Salute, istruzione, casa, pensioni. I diritti sociali, visti solo come costi, non sono più per tutti. Come fermare la deriva? Siamo in apertura di anno scolastico: ragazzi, famiglie, docenti e dirigenti scolastici dovranno confrontarsi con l’eredità dei decreti Gelmini e i tagli imposti dalla spending review. Ovvero: tagli a tempo pieno e attività extradidattiche, aumento dei costi delle mense scolastiche e delle tariffe mensili dei servizi per l’infanzia. Solo per fare alcuni esempi.
Ciò accade nel contesto di un dibattito pubblico sulle caratteristiche e gli effetti della crisi a dir poco schizofrenico: da un lato (e giustamente) le inchieste sulle aziende in crisi, sulla crescita della povertà e della disoccupazione giovanile, sulla dilatazione della povertà, sulla crescita delle disuguaglianze economiche e sociali; dall’altro la visibilità pressoché esclusiva delle opinioni di “tecnici”, governativi e non, a sostegno di quella che viene proposta come “l’unica via di uscita” dalla crisi: quella dell’austerity e del contenimento della spesa pubblica, in primo luogo di quella sociale.
Tale schizofrenia non è certo casuale: risente di un dibattito internazionale egemonizzato dalla teoria neoliberista che ha imposto l’assioma dell’esistenza di una relazione di incompatibilità tra welfare ed efficienza economica. Così, a partire dagli anni ’80, i governi europei hanno eroso sistematicamente le garanzie offerte dal sistema di welfare. È stato messo in discussione il principio che sta alle fondamenta dello stato sociale: la scelta universalista in base alla quale lo Stato è tenuto a farsi carico di alcuni bisogni sociali fondamentali (salute, istruzione, abitazione, pensioni) trasformandoli in diritti per tutti.
In Italia l’argomentazione in base alla quale questa scelta sarebbe indotta dai costi eccessivi delle politiche pubbliche non regge: la spesa sociale italiana è nella media europea e non si capisce perché i soldi mancano per gli asili e le scuole pubbliche, per l’edilizia pubblica residenziale, per gli ospedali, ma ci sono se si tratta di partecipare alle “missioni umanitarie”, di finanziare nuovi sistemi d’arma o le scuole private.
È opinabile anche l’argomentazione secondo la quale il privato garantirebbe una “migliore efficienza”: di sicuro sino ad oggi i tagli ai servizi sociali hanno significato un aumento dei costi per i cittadini (si pensi soltanto al vero e proprio ruolo di sostituzione del welfare svolto dalle assistenti familiari, per lo più straniere, i cui costi ricadono sulle famiglie).
Infine risulta più che discutibile la tesi che individua nella spesa pubblica un “costo” che ostacola la crescita economica: investire nella scuola, nell’università, nella ricerca, riorganizzare i sistemi di protezione sociale territoriale, intervenire a sostegno delle persone non autosufficienti, significa anche creare lavoro e favorire l’innovazione del nostro sistema produttivo, oltre che sostenere la coesione sociale (si leggano i molti contributi pubblicati su old.sbilanciamoci.info).
I cambiamenti demografici, le trasformazioni nel mondo del lavoro, l’invecchiamento della popolazione, la crescita dell’occupazione femminile, le migrazioni pongono certo il problema di misurarsi con bisogni sociali in aumento e di tipo nuovo. Ma la risposta sta in un diverso utilizzo delle risorse, nel riorientamento e nella riqualificazione dell’intervento pubblico, anziché nella sua costante riduzione.
La difesa dell’intervento pubblico nelle politiche sociali rappresenta dunque una via da seguire: ci sono servizi e attività che non possono essere consegnate al mercato. Di conseguenza, un sistema fiscale ispirato ai principi di progressività ed equità (l’introduzione di una patrimoniale seria sulle rendite e i grandi patrimoni e di una tassa sulle transazioni finanziarie), resta lo strumento fondamentale per finanziare servizi che devono essere garantiti a tutti.
Ambito strettamente connesso alle politiche di welfare, inoltre, è quello del mercato del lavoro: la deregolamentazione introdotta in Italia negli ultimi anni, lungi dall’aver prodotto un aumento dell’occupazione, ha comportato danni crescenti in termini di coesione sociale. Né certo i contenuti della recente riforma del lavoro, che ha modificato l’art.18 e innalzato i costi dei rapporti di lavoro atipico (rinunciando all’annunciata riduzione delle tipologie di lavoro “flessibile”, evitando di abbassare i costi del rapporto di lavoro dipendente e di ampliare il sistema di protezione sociale per i lavoratori precari), sembrano mutare le linee seguite sino ad oggi.
È dunque necessario un welfare nuovo che sappia rispondere alle nuove necessità di una società che a causa della crisi vede aumentare le persone precarie, povere e sempre più sole. Poiché siamo i primi a diffidare delle “ricette facili”, torniamo a discuterne collettivamente a Capodarco dal 7 al 9 settembre.
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