La decisione di Mediobanca e Generali di uscire dai patti di sindacato delle grandi imprese nazionali non è che l'inevitabile approdo di un processo in corso da tempo. Ultimo atto di un sistema che non scalfisce però i vecchi equilibri di potere
In Italia è molto difficile che dei cambiamenti positivi nell’economia, nella società, nella politica, si sviluppino da soli, senza l’aiuto di eventi esterni. Così, ad esempio, per liberarci del fascismo abbiamo dovuto attendere lo scoppio della guerra e l’arrivo degli eserciti alleati, anche se comunque con la lotta partigiana alla fine siamo riusciti a dare un qualche contributo al risultato. Di Berlusconi sembrava ad un certo punto che riuscissimo a liberarci grazie alla pressione dell’Europa e dei mercati finanziari, ma abbiamo poi peraltro fatto di tutto per ricascarci. Per altro verso, a torto o a ragione, qualcuno afferma che l’Italia è l’unico paese al mondo che non ha mai fatto una rivoluzione e, d’altro canto, come diceva, ci sembra correttamente, il grande storico Ruggiero Romano, nel nostro paese il morto arriva sempre ad afferrare il vivo.
Così, parlare come fa qualche giornale di rivoluzione o di terremoto per quanto riguarda la decisione, annunciata in queste settimane da Mediobanca e da Generali, di uscire dai patti di sindacato delle grandi imprese nazionali in cui tali società erano coinvolte e di vendere progressivamente le loro partecipazioni nelle stesse, ci appare perlomeno una esagerazione. Si tratta soltanto dell’ormai inevitabile atto finale di un lungo processo svoltosi nel tempo in maniera non controllata in alcun modo.
È noto come le due società costituissero l’asse centrale di una strategia che nei decenni scorsi legava tra di loro i membri del cosiddetto salotto buono in un patto sostanzialmente di mutuo soccorso.
In effetti, Mediobanca (Generali eseguiva gli ordini della prima e ci metteva solo i soldi) non ha tanto aiutato a far crescere nel tempo il sistema della grande impresa in Italia, perché anzi con le sue strategie essa ha contribuito a produrre alla fine il risultato che i grandi gruppi nazionali si sono ridotti di numero nel tempo e che diversi tra quelli che hanno resistito appaiono oggi più deboli di prima. La Montedison e il gruppo Ligresti non ci sono più, la Fiat è ridotta all’ombra di se stessa, il gruppo Tronchetti Provera, infine, è sotto la tenda ad ossigeno, mentre da molto tempo non sentiamo più parlare del gruppo Orlando, il cui potere si è certamente ridimensionato negli ultimi decenni.
Il meccanismo del salotto buono serviva esclusivamente a tutelare le grandi famiglie, non le imprese, nel loro controllo dei grandi gruppi, in un quadro che a suo tempo qualcuno, mi sembra Napoleone Colajanni, aveva a suo tempo definito come un capitalismo senza capitale. Lo si faceva con il classico armamentario delle scatole cinesi, dei patti di sindacato, delle partecipazioni incrociate, dei soldi forniti generosamente per la bisogna dalle grandi banche del gruppo Iri, oltre che da Generali, infine con le manovre di Borsa; il tutto, ovviamente, trascurando qualsiasi regola di mercato e, peggio, anche, almeno nella sostanza, qualche articolo del codice.
Il giudizio che a nostro parere si deve oggi dare di tale sistema è, visti anche i risultati, del tutto negativo. Cuccia è stato un grande banchiere dal punto di vista tecnico, ma le sue arti avrebbero potuto essere indirizzate a delle cause più nobili che non a quelle di andare appresso ai vari Tronchetti Provera, Ligresti e Gardini, con buona pace di quest’ultimo e di fare da arbitro nei conflitti tra le varie famiglie. Venivano invece duramente esclusi dal gioco i gruppi non ammessi a corte e naturalmente le medie e piccole imprese, che il denaro dovevano andarselo a cercare con delle acrobazie a volte spericolate.
Il sistema Mediobanca non chiude oggi con le decisioni dei gruppi dirigenti della banca milanese di uscire dai patti di sindacato, esso si era progressivamente accartocciato su se stesso nel tempo in ragione di alcuni eventi esterni.
Il primo è stato quello della apertura delle frontiere finanziarie, per cui le imprese che avevano bisogno di soldi potevano andare sempre più a cercarseli all’estero o bussare al portone di qualche strada vicina a via Filodrammatici, alle sedi italiane dei grandi gruppi finanziari esteri progressivamente insediatisi nel nostro paese.
