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La marcia dell'acqua

27/04/2011

Acqua privata, gestione pubblica, mercato inesistente. Una storia vera: l’Acqua Pia Antica Marcia che aveva dai tempi del papa la concessione delle risorse idriche a Roma si scontrò con il comune che le gestiva tramite la sua Acea. Scesero in campo economisti e luminari del foro. Ecco come andò

Premessa

Presto dovrebbe tenersi un referendum rivolto ad impedire che le reti locali di distribuzione dell’acqua vengano date in concessione ad imprese private. Sbilanciamoci mi ha chiesto un racconto – al contempo personale e pubblico – della mia esperienza in un team di esperti a difesa dell’Acea e del Comune di Roma per la quantificazione del danno che questi soggetti avrebbero dovuto pagare all’Acqua Marcia, impresa privata che da quasi un secolo prosperava nella gestione dei servizi idrici in Roma. Nel corso di oltre dieci anni ho potuto conoscere, in profondità e dall’interno, molte questioni connesse alla gestione dei servizi idrici, ma non solo: spigolature sulla giustizia civile, sottigliezze sui fattori di corruzione e sulla regolamentazione pubblica.

La storia è cominciata quando mi telefonò – su indicazione di Federico Caffè e Claudio Napoleoni – l’allora presidente dell’Acea per chiedere la mia consulenza. L’Acea era entrata in possesso, a una certa data, degli impianti di adduzione e di distribuzione in Roma di acque di cui, fin dalla fine dell’Ottocento, era titolare per concessione pontificia la “Società dell’Acqua Pia Antica Marcia”, di origine inglese. Tuttavia non era ancora scaduta la concessione delle acque, che sarebbe scaduta una quindicina di anni dopo. Per cui l’Acqua Marcia (Am) aveva fatto causa a Comune di Roma e Acea (Cra) per l’illegittimo impossessamento dell’acqua, vincendola. Il problema, quando sono entrato io, era la determinazione del valore economico del danno.

“Eleganti contraddizioni”

L’acqua aveva un vincolo di destinazione all’utenza romana e non poteva essere né distrutta né “distratta” (i contratti con l’utenza finale erano già in essere). Sembrava dunque che, fermo restando che l’acqua era dell’Am, essa non avesse alcun valore economico, non essendo suscettibile di usi alternativi, mentre Cra si limitava a garantire il rispetto dei contratti preesistenti con tariffe che, negoziate con il Cipe, erano adeguate alla copertura dei costi (senza profitti, quindi).

Non la pensava così la Cassazione che, confermando la sentenza d’appello, stabiliva anche in grande dettaglio come si sarebbe dovuto determinare il valore dell’acqua. Sia pure con qualche “elegante contraddizione” (qualcuna davvero carina, come i flussi di acqua “giacenti” alle porte di Roma), essa stabiliva che si sarebbe dovuta simulare una situazione collaborativa tra Am e Cra, la prima proprietaria dell’acqua e la seconda degli impianti che ne consentivano la fruizione. Si poteva immaginare alternativamente che Am affittasse gli impianti da Cra per farvi passare la propria acqua ovvero che Cra acquistasse l’acqua per alimentare i propri impianti. Stabiliva inoltre (e come dirò non si trattava di cosa di poco conto) che i mancati guadagni andavano cumulati e su di essi andavano fatti maturare interessi, rivalutando il tutto alla data di conclusione della vertenza.

Von Neuman e Morgenstern

Buon viso a cattivo gioco, noi consulenti non potevamo che stare allo schema, un tantino assurdo, voluto dalla Cassazione. Dimostrai che, non esistendo asimmetrie informative tra le parti (entrambe si erano trovate a gestire il ciclo adduzione/distribuzione per intero), si sarebbe potuto avere accordo sul valore per litro e indifferenza tra le due forme contrattuali ipotizzate dalla Cassazione solo fissando il prezzo o l’affitto unitario nella metà dell’eventuale extra-profitto unitario; ogni diverso valore avrebbe fatto sì che ciascuna delle due forme contrattuali avrebbe favorito una delle parti, escludendo la possibilità di accordo (scoprii in seguito che si trattava di uno dei tanti esercizi/teoremi di Von Neuman e Morgenstern). Si ponevano due problemi. Il primo, tutto mio, era riuscire a farmi capire, il secondo quello di inventarsi un modo di determinare un extra-profitto che, stando alle regole Cipe, non poteva che essere modesto.

Per oltre un anno accumulai rancore nei confronti del nostro avvocato, Michele Giorgianni, che pareva non ascoltarmi e che contrappuntava le mie accalorate argomentazioni dicendo, lapidariamente, “questo il giudice non lo capisce”. Grande fu quindi il mio stupore quando, finalmente in camera di consiglio, Giorgianni “fece nero” l’avvocato avversario (uno dei più famosi a livello nazionale), tirando fuori tutti i miei argomenti, ma non nell’ordine mio, bensì snodandoli lungo un filo argomentativo retorico che i giudici capivano. Una grande lezione sulla marcia in più di un grande avvocato rispetto ad un semplice analista!

