Introduzione a un articolo sulla diseguaglianza in Italia nell'era di Berlusconi, pubblicato sul numero 2/11 di Micromega, dedicato a "Berlusconismo e fascismo", in edicola dal primo marzo.
“Dovrebbe in primo luogo l’imposta ereditaria falcidiare, alla morte di ogni uomo, tutta l’eccedenza della sostanza che egli in vita ha saputo cumulare al di là di quanto basti a garantire la vita del coniuge superstite, la educazione e la istruzione dei figli sino alla maggiore età economica, la sussistenza dei figli inetti, per deficienze fisiche o mentali, a procacciarsi il sostentamento, il possesso della casa, provveduta di adiacenze, di mobilio, di libri ed oggetti vari, reputata bastevole alla famiglia sopravvivente; sicché la sostanza riservata sia tenuta entro limiti atti a impedire diseguaglianze apprezzabili nei punti di partenza”. Luigi Einaudi, 1949
“Questi signori (la sinistra, ndr) continuano ad essere convinti che il fine della politica sia quello di redistribuire il reddito in modo da intervenire con la tassazione per far sì che possa avvenire questa redistribuzione, e ciò che propongono è di rendere uguale il figlio del professionista con il figlio dell’operaio, di togliere cioè al ceto medio per dare a quella che ancora chiamano la classe operaia”. Silvio Berlusconi, Tg1, 30 maggio 2007
L’Italia è uno dei paesi più disuguali del mondo ricco. La disuguaglianza nel reddito e nella ricchezza tra chi ha di più e chi ha di meno si è ridotta solo negli anni ’70, è tornata a salire dalla metà degli ’80, si è stabilizzata a cavallo dei due millenni, tenendoci a livelli paragonabili a Stati uniti e Gran Bretagna, ben al di sopra di quelli dell’Europa continentale. Nell’era di Berlusconi – attualmente 74° nella classifica Forbes dei miliardari mondiali, con 9 miliardi di dollari di ricchezza netta – questa tendenza generale si è consolidata; e intanto sono cresciute fortemente le diseguaglianze “orizzontali”, tra classi sociali: qualcuno ha vinto, qualcuno ha perso. Gli studi su distribuzione, ricchezza e povertà concordano sul fatto che la disuguaglianza italiana ha un carattere particolarmente odioso, ossia la sua persistenza di generazione in generazione, che rende la nostra società immobile nella sua ingiustizia. Sull’argomento, Berlusconi ha detto la sua in modo chiaro nello spot al Tg1 citato, sui figli degli operai e quelli dei professionisti: è così che deve andare, di padre in figlio. Era il 2007, il Polo non era ancora stato ribattezzato Popolo dal predellino, ma la parola “libertà” c’era già, scolpita sin dalle videocassette dell’annuncio della discesa in campo del 1994. La stessa parola Luigi Einaudi la usava in altro modo, chiedendo in suo nome “un’imposta ereditaria eguagliatrice e stimolatrice”; quel che preoccupava maggiormente il liberale Einaudi era la trasmissione di enormi patrimoni non meritati, e dunque con molta probabilità destinati ad essere mal gestiti, e “l’immobilizzazione” delle fortune. Anche Warren Buffet, miliardario collega di Berlusconi piazzato molto più in alto nella lista Forbes, è favorevole a tassare le eredità: trasmettere totalmente le ricchezze dai padri ai figli è come “selezionare gli olimpionici del 2020 scegliendoli tra i figli delle medaglie d’oro delle Olimpiadi del 2000”, ha detto nel pieno della discussione americana sull’abolizione della tassa di successione, quella che Bush chiamava “death tax”. Berlusconi non concorda né con Einaudi né con Buffet, ma con Bush – e alla lettera: quella che lui chiama “tassa sulla morte” viene abolita nel 2001, con provvedimento infilato d’urgenza nella legge dei primi 100 giorni, accanto a Tremonti-bis ed emersione del sommerso, “per il rilancio dell’economia”. Al contrario che negli Stati uniti, da noi la misura non suscita grandi discussioni, critiche e rivolte, né tra i poveri né tra i ricchi. La perdita di gettito non è ingente, come non sarà importante, in termini di entrate, il mini-ripristino della tassa, solo per grandissimi patrimoni, poi attuato dall’Ulivo nel 2007. Ciononostante, l’abolizione dell’imposta di successione può essere considerata simbolo e manifesto dell’era fiscale berlusconiana: avvantaggia i più ricchi, ma piace a tutti; non è apprezzata dai liberali, ma è fatta in nome della libertà; cristallizza la società immobile, in nome della destra modernizzatrice; premia ciò che si è avuto per fortuna e non per merito; sancisce l’inviolabilità della “roba” accumulata nei confini patrimoniali della famiglia; e, alla fin fine, è una delle poche riforme fiscali fatte davvero. Prendiamola dunque come un faro, che non spiega ma illumina quel che è successo tra la prima metà degli anni Novanta e oggi all’eguaglianza nel nostro paese.
(Il testo completo dell'articolo di cui abbiamo qui pubblicato l'introduzione è su Micromega, n. 2/11)
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