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Istituzioni europee, come cambiano le regole

06/08/2012

Dietro l'immagine di un'Europa "paralizzata" davanti alla crisi, c'è un vero terremoto nei rapporti tra stati e Unione europea, con forti cessioni di sovranità, senza che si discuta la direzione che l'Europa sta prendendo, e le conseguenze per le politiche economiche e per la democrazia.

Nel Regno Unito c'è chi pensa a un referendum sulla permanenza nell’Unione europea che, se si tenesse oggi, secondo i sondaggi potrebbe spingere il paese ad uscirne. L’uscita della Grecia dall'Unione, pur non essendo auspicata dalle forze politiche greche, non è più un tabù sui media tedeschi. Anche questi sono gli effetti di un decennio di frenata nel processo d’integrazione fra Stati e di costruzione dell’Unione europea. Nei momenti chiave, la diffidenza verso una maggiore integrazione ha prevalso sull'orizzonte federalista dei padri fondatori, veti espliciti e pressioni implicite hanno determinato le nomine dei vertici comunitari, i negoziati sulle questioni finanziarie si sono fatti più aspri, il modello “intergovernativo” ha prevalso sul “metodo comunitario”.

L'immagine "intergovernativa" dell'Europa è diventata quella di un organismo con le molteplici facce dei governi nazionali alla ricerca di accordi su ciascuna politica. Di fronte all'esplodere della crisi, con margini ristretti per le decisioni, l’Europa e i suoi Stati si sono trovati sprovvisti di strumenti adeguati e sono stati i leader dei paesi più forti a dettare le regole del gioco. Lo svuotamento del metodo comunitario operato nel decennio passato ha relegato la Commissione europea ad un ruolo passivo, nella definizione delle strategie politiche, ma sempre più dotato di poteri esecutivi.

Il modo in cui funziona l'Unione europea influenza quello che l'Unione fa (e non fa) e, lontano dai riflettori del dibattito politico, ci sono cambiamenti importanti in corso, dettati più dalle affrettate risposte all'emergenza che da una strategia condivisa. Il rischio, come in passato, è che la discussione pubblica si apra quando si materializzano le conseguenze di decisioni che a quel punto non si possono più cambiare. Vediamo come le riforme del sistema di governo dell’Unione stanno modificando i rapporti di potere fra livello europeo e livello nazionale e gli interrogativi che si aprono sulla strada della loro applicazione.

L’approvazione del cosiddetto “fiscal compact” comporta l’inserimento di un vincolo di pareggio di bilancio nella Costituzione degli Stati: una delle riforme più forti mai imposte dall’esterno ad uno stato democratico. Essa ridurrà fortemente il margine di manovra di tutti i governi, presenti e futuri, nelle decisioni di politica economica. Un alto diplomatico italiano ha recentemente fatto notare come forse in questo caso ci si sia spinti ben oltre il mandato politico legittimo per gli accordi intergovernativi. È quantomeno singolare che in Italia tale vincolo sia stato votato dal Parlamento senza alcun dibattito. 25 su 27 Stati membri hanno adottato o promesso di adottare questa misura, anche se si prospettano già ripensamenti, modifiche, eccezioni. Sarà questo uno dei criteri per differenziare chi si impegna in una maggiore integrazione europea?

I regolamenti che disciplinano il Patto di stabilità e crescita, il cosidetto “Six Pack”, approvati lo scorso anno, introducono il sistema di voto della cosiddetta “maggioranza qualificata inversa” nel Consiglio europeo. Ciò vuol dire che, ai fini delle sanzioni da imporre ad uno Stato membro nel caso di mancato rispetto del Patto di stabilità, sia per le misure preventive, sia per quelle correttive, la proposta della Commissione europea viene automaticamente adottata, a meno che in Consiglio non si raggiunga una maggioranza qualificata di Stati contrari a tale proposta. Al di là dei tecnicismi legali, si tratta di una rivoluzione copernicana nei rapporti di forza fra Stati e Commissione. Si inverte l’onere di trovare una maggioranza qualificata per prendere una decisione. Per ora questo istituto legislativo si applicherà solamente alla sorveglianza macroeconomica dei criteri del Patto di stabilità rafforzato. Nulla vieta però che in futuro esso possa essere esteso ad altre aree. Sarà effettivamente applicato a tutti gli Stati membri o, ad esempio, solo alla zona euro?

Le nuove condizionalità che stanno per essere introdotte nell’erogazione dei fondi comunitari del prossimo periodo di programmazione 2014-2020 avranno effetti importanti sulle politiche degli Stati membri, soprattutto quelli che ne hanno maggiore bisogno. Ogni paese sarà obbligato a rispettare le condizioni concordate a livello europeo per poter accedere ai fondi comunitari. La diversa forza negoziale dei paesi porterà a una disciplina più stretta per i paesi che più dipendono dai fondi europei?