L’armata avversaria

Ma non esistevano solo i giudici e i consulenti tecnici d’ufficio; c’era l’armata avversaria e la sua potenza di fuoco. La loro strategia era sparare tutto lo sparabile affinché restassero in mente di tutti i partecipanti al gioco peritale grandi cifre, cifre tanto grandi da suscitare il senso del ridicolo per le nostre più modeste. Arrivarono a dire che la tariffa “era” il valore dell’acqua. Alternativamente indicavano percentuali su valori medi di costi e tariffe dei diversi sistemi acquedottistici italiani, facendo finta di ignorare che ogni sistema è isolato dagli altri, con costi che dipendono non solo dalla qualità della gestione ma dalla distanza delle fonti di captazione delle acque e dalle caratteristiche orografiche dei percorsi. Nel corso di tutta la causa Am tese a giocare, spesso irritualmente, carte di grande impatto mediatico, da pareri “pro veritate” di professori universitari giornalisticamente noti a expertise giurate di grandi aziende internazionali di consulenza finanziaria. Lo scopo non era solo quello di influenzare – spesso con successi che non riuscivamo a spiegare razionalmente – i collegi peritali d’ufficio avvicendatisi nel tempo e i collegi giudicanti, ma anche la dirigenza di Cra, spingendola a cercare una transazione extra-giudiziale (come alla fine, dopo molti anni, accadde).

Moltiplicazione dei risarcimenti e ridimensionamento del danno

Era facile far lievitare il valore del risarcimento. La logica – dettata dalla Cassazione – in base alla quale occorreva accumulare e rivalutare i “mancati utili” e gli interessi, moltiplicava enormemente gli effetti finali di piccole differenze nella stima storica dei costi. Ciò voleva dire che il metodo di stima era tutt’altro che “robusto” – cioè relativamente stabile per modeste variazioni dei parametri – il contrario dunque di quanto si richiede a buoni metodi di stima. C’era un’altra ragione (un pensiero maligno) per il lievitare delle cifre oggetto di discussione: i compensi ai consulenti sono proporzionali alle cifre in gioco (nel mio caso, sembrandomi questo immorale, feci fatturare dal dipartimento solo le giornate di lavoro impiegate, alle tariffe fissate dagli organi accademici, destinando i proventi a finanziare ricerche).

Resistemmo ad oltranza, spesso isolati dalla stessa dirigenza Cra, facendo annullare una sentenza dopo l’altra, finché intervenne un evento positivo davvero inatteso: una nuova sentenza della Cassazione riscoprì (sulla base di meri ragionamenti giuridici) un noto teorema economico – legato ai nomi di Modigliani e Miller – per il calcolo del danno. Bellissimo episodio, a riprova che esistono giudici e giudici, che intelligenza e diligenza sono statisticamente distribuiti. In breve: esiste un evento illegittimo, irreversibile, ad una certa data; in quel momento si determina un danno patrimoniale, che va stimato come capitalizzazione, in quel momento, dei mancati utili futuri. Dopo di che quella somma, puntuale, va rivalutata e caricata degli interessi. L’effetto di questo cambiamento di metodo era non solo un drastico ridimensionamento del tetto massimo delle cifre in gioco, ma un criterio di stima nettamente più robusto.

Carattere dei sistemi idrici

Molte delle cose che ho imparato in quella esperienza possono essere di aiuto nell’orientarsi oggi. I sistemi idrici sono sistemi locali, isolati, ingegneristicamente ed economicamente.

Non hanno quindi alcun senso (a meno di sconvolgimenti planetari) molti degli slogan ecologisti estremi, del tipo: risparmiamo l’acqua perché è preziosa, o perché in Africa si muore di sete, facciamo la doccia solo una volta al mese, ecc. Il risparmio d’acqua può essere importante in una prospettiva lunga, non rivolgendosi agli utenti ma agendo a monte. Se diminuisce il consumo d’acqua a Roma questo, a breve termine, si ripercuote solo sul livello del lago di Bracciano (la riserva), che non può però essere fatto innalzare all’infinito; prima o poi l’acqua risparmiata dovrebbe essere scaricata a vuoto. Se si vuole conservare l’acqua a lungo termine bisogna agire sull’intero bacino di captazione, trattenendo meglio l’acqua pluviale nelle montagne e colline (rimboschimenti, bacini che diluiscano gli afflussi di punta adeguandoli ai tempi di assorbimento del terreno, ecc.). Il risparmio sui flussi già esistenti non ha senso al di fuori di punte annuali di siccità.

