Guido Martinotti, sociologo urbano, aveva suggerito nel 2011 ai responsabili della campagna di Giuliano Pisapia, non ancora sindaco di Milano, di parlare chiaro e di puntare su tre parole: lavoro, benessere, speranza. In ricordo di Martinotti, morto a Parigi all’inizio di dicembre, pubblichiamo qui di seguito la voce “speranza”
… La terza parola è “speranza”. La Costituzione italiana, a differenza di quella americana, non promette la felicità. Fa bene perché la felicità non è una dote collettiva, ma personale. Possiamo essere ammirati del coraggio dei padri fondatori degli Stati Uniti, e non sottovalutiamo il peso che queste parole della dichiarazione di Indipendenza ebbero sulla cultura americana (We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness. “Riteniamo assolutamente evidenti senza bisogno di altre spiegazioni le seguenti verità: che tutti gli uomini sono creati eguali e che sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili e che tra questi vi siano il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità.” Si noti che alcuni stati firmatari erano schiavistici e che la formulazione originaria tratta dal filosofo Locke era “Pursuit of Property”, la ricerca della proprietà, ma questi aspetti, tutt’altro che marginali, non mutano il senso generale). Tuttavia, oggi, chi promette la felicità (e ce ne sono e ce ne sono stati, molti) è un cialtrone e un venditore di fumo: non per nulla la felicità, l’amore (detta da Berlusconi è una parola quasi vomitevole) sono accomunati nella retorica del banale di Silvio Berlusconi, al sogno “facci sognare” parola tipica del credulone. La parola felicità è ambigua e comunque sempre riferita a uno stato individuale, si può essere felici anche in mezzo alle più gravi avversità, e per questo occorre stare attenti perché lor signori hanno sempre diffuso la fola che i poveri sono più felici dei ricchi che, miserelli, hanno tante cure. La felicità è termine da pubblicitario e comunque la ricerca della felicità è un percorso individuale da cui la politica più è lontana meglio è, sono i dittatori che promettono la felicità dei popoli e ne traggono il diritto di occuparsi della loro anima.
Invece la speranza è una qualità imprescindibilmente legata allo stato della società, che la politica può e deve garantire: senza speranza non vi è visione del futuro e voglia di vivere. Speranza non è lo stellone o la credenza mistica nel 13 o nel jackpot, questi sono atti magici di disperazione. Speranza è invece esattamente il contrario, la convinzione moderatamente giustificata dai fatti, che il futuro possa essere migliore. La speranza di cui parliamo qui non è quella nel Paradiso, di cui parla il Papa, capo dello stato del Vaticano, nella sua recente ripresa del termine. Quel tipo di speranza in un’altra vita nella storia non ha mai salvato la specie umana dalle peggiori nequizie, anzi. Ed è stata soprattutto un grande strumento di dominio – “gli ultimi saranno i primi” e falsità del genere. La speranza che qui ci interessa è quella che ha fornito la molla che ha fatto muovere e fa muovere miliardi di persone: la speranza dei nostri antenati che si organizzavano contro i soprusi e l’arbitrio, la speranza dei milioni di italiani che sono andati a cercare lavoro e benessere in terre lontane, la speranza dei galeotti inglesi buttati sulle spiagge australiane di creare una società funzionante, la speranza di chi viene nel nostro paese per migliorare le proprie condizioni, la speranza della casta degli intoccabili indiani (che Gandhi chiamava Figli di Dio) di migliorare la propria condizione grazie all’attività politica nella più grande democrazia funzionante del mondo. La speranza dei miliardi di persone che accorrono nelle città di tutto il mondo per sfuggire alla fame e alla paura. La speranza è l’opposto della paura e sostenere la speranza è esattamente il contrario di agitare la paura, cioè di quelli che in inglese si chiamano fear-mongers (paurafondai), che è quanto sta facendo la destra ormai da più di un decennio. La paura è una brutta bestia e chi la agita pensando di perseguire miopi fini di potere, o anche perseguendo fini più nobili, non si rende conto della devastazione che viene operata sul corpo sociale. Naturalmente le paure sociali hanno origini individuabili e ho cercato di identificare le tre “inquietudini (delle) capitali” della nostra società (“Vittorio Gregotti e la città” in Festschrift per gli ottant’anni di Vittorio Gregotti, (a cura di Guido Morpurgo) Skira, Milano 2007 pp. 117-143) che sono il prodotto di tendenze diffuse non facilmente governabili a livello locale, ma come non collegare il dato della paura degli italiani con le forsennate campagne a sfondo xenofobo degli organi della destra? La sinistra deve essere il partito che combatte la paura con tutte le sue forze e deve riuscire a vincere la paura dimostrando che la vita sociale può progredire, se noi tutti ci impegniamo, innanzitutto, a rimuovere gli ostacoli per il progresso. La speranza è il sentimento più importante per i giovani ed è il fondamento dell’idea stesso di educazione: oggi c’è una tendenza a identificare l’educazione con la scuola ed è un paradosso che ciò avvenga in un periodo in cui l’educazione sta diffondendosi nel mondo ben al di fuori della scuola formale, fatto che non è slegato dalla crisi, mondiale, delle tradizionali istituzioni scolastiche pensate per società povere di informazione e conoscenza. La politica deve offrire risorse alla speranza, e una delle risorse principali come abbiamo già visto è la cultura, ma deve anche adoperarsi per rimuovere gli ostacoli. Uno di questi ostacoli è la guerra, un altro è la devastazione ambientale e un altro è il razzismo, l’odio per l’altro. Con guerra, odio e devastazione non c’è futuro, non c’è speranza, non c’è progresso. Per nessuno.
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