L’accordo politico su una nuova tassa europea sulle transazioni finanziarie è difficile, ma sembra imminente la sua introduzione nella zona euro. Da un lato, il Regno Unito ha fatto sapere che non intende approvare una tassa che colpirebbe la City di Londra; dall’altro, Francia, Germania e quasi tutti i paesi euro sembrano decisi ad introdurla. Essa avrebbe molteplici obiettivi, come segnale politico di lotta alla speculazione finanziaria, strumento di regolamentazione dei mercati, e nuova risorsa per il bilancio comunitario. Ma se una tassa applicata solo nei due terzi dell’Unione concorre a formare il bilancio comunitario, è giusto che questo venga poi utilizzato in tutti e 27 i paesi?

Anche il sistema di aiuti agli “stati virtuosi” che dimostrino di aver “fatto i compiti a casa”, secondo il piano Monti approvato nel Consiglio di fine giugno, rientra in questa serie di cessioni di sovranità. Le raccomandazioni che la Commissione europea fa a ogni Stato membro diventerebbero i criteri in base ai quali stabilire se uno stato è “virtuoso” o meno, definendo a quali condizioni esso può accedere agli aiuti. Anche questa proposta comporta una cessione di potere dal livello nazionale verso quello europeo; che conseguenze può avere la crescente, inevitabile asimmetria tra i paesi che possono aver bisogno degli aiuti europei e quelli che possono farne a meno?

Le nuove proposte presentate a fine giugno dal “gruppo dei quattro presidenti” (Barroso, Commissione; Van Rompuy, Consiglio; Juncker, Eurogruppo; Draghi, Bce) auspicano un’unione bancaria, fiscale e politica, fino ad arrivare ad un vero e proprio Tesoro europeo. Si parla di un’autorità di controllo bancaria comune, di assicurazioni comuni sui depositi bancari, di coordinare i bilanci nazionali, fino ad avere emissioni obbligazionarie comuni e un Ministero del Tesoro europeo. Fino a che punto potrà effettivamente spingersi questo percorso di integrazione? Potrà essere confinato a banche e spesa pubblica ignorando l'armonizzazione delle norme sull'imposizione fiscale, la situazione dell'economia reale e dell'occupazione? E, più in generale, i passi verso una più stretta integrazione tra i paesi euro come si conciliano con organi dell'Unione europea che comprendono paesi fuori dalla moneta unica?

Dietro l'immagine di un'Europa "paralizzata" davanti alla crisi, vediamo così che grandi cambiamenti sono in corso: un vero e proprio terremoto nei rapporti tra stati e Unione europea. Dietro l'affannosa risposta intergovernativa alla crisi, avanza un processo di integrazione che porta a consistenti cessioni di sovranità, senza che si discuta la direzione che l'Europa sta prendendo, e le conseguenze per le politiche economiche e per la democrazia. Senza un ripensamento di questo tipo, le conseguenze saranno asimmetrie e divisioni crescenti all'interno dell'Unione. Non tutti i paesi dell’Unione saranno probabilmente in grado di procedere in questo tipo di integrazione e alcuni, al contrario, iniziano a discutere di come rinazionalizzare alcune competenze. Si comincia a parlare apertamente di una ristrutturazione dell’Unione europea: paesi che si allontanano, come il Regno Unito, paesi che potrebbero uscire, paesi che decideranno di mettere in comune sempre più poteri. La lista infinita di opt-out – eccezioni nazionali su cui non si applicano le norme comunitarie – negoziati dalla maggior parte dei 27 Stati membri, compresi molti dei nuovi entrati, rende quasi impossibile un avanzamento profondo dell’integrazione europea. Ma un’Europa a più velocità rischia di essere ingestibile, visto il moltiplicarsi di strumenti e politiche alle quali partecipano gruppi di Stati diversi.

Di fronte a una così ampia cessione di sovranità dal livello nazionale a quello europeo il problema che l’Europa si sta ponendo è quello della legittimità democratica. Può un organo non eletto, come la Commissione, acquisire tanti poteri? Da un punto di vista legale, stando ai Trattati attuali, essa può assumere tutte le competenze che gli Stati membri decidono di delegare, e così sta avvenendo. Da un punto di vista politico, è evidente che essa abbia bisogno di una maggiore legittimità democratica. Come si potrebbe mettere più democrazia nella costruzione europea? Le ipotesi sono varie: c’è chi ha proposto che il Presidente, ed almeno la metà membri, della Commissione siano scelti fra i parlamentari eletti nelle elezioni europee; altri ritengono che il Presidente della Commissione debba essere eletto (e non solo ratificato, su proposta del Consiglio, come ora) dal Parlamento europeo; e chi si spinge oltre fino a chiederne la sua elezione diretta dai cittadini di tutta l’Unione. A quel punto i candidati dovrebbero essere personalità in grado di sostenere una campagna elettorale in 27 paesi diversi, in 23 lingue diverse. Un'Europa capace di funzionare meglio, con più democrazia, richiede forse di ripensare a come organizzare la politica a scala dell'Europa.

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