Concorrenza e public utilities

Passo agli aspetti economici. La pretesa maggiore efficienza delle imprese private dipende dall’ipotesi che esse si facciano concorrenza in un ambiente “mercato” in cui esse sono sottoposte ad una continua sfida da parte degli acquirenti, i quali possono in qualsiasi momento cambiare fornitore. Se manca questa possibilità di sostituzione pressoché istantanea, la pretesa efficienza viene a mancare. Che sia questo tipo di “contendibilità” che induce le imprese a perseguire la migliore offerta qualità/prezzo (e non l’essere l’impresa privata e non la numerosità delle imprese) è stato chiarito da Baumol, non solo Nobel ma richiestissimo consulente in materia antitrust e di regolamentazione e controllo delle public utilities (reti energetiche, telefoniche, trasporti, acqua, ...). Esistono condizioni naturali di contendibilità nel caso dei servizi idrici? Una volta vinta una gara la concessione crea una situazione di monopolio duratura nel tempo e mancano quindi le condizioni di immediata sostituibilità del fornitore da parte degli utenti.

Concessioni, dividendi e tariffe

Tutti sembrano credere nella gara per la concessione come fattore di concorrenza. Non lo è. La concessione fa perno su promesse di comportamenti futuri non verificabili efficacemente, o perché la sua revoca determinerebbe costi aggiuntivi e contenziosi complessi o perché non vi è nessun soggetto di garanzia dotato delle sufficienti competenze e degli incisivi poteri che servirebbero. I “gareggiatori” si troveranno a ricevere in uso gli acquedotti nel loro stato attuale. Interverranno per risanamenti dalle perdite e cura della qualità? Probabilmente sì, ma solo all’inizio e solo se, date le tariffe, questi interventi aumenteranno i guadagni. Ma lo faranno man mano che si avvicina la fine della concessione? L’esperienza della vertenza Am mostrava che, come è ovvio, quando ci si avvicina alla scadenza della concessione il concessionario privato “lascia andare le cose” e taglia le spese. È la logica del profitto a indurlo; l’Acea post Spa, che deve poter pagare dividendi, ha molte più perdite di rete oggi di quando era una mera emanazione comunale; che ragioni avrebbe di spendere per eliminare sprechi, visto che il bacino romano ha normalmente acqua sovrabbondante?

Ma vi sono altri interrogativi. Come funzionerà il sistema (inevitabile) di adeguamento delle tariffe nel tempo? In passato era un compito del Cipe che tendeva a “negoziare” sulla base dei costi posti in evidenza dai gestori (indifferentemente pubblici e privati); chi sarà in grado, oggi, di valutarne la congruità (per una data qualità del servizio), sia al momento della concessione che nelle fasi di adeguamento? E cosa succederà ove si ponga l’esigenza di captazioni d’acqua aggiuntive e conseguente costruzione ex novo di impianti di adduzione? Come verranno questi ultimi valutati al momento di una nuova gara, ove chi ha fatto gli impianti debba cedere il campo ad un nuovo concessionario? E come non meravigliarsi del fatto che il margine di profitto sia stabilito in sede normativa (e quindi non dal mercato), e per di più in una misura – il 7% – che non appare giustificato dal rischio di impresa, praticamente nullo una volta vinta la gara, visto che ciò che si vince è un diritto di monopolio?

Simmetrie e asimmetrie informative

Il problema delle “utilities” è ovunque, non solo in Italia, quello delle istituzioni di controllo. Valutazioni e controlli costano, le istituzioni in questo campo non si improvvisano, si formano in lunghi tirocini, il loro personale o costa o non vale. Il problema, tanto di moda di recente, delle c.d. “asimmetrie informative”, che tutti fanno derivare dalle riflessioni teoriche di Coase sui costi di transazione e sulla loro ineliminabilità, era stato empiricamente (e senza nome) scoperto ben prima in seno alle autorità di regolazione, controllo e vigilanza delle public utilities degli Usa, che per ragioni storiche preferivano fare concessioni (molto ben condizionate) ad imprese private anziché agire mediante aziende pubbliche. Lo dimostra una storia in cui si sono inventati – e non poteva essere diversamente – artifici indiretti, quali il price cap e il benchmarking, per fronteggiare l’ovvia e arduamente contrastabile convenienza, per le imprese di gestione di questi tipi di servizi, ad essere informativamente opache e reticenti. Inoltre, come i regolatori americani hanno ben dimostrato di sapere, occorre aver riguardo ai processi costruttivi degli ambienti concorrenziali nel tempo; la deregolazione delle telecomunicazioni negli Usa è durata più di dieci anni per dar tempo alla concorrenza di “formarsi”, ed è passata da una fase iniziale in cui ai monopolisti preesistenti era proibito competere su certi mercati, aperti solo ai nuovi concorrenti (regolazione asimmetrica) a una fase finale in cui tutti potevano concorrere su tutti i mercati connessi alle Tlc.

A fronte di tanta superficialità analitica, tecnica e di valorizzazione dell’esperienza storica, l’unica cosa di cui stupirsi è che i problemi da me evocati siano stati sottovalutati non solo dalle forze e dai media che sostengono la maggioranza di governo, ma anche da molti delle opposizioni. Il rispetto dello strumento organizzativo “mercato” e lo studio attento dei mercati possibili (al plurale) sono cosa diversa dal mero culto del mercato.

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