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Le ragioni del no al nuovo trattato europeo

30/01/2012

Il Patto fiscale intergovernativo, con l’obbligo del pareggio di bilancio, mette a rischio il compromesso sociale alla base della democrazia europea

Il cerchio si stringe. Il processo di cambiamento di natura dell’Europa nel suo complesso, e degli stessi singoli Stati, conosce un passo in avanti che ha un peso enorme, una vera e propria chiusura del recinto, per usare una metafora che si è andata diffondendo per indicare questa fase postdemocratica in cui stiamo vivendo. Bisogna avere ben chiaro di cosa si sta decidendo. Una modifica del Trattato Europeo, che poi è più precisamente un Patto Fiscale Intergovernativo, sottoscritto appunto dai governi, che porta a compimento la ricostruzione degli architravi europei iniziata con la task force salva stati e poi continuata con la costruzione di Europlus, l’approvazione del six pack, e articolatasi nei vari Stati con le manovre finanziarie dettate da Bruxelles e l’evoluzione dei quadri politici di vari Paesi, in queste ore è la Slovenia che sta per avere un banchiere a capo del governo, verso esecutivi funzionalizzati al processo in corso. Il patto fiscale intergovernativo peraltro ha in sé la spudoratezza di non risultare neanche una revisione del trattato europeo, ostato come è per altro dal veto inglese, ma fa sì che i governi si arroghino il potere di modificare direttamente le loro Costituzioni nazionali. Un potere che se pure magari rispetterà alcune procedure formali previste, sarà talmente indiscutibile che queste modifiche costituzionali avverranno, e anzi già avvengono, per imperio sostenuto dalla dichiarazione di stato di emergenza che ormai vige in Europa.

Allo stato attuale nessuno, o quasi, mostra di saper resistere all’incedere degli eventi. La governance tecnocratica, composta dai governi del Consiglio Europeo, Commissione Europea, Bce e Fmi, lavora a pieno regime. Le direttive di austerity imposte sono sorrette dal sixpack e contengono numeri e metodologie insindacabili. Il sostegno massmediologico volto a creare l’impossibilità del dissenso, è impressionante. La colpevolizzazione dei cittadini è sistematica, così come la costruzione dei capri espiatori, giusti o sbagliati che siano. Ciò che è intoccabile è il sistema, quello della finanziarizzazione e della lex monetaria. Poco importa che tutto dica che le misure prese non curano, ma aggravano la malattia, basta vedere il paziente greco ormai morente. Si deve cambiare il volto della democrazia sociale europea, aprire spazi a nuove scorrerie del capitale finanziario nei santuari di quello che fu il welfare (basta leggere a proposito il recentissimo documento della Deutch bank sulla necessità delle più vaste privatizzazioni dei servizi); piegare ogni idea di soggettività collettiva del lavoro; ridurre la politica a pura serva degli interessi dominanti.

I distinguo sono assai flebili. Il Parlamento Europeo, che qualche giorno fa dichiarava, per bocca dei 4 propri membri delegati a discutere con il Consiglio la bozza di nuovo trattato, la inaccettabilità totale di procedure e contenuti, ora approva una risoluzione, blindata ed inemendabile, di 4 gruppi, Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali e Verdi, che in buona sostanza riformula l’inaccettabilità in dissenso e lo circoscrive alla richiesta che al rigore si accompagni, e non si sostituisca, lo sviluppo e si assicuri un qualche ruolo del Parlamento. Rispetto dunque allo stesso voto di qualche mese fa sul six pack, dove ci fu almeno in parte una qualche dialettica destra-sinistra, si è andato assestando un quadro assai più da grande o addirittura grandissima coalizione. Dove il distinguo rischia appunto di essere meramente aggiuntivo e non contestativo di ciò che si fa. Come se quelle idee di austerità non avessero in sé una propria idea della “crescita”, quella affidata allo smantellamento del modello sociale europeo. E come se il carattere postdemocratico non fosse intrinsecamente connesso alla natura delle cose che si stanno facendo e che appunto stracciano il compromesso sociale che sorreggeva la forma propria della democrazia europea.

