Solo qualche settimana fa, prima che l'attenzione collettiva fosse distratta dalla crisi greca ed europea, gli occhi di tutti erano puntati sul processo alla Goldman Sachs, incriminata per frode dalla Sec, Securities Exchange Commision. L'accusa è quella di aver rifilato ai propri clienti, ma anche grandi istituzioni internazionali, nel pieno della crisi subprime, un prodotto finanziario complesso, denominato Abacus, sul quale – secondo la Sec - la banca speculava consapevolmente contro i propri clienti, per guadagnare dalle loro perdite. Due giorni più tardi è stata la volta della Gran Bretagna a interessarsi della banca d'affari Usa: il premier Gordon Brown si è detto sconvolto dalla «bancarotta morale» che emerge dall'inchiesta della Sec, a chiedere alla Fsa, l'autorità finanziaria britannica, una indagine approfondita sulla Goldman Sachs. Non basta: anche la Merkel in Germania vuole fare chiarezza. Il tutto mentre la Bundesbank faceva sapere che nel primo trimestre del 2010 il Pil è di nuovo scivolato in terreno negativo. Una conferma che la ripresa scatenata dalla crisi finanziaria è ancora fragile e destinata a fare altre vittime, come dimostra la terrificante crisi della Grecia sottovalutata dall'Europa.
Le accuse alla Godman Sachs - e l'apertura di inchieste su altre banche – hanno riportato in primo piano gli eventi che hanno scatenato l'ultima crisi economica. Che, sicuramente, è stata fatta deflagrare del disordine finanziario e dalla speculazione. Però, come per la crisi del '29, a scatenare la crisi c'erano gli squilibri dell'economia reale e, in particolare, la pessima distribuzione del reddito. Le crisi sono tutte uguali. Anche se sono diverse le micce che le fanno esplodere. Tutto è riconducibile a uno squilibrio tra offerta e domanda. In particolare, quando l'offerta eccede la domanda si entra in una fase di sovraproduzione e, logicamente, di sottoconsumo. E' quello che accadde nel '29, ma ance quello che è accaduto a livello globale dal 2007. Senza voler sottovalutare la responsabilità della speculazione e la mancanza di regole, la causa principale della crisi è la pessima distribuzione dei redditi. J.K.Galbraith nelle conclusioni del saggio The great crash (il grande crollo) analizzando le cause della crisi del '29 mette al primo posto i forti squilibri nella distribuzione dei redditi: negli Usa l'1,1% della popolazione si appropriava del 33% del prodotto lordo. Di più: circa il 65% della forza lavoro era occupata in agricoltura: si trattava di popolazione in maggioranza di colore. In generale molto povera che vendeva prodotti agricoli a prezzi molto bassi. Insomma, lavoratori che potevano consumare poco. Sul versante opposto c'era un produzione industriale molto sviluppata tecnologicamente e tecnicamente. Erano gli anni del welfare capital nei quali la classe operaia partecipava alla crescita tumultuosa, dovendo, però, accontentarsi solo delle briciole, visto che non poteva accedere ai consumi elevati. I profitti – enormi – erano riversati sugli investimenti (accrescendo la capacità produttiva) e sui consumi di lusso, oltre che sulla finanza. La crisi del '29 esplose per lo scoppio della bolla azionaria che amplifica la recessione già evidente nei primi mesi di quell'anno che tuttavia si chiuse con un crescita del Pil.
La crisi esplosa tre anni fa ha le fondamenta nella stessa natura di squilibri nell’economia reale. Gli ultimi venti anni hanno visto una intensificazione della precarizzazione, una compressione dei salari, una esaltazione dei profitti. Il tutto è evidenziato nella distribuzione dei redditi a livello globale. Ancora una volta la crisi è partita dagli Stati uniti e trova la premessa con il varo, nel 2 001, del primo provvedimento preso da George Bush: una riforma fiscale che premiava al 93% (la stima è contenuta in uno studio della Bankitalia) soprattutto i più ricchi e comprimeva la spesa pubblica non militare e più in generale per la sicurezza. Il tutto in presenza di uno stato sociale molto sottile che non operava un miglioramento della distribuzione del reddito. Il prodotto nazionale lordo aumentava grazie all’aumento della produttività e ai, relativamente, bassi salari. La crisi è maturata in queste condizioni, smentendo una ipotesi marxista tradizionale che vede nella caduta tendenziale del saggio di profitto la causa della crisi stessa. Nell’ultima ventennio non c’è stata caduta. Al contrario un forte incremento del saggio di profitto a livello globale. Quando una azienda introduce innovazione e aumenta la produttività comprimendo i salari, quella è una buona azienda che fa profitti. Ma quando tutte le imprese aumentano la produttività comprimendo i salari l’economia è destinata è entrare in recessione. Perché, inevitabilmente, se i rediti da lavoro dipendente sono bassi, i consumi ristagnano. A meno che lo sviluppo di un welfare adeguato non operi un riequilibrio, seppure parziale. Ma questo non è accaduto. Anzi: le tendenza alle privatizzazioni, alla ricerca del profitto anche nelle nicchie di economia sociale, ha finito per peggiorare la situazione. Lo stesso è accaduto in Italia, come confermano i dati di R&S sulla distribuzione tra profitti e salari, la cui quota è crollata di oltre il 10% in una decina di anni.
