Crack 2.0/Il sistema è in difficoltà, a causa dei vincoli europei e del cattivo andamento dell’economia reale. E si prepara il maxisalvataggio grazie alla bad bank
Il sistema bancario italiano si trova in difficoltà. Lo dimostrano chiaramente i risultati di bilancio per il 2014. I tredici istituti più grandi hanno registrato da soli nell’anno una perdita complessiva di circa 6,3 miliardi di euro. Ma la realtà appare differenziata: alcune banche, tra le quali le due maggiori, presentano delle cifre positive, mentre la maggioranza di esse mostra un quadro di palese disagio. Per spiegare tali risultati, così come quelli non entusiasmanti degli istituti minori, bisogna fare riferimento a delle ragioni sia di tipo interno al sistema che esterno ad esso, anche se i due aspetti appaiono peraltro tra di loro intrecciati. Le cause esterne. Il passaggio dell’attività di sorveglianza, almeno per le banche più grandi, alla Bce, sta obbligando gli istituti che avevano degli scheletri nell’armadio a portarli alla luce; tra l’altro, la stessa Bce non sembra fare nessuno sconto alle banche nostrane. La prevalente politica di bassi tassi di interesse comporta poi che i margini tra tassi passivi e attivi tendano ad assottigliarsi in valori assoluti, il che produce un calo di redditività, tanto più che le banche hanno fatto poco per aumentare in misura adeguata il livello qualitativo dei loro servizi, con i maggiori margini relativi. Poi, naturalmente, morde ancora la crisi dell’economia. Aumentano così ancora le sofferenze, che alla fine del 2014 raggiungevano la cifra di 183,5 miliardi di euro, pari al 9,6% degli impieghi, contro il 2,8% del 2007 e il 7,8% di un anno fa. Al netto dei fondi di copertura, le sofferenze sono pari a 84,5 miliardi di euro, una cifra enorme.
Le cause interne. Come già accennato, le nostre banche sono poco presenti in servizi a rilevante valore aggiunto e troppo invece su quelli più poveri. Dopo una fase di espansione geografica selvaggia, gli istituti si ritrovano così, mentre avanzano anche i processi di automazione, con troppi sportelli e troppi dipendenti rispetto alla loro presente attività, mentre molte hanno in questo gioco perso il collegamento precedente con il territorio di riferimento. Sullo sfondo sta anche il fatto che il nostro è il paese delle piccole imprese, che danno meno margini delle grandi, mentre queste ultime arretrano sempre più sotto i colpi della crisi. Dal 2009 le banche italiane hanno ridotto gli impieghi di più di 200 miliardi di euro, pari a circa il 13% del totale; nel solo 2014 la riduzione è stata di circa 12 miliardi, mentre gli investimenti in titoli di stato aumentavano di 14. Permane un difficile rapporto tra banche e sistema economico. Le difficoltà sono dai due lati: da una parte c’è la paura di prestare soldi alle imprese, vista anche l’incapacità di distinguere tra imprese buone e cattive. Dall’altra la cattiva situazione dell’economia scoraggia anche le stesse imprese buone dal richiedere credito. Inoltre, il nostro sistema tende a ridurre gli impieghi invece di aumentare adeguatamente il capitale, come richiesto dalla Bce e da Basilea. Siamo di fronte ad un circolo vizioso tra difficoltà bancarie, riduzioni nei livelli di credito e cattivo andamento dell’economia reale. Gli istituti avranno una parte rilevante nei programmi di quantitative easing della Bce, liberandosi di un po’ di titoli di stato e ricevendo in cambio liquidità. Cosa faranno dei soldi rimane però un mistero. Che la situazione non sia ideale è anche testimoniato dal fatto che le banche commissariate sono ormai sedici; vengono alla luce delle gestioni molto discutibili e spesso truffaldine, che in periodi di vacche grasse sarebbe stato facile nascondere sotto il tappeto. Si rivela una concentrazione dei rischi verso il settore immobiliare e verso gli amici, con un intreccio perverso tra manager senza controllo, politici complici, imprenditori in conflitto di interessi, operazioni di manipolazione dei corsi, insider trading. Si vorrebbe ora far passare una possibile soluzione al problema attraverso accorpamenti tra gli istituti e l’intervento di soci esterni, il più delle volte per necessità stranieri.
L’intervento del governo. Dunque il nostro paese si appresta a prendere delle misure per aiutare a gestire i crediti in sofferenza; non si creerebbe forse una bad bank vera e propria, per paura di Bruxelles, ma si varerebbero una serie di norme fiscali (pagheremo sempre noi) e legali per rendere più agevole la cessione di tali attività. Si riconferma la vecchia storia che i soldi mancano per la sanità o le pensioni, mentre per le banche – sotto la falsa dichiarazione, in questo caso, che il ruolo del pubblico sarà limitato – si trovano sempre. Ma intanto i due istituti più grandi hanno fatto sapere che alla loro bad bank ci pensano da soli. Così la soluzione del governo rischia di diventare una delle vie per salvare a nostre spese le banche più malate. Intanto la prevista riforma della governance delle grandi banche popolari, mentre ridurrà i posti di lavoro, mostra poi la solita volontà di controriforma e di adesione ai voleri dei poteri forti nazionali e europei.
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