Come era prevedibile, la crisi esplosa nel 2008 non accenna ad attenuarsi; adesso le sue conseguenze si riversano sul progetto dell'unificazione europea, ma - a ben vedere - non è sorprendente.
Il punto è che il progetto dell'Unione Europea fondato essenzialmente sui mercati e la moneta è una contraddizione in termini e la crisi attuale lo evidenzia. Fin dall'inizio del dibattito sulla creazione dell'euro si evidenziò la difficoltà insita nel creare una entità sovranazionale - l'Unione Europea - dotata della politica monetaria (sottratta ai paesi membri), ma non della politica fiscale né degli altri strumenti della politica economica che rimanevano in capo alle autorità nazionali di paesi con strutture economico-sociali anche sensibilmente diverse. Quelle differenze e le loro dinamiche non avevano più a disposizione la valvola di compensazione delle possibili variazioni dei tassi di cambio interni. A fronte di questa difficoltà, si affermò la posizione che l'unificazione della moneta (e della politica monetaria) affidate alla nuova Banca Centrale Europea (avente come unico obiettivo costituzionale che l'inflazione non superi il 2%) avrebbe costituito un vincolo virtuoso che avrebbe spinto le singole economie nazionali alla loro convergenza e verso l'alto. Questa visione era conforme alla visione neoliberista dominante secondo cui i mercati - messi al riparo da politiche economiche nazionali giudicate comunque distorsive e dal tasso di cambio inteso come mero strumento di deprecabili svalutazioni competitive - avrebbero guidato il processo d'unificazione europea nel migliore dei modi (il consueto miracolo della «mano invisibile»).
La crisi esplosa nel 2008, smentendo (come quella della '29) la visione «armonica» (neo)liberista , ha riconfermato che i mercati sono dominati dall'incertezza e non sono in grado, da soli, di compensare la loro instabilità e di evitare le crisi anche catastrofiche che possono derivarne. Da qui il necessario ruolo delle istituzioni e della politica economica.
La crisi in atto è stata notevolmente favorita dal fatto che, mentre nuove tendenze (come la globalizzazione, la frammentazione dei processi produttivi, la flessibilizzazione dei rapporti contrattuali, le sperequazioni distributive, ecc,) accrescevano l'instabilità dei mercati e li svincolavano dal rapporto con le istituzioni (che rimanevano ancorate alla loro sfera nazionale), queste ultime erano ulteriormente indebolite dalle scelte neoliberiste.
L'asimmetrica evoluzione dei poteri dei mercati e delle istituzioni ha accresciuto ulteriormente le motivazioni dell'Ue come istituzione potenzialmente più idonea per interagire positivamente con i mercati. Tuttavia, la realizzazione dell'Ue è stata regolata dalla visione neoliberista, cioè in modo del tutto contraddittorio rispetto alle necessità. La «tragedia greca» conferma un'ovvietà: un'area economica unita solo dalla moneta, ma con tutti gli altri strumenti della politica economica e della politica tout court divisi e scoordinati, ha capacità molto minori d'interagire con i mercati e più facilmente diventa preda delle forze speculative.
Il metodo controproducente seguito nel processo d'unificazione europeo accresce anche gli oneri della crisi i quali ricadono prevalentemente sulle popolazioni che, comprensibilmente, sono portate ad essere sempre più scettiche e contrarie ad un progetto che pure sarebbe potenzialmente in grado di migliorare la loro condizione.
La storia insegna che da una stessa crisi si può uscire lungo vie anche opposte (si pensi, negli anni '30, al New Deal negli Usa e al nazifascismo in Europa). La necessità di riportare coerenza tra la politica monetaria e gli altri strumenti della politica economica e, più in generale, tra mercati e istituzioni, può spingere sia ad una accelerazione dell'Ue verso uno stato federale sia ad una sua disgregazione e alla stessa fine dell'Euro. Poiché negli attuali rapporti globali la dimensione statale non è eludibile, se non si riesce a dare all'Uequesta dimensione istituzionale non è sorprendente che si rafforzino le spinte per un ritorno completo agli stati d'origine.
L'esito dipenderà anche dalle capacità della politica. Non si può proporre l' Europa come nuova entità istituzionale unificante e lasciarla indifesa dalle scorribande speculative che minano la coesione sociale; d'altra parte, non si può affidare a chi crede nella «mano invisibile» il compito di creare una grande istituzione della collettività che abbia poteri efficaci verso i mercati.
Dunque, non è sufficiente ritenere che l'Europa unita sia un progetto «razionale, giusto e buono»; occorre anche individuare gli ostacoli e i modi migliori per superarli. Poichè esistonop difficoltà obiettive (come mettere in comune non solo la politica monetaria ma anche quella fiscale e sociale), sarebbe opportuno fare chiarezza e rimuovere quelle strumentali. Ad esempio: perché si vuole continuare a coinvolgere da subito nel progetto europeo anche la Gran Bretagna, che si lascia coinvolgere solo per trovarsi nella posizione più efficace per bloccarlo? Perché, di fronte ai tanti reali problemi di coordinare diversità nazionali storiche, culturali ed economico-sociali che esistono anche tra le nazioni europee più «simili», si è preteso di procedere ad un «allargamento» che inevitabilmente ha significato il «restringimento» delle concrete possibilità di creare una federazione europea, che avrebbe più efficacemente favorito il successivo allargamento?