Negli Stati uniti per mantenere consumi elevati (pubblici e privati) sono stati costretti a indebitarsi: le famiglie, prima di tutte, ma anche lo stato in presenza di un deficit crescente negli scambi con l’estero per importare merci (moltissime a basso costo) prodotte dalle multinazionali Usa, soprattutto in Cina. La mancanza di un adeguato welfare ha spinto milioni di famiglie negli Stati uniti a rivolgersi al privato. E’ successo per la scuola, vista la insufficienza di quella pubblica, è accaduto e accade per la sanità e anche per la previdenza. E, ovviamente, per la casa. Il tutto si reggeva su un equilibrio precario: l’indebitamento, nella certezza che non venisse mai a mancare il lavoro futuro, cioè il reddito per far fronte agli impegni. Il cuore di tutto a un certo punto è diventata la casa. Come ha scritto un settimanale Usa, la “casa è il portafoglio delle famiglie americane”, in una fase di prezzi crescenti. Che significa l’affermazione? Semplice. Visto la crescita vertiginosa dei valori immobiliari a partire dai primi anni 2000, milioni di famiglie ne hanno approfittato per rinegoziare i mutui o per accederne di nuovi, ottenendo denaro per pagare la scuola ai figli, per cambiare l’auto, per accendere polizze sanitarie o per integrare quelle previdenziali. E le banche erano pronte a soddisfare le esigenze dei clienti non badando tanto per il sottile. Esaurita la fase dei mutui “normali” concessi a famiglie che dimostravano di avere capacità reddituale e iniziata la fase dei mutui subprime. C’è un acronimo che rende bene l’idea: “Ninjia loans”. In italiano possiamo tradurlo come “prestiti a persone senza reddito, senza lavoro e senza patrimonio”. A Roma, l’identificazione è con il popolo degli “sfigati”. Persone alle quali le banche concedevano mutui - anche per un valore pari al 100% dell’immobile e senza garanzie fidejussorie, come viene richiesto in Italia per i precari - a tassi molti alti, magari con clausole “favorevoli” che prevedevano per i primi due anni il non pagamento della rate. I mutui venivano poi monetizzati, ceduti alle banche /se contratti da società finanziarie) e trasformati in obbligazione a alto rendimento, garantite dagli stessi mutui subprime. Tra l’altro questo ha significato la creazione endogena di moneta da parte dello stesso sistema finanziario, senza alcun intervento da parte della Federal Riserve che, con l’ultimo Greenspan aveva adottato una politica dei tassi più restrittiva.
Poiché gli alti rendimenti facevano gola a molti, si è scatenata una corsa agli acquisti di questi bond da parte non solo delle famiglie benestanti, ma anche da parte di fondi pensione e fondi di investimento. Insomma, i bond “taroccati” hanno invaso il mondo, consentendo alle banche di creare nuova liquidità per finanziare il circuito speculativo. E la cosa peggiore è che, soprattutto la clientela privata, non veniva mai avvertita dei rischi. Il tutto nel silenzio quasi totale della autorità di controllo per porre limiti a questa stratosferica creazione di liquidità. Tutto è filato liscio fino a quando la bolla immobiliare è rimasta gonfia e i prezzi delle case continuavano a salire. Poi, quando la bolla a cominciato a sgonfiarsi e poi è esplosa, sono cominciati i guai per tutti: per le banche che avevano emesso le obbligazioni garantite da montagne di mutui dei quali non venivano più pagate le rate e per chi aveva acquistato le obbligazioni fiducioso di percepire alte cedole. Conseguenza: le obbligazioni sono crollate nei valori patrimoniali, le banche hanno dovuto appostare in bilancio minusvalenze enormi e i fondi (pensione e di investimento) si sono ritrovati per le mani carta straccia. Di qui la corsa alla richiesta di aiuti da parte degli stati che, come è noto, sono stati estremamente generosi nel non far crollare il sistema finanziario. E decisamente meno generosi nel sostenere l’economia reale e, in particolare, l’occupazione. Anche se nel frattempo la crisi dell’economia reale ha toccato punte che non si raggiungevano dal ‘29
Paradossalmente la finanza speculativa è stata messa in crisi dagli “sfigati” che stanno pagando caro la loro perdita di lavoro. Gli ultimi dati ci dicono che a fine anno, solo le banche Usa, rientreranno in possesso di oltre un milioni di abitazioni pignorate e che attualmente le procedure di sfratto sono circa 3 milioni, comprendendo anche le persone che sono in ritardo nei pagamenti di almeno due rate. D’altra parte molti preferiscono restituire a casa, anziché pagare mutui elevatissimi pari, molto spesso, al 130-150 per cento del valore attuale della abitazione. Senza dubbio, la mancanza di regole, in particolare sui derivati che – vale la pena di sottolinearlo non sono di per sé strumenti del demonio - ha favorito la crisi. In questa ottica è meritoria l’opera di regolamentazione dei mercati finanziari che Obama (contro l’ostruzionismo dei repubblicani) e Draghi (a livello internazionale) stanno tentando di realizzare. Deve però essere chiaro che la speculazione ha “sette vite” e riesce a rinnovarsi in continuo. La vera riforma deve essere compiuta nell’economia reale, con un intervento pubblico per realizzare un welfare compiuto e per impedire che il privato – alla continua ricerca di nuove occasioni di profitto - di impossessi di settori sociali dell’economia.
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