversification de l’économie, Le Monde, 25 marzo 2008
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