E’ una trama complessa che si sviluppa dall’alto e dal basso, dal centro, Bruxelles, e dalle periferie. Dove si moltiplicano le spinte alla tecnicizzazione dei governi e alla costruzione di larghe convergenze della politica a sostegno ancillare. In Italia è una realtà sempre più in strutturazione. Ma nella stessa Germania, cuore del nuovo ordine europeo, dal land di Berlino in poi, sono sempre più evidenti i segnali di Grosse Koalition, con la Merkel peraltro al 36% dei sondaggi, nettamente prima. Se consideriamo, come si deve fare per serietà, l’approvazione del patto fiscale come vero spartiacque, difficile dire che si collochino all’opposizione, proponendosi come alternativi al complesso di questa impostazione, i socialisti e gli stessi verdi. Fa eccezione la Francia, dove però pesa molto la campagna elettorale in corso e dove Holland, socialista, dice che da Presidente vorrà discutere se firmare il trattato. E sarà interessante vedere lo svolgimento concreto dei fatti dato che l’intenzione è arrivare alla ratifica del patto fiscale prima del voto francese. In Italia, il via libera al punto chiave dell’inserimento dell’obbligo al pareggio di bilancio, la cosiddetta regola d’oro, viene votato da una maggioranza “bulgara”, tale da vanificare la possibilità di un passaggio confermativo per voto popolare. A proposito di voto bulgaro, scherzando amaramente, vorrei dire che neanche Bresnev costituzionalizzò una teoria monetaria. E quella del pareggio è appunto una teoria, che “uccide” il keynesismo, e concretamente significa tra l’altro che, se si deve scendere al 60% del debito in pochissimi anni, le manovre saranno durissime e prolungate. Con il rischio, o forse la certezza, di una spirale recessiva tragica. Pensate all’Italia che deve scendere dal 120%! E questo senza nessuna riflessione sulla genesi, la natura e la composizione di quei debiti. In Italia ad esempio il debito, guarda un po’, si impenna negli anni immediatamente seguenti alla cancellazione della scala mobile e dunque con l’instaurazione di un sostegno alla crescita drogato di denaro pubblico, al posto di quello legato all’espansione dei salari; e lievita, come in tutta Europa, di nuovo in questi ultimi due anni di trasferimenti enormi di denaro pubblico al sistema finanziario, ben 6400 miliardi nella UE, e di record di ore di cassa integrazione per la crisi sociale; ma comunque resta un debito assai più interno che estero e assai meno legato alle famiglie, che anzi risparmiano, e con delle banche meno esposte di quelle francesi e tedesche. Eppure si prepara una mozione politica del governo Monti di sostegno all’austerità europea che avrà giusto qualche distinguo di “ ma anche misure per la crescita “ e di “ i tedeschi devono…”.

Chi ha contestato tutta la costruzione semantica del debito sono stati i movimenti, i soli, o quasi, fuori dal recinto e in campo per un’altra Europa e non per uno stantio nazionalismo. Naturalmente da soli non possono farcela a vincere. Ma la battaglia la si può dare. E il cuore della battaglia oggi è il “No al Trattato” e il “ Non potete decidere senza dare la parola al popolo europeo”. Naturalmente essa poi si sostanzia anche di un’altra costituzionalizzazione democratica dell’Europa, quella con procedure popolari e con al centro lavoro, reddito e beni comuni. Ma chi crede che se passa il Trattato, poi si possa tornare a ripristinare la “normale dialettica democratica”, dice una sciocchezza o una falsità. Se lor signori finiscono il loro lavoro, poi non tornano “i buoni” ma saremo tutti in una situazione più cattiva. Come sempre per saper governare bisogna prima sapersi opporre.

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