L’altro evento è stato quello della progressiva autonomizzazione delle grandi banche nazionali dalla tutela di Mediobanca, in particolare dopo la loro privatizzazione. Aggiungiamo anche la rottura consumatasi a suo tempo tra Cuccia e Gianni Agnelli. Così sono rimaste con la banca milanese le imprese che non ne potevano farne a meno e il gruppo di via Filodrammatici ha visto la sua attività rarefarsi.
Il colpo di grazia lo ha dato infine la crisi economica, che ha reso le cose più difficili per tutti, non permettendo ormai più di immobilizzare del denaro in attività di pura beneficenza, mentre i concorrenti incalzavano con le loro strategie aggressive. Con la crisi, poi, i due centri finanziari hanno dovuto registrare nei loro bilanci pesanti perdite da partecipazioni.
Ad ogni modo veniamo ai fatti recenti. Per quanto riguarda Generali, la stessa Mediobanca, che ne aveva il pacchetto di controllo azionario, ha contribuito circa un anno fa a mandare a casa il vecchio management; il nuovo amministratore delegato, Mario Greco, si è subito messo a ripulire i conti, tagliando il valore di molte partecipazioni e registrando in bilancio così minusvalenze per circa 1,3 miliardi di euro, in particolare per quanto riguarda il pacchetto Telecom Italia. Egli ha avviato inoltre una nuova strategia complessiva, tagliando i costi, introducendo un nuovo management internazionale, e decidendo di uscire progressivamente da ben 22 patti di sindacato nei quali l’assicuratore era impelagato da decenni. In particolare Generali ha già disdetto gli accordi su Rcs, sulla società immobiliare di Tronchetti Provera, la Prelios, infine sull’aeroporto di Venezia. Si attende il prosieguo dell’opera.
Ora è la volta di Mediobanca, che ha annunciato a sua volta una svalutazione di partecipazioni, in particolare in Telco-Telecom e in Rcs, l’uscita dai patti di sindacato, in Telco, Rcs e Pirelli e, comunque, la riduzione delle sue quote di capitale in parecchi grandi gruppi. Da tali vendite la società spera di ricavare almeno 2 miliardi di euro entro il 2016. Il ricavato dovrebbe andare a contribuire a finanziare la nuova strategia, centrata sulla crescita nel core business bancario, con lo sviluppo in particolare del settore dell’asset management e della sua presenza all’estero, in particolare nei paesi emergenti; tale presenza appare oggi molto debole.
Ma uscire completamente dal capitale di Generali e di Telecom Italia sarà un processo lungo e complicato. Così, per il momento, per quanto riguarda la prima società, si passerà da una quota del 13% al 10%.
In ogni caso, come dicono gli inglesi, so far so good.
Tutto cambia quindi? Ahimè, i nostalgici della vecchia scuola continuano ad operare fattivamente, avendo anche fatto proseliti.
Così, nei mesi scorsi, abbiamo assistito prima ad un intervento della Cassa Depositi e Prestiti, probabilmente su sollecitazione di Unicredit (la Cassa peraltro non nega ormai un po’ di soldi a nessuno, purché potente), per acquisire la quota del 4,5% proprio nelle azioni Generali che la Banca d’Italia doveva vendere; se tale quota fosse andata in mani estranee avrebbe potuto alterare gli equilibri di potere esistenti, ciò che preoccupava proprio l’Unicredit. Successivamente, Intesa San Paolo e la stessa Unicredit, le nostre due principali banche, hanno impiegato diverse centinaia di milioni di euro, soldi che venivano intanto negati alle piccole e medie imprese, per venire in soccorso di Tronchetti Provera, che rischiava di perdere il controllo nella Pirelli. Ancora molto recentemente, infine, sempre Intesa San Paolo ha comprato a caro prezzo i diritti per sottoscrivere una quota rilevante dell’aumento di capitale della traballante società Rcs, sottraendo di nuovo preziose risorse alle nostre imprese.
Si tratta certamente in tutti e tre i casi di operazioni vergognose, ma nessuno ha chiesto le dimissioni dei manager responsabili di tali operazioni, né, almeno sino a questo momento, è intervenuta la Consob per contestare diverse possibili illegalità denunciate dalla stampa e relative alla seconda operazione citata.
Come si può così constatare il vecchio è, come al solito da noi, molto duro a morire.
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