Il Nobel all'economia, nei giorni del crollo del turbocapitalismo, è andato a Paul Krugman. Non a Keynes in persona come qualche provocatore aveva proposto, ma a uno dei più famosi keynesiani viventi. L'economista di Princeton che, dalle colonne del New York Times, ha smontato pezzo a pezzo la politica economica di Bush come le sue avventure belliche. E che, con i suoi studi sui modelli di commercio e sulla localizzazione delle attività economiche, ha dimostrato che non sempre il mercato lasciato a se stesso funziona perfettamente. Questo ben prima che la realtà facesse esplodere questa verità in faccia a tutti, dandone "verifica empirica", come ha detto Joe Stiglitz, anch'egli Nobel per l'economia nell'anno 2001.
Nonostante la presenza di Stiglitz, di Sen (1998) e altri nella lista, l'elenco dei Nobel dal '69 a oggi resta fortemente imbarazzante per la giuria, data la ricorrente presenza degli ultrà liberisti e la costante conferma delle teorie mainstream, qua e là infiocchettate con i riconoscimenti di particolari tecnicalità nel campo della finanza. Dal premio a Milton Friedman (1976) in poi, si parla di uno "Stoccolma-Chicago express": la scuola di Chicago conta ben 25 premi Nobel, più o meno diretti. Restando nelle statistiche: più del 70% dei premiati viene da università americane, il 69% (58 economisti) ha la cittadinanza Usa. Tra loro, gli indimenticabili Scholes e Merton, insigniti della massima onoreficenza nel 1997 per aver trovato "un nuovo metodo per determinare il valore di strumenti derivati", e poi fondatori dell'hedge fund Long Term Capital Management, salvato dalla Fed poche settimane fa per la bella spesa di 3,6 miliardi di dollari.
A poche settimane dal voto Usa, il premio a Krugman è anche un simbolico addio a Bush, e un caldo benvenuto a Obama. Resta l'interrogativo: i saggi di Stoccolma hanno voluto fare così pubblica autocritica, o hanno semplicemente sancito l'avvento di una nuova mainstream?
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