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Le imprese italiane, l’Europa, la Libia

28/02/2011

Anche gli inglesi e i francesi hanno avuto i loro business con Gheddafi. Ma gli italiani hanno fatto di più. Ecco la situazione

I francesi e gli inglesi corrono da Gheddafi

Non sono soltanto gli italiani che hanno cercato di fare affari con la Libia.
Per quanto riguarda il caso della Gran Bretagna, nel 2004 Toni Blair ha offerto in una tenda beduina quella che egli stesso a suo tempo chiamò “la mano dell’amicizia” a Gheddafi; la mossa è rimasta per gli inglesi (Blitz, Saigol, 2011), uno dei momenti più significativi della carriera del primo ministro e della storia recente del Medio Oriente. Certo Blair non ha baciato la mano al colonnello neanche una volta, ma ognuno ha il suo stile personale nel cercare di ingraziarsi i tiranni.

L’accordo ha portato ad uno sviluppo degli affari tra i due paesi. Così la BP, azienda molto vicina al governo, nel 2007 ha avviato un piano di investimenti, alla ricerca del petrolio, per circa 900 milioni di dollari. D’altro canto, la Libian Investment Authority ha, tra l’altro, acquistato una partecipazione del 3% nel gruppo editoriale Pearson, proprietario del Financial Times. Sempre i libici hanno offerto dei finanziamenti alla prestigiosa London School of Economics, dove il figlio del colonnello aveva conseguito il dottorato con una tesi forse copiata (The Economist, 2011); solo in questi giorni la scuola ha deciso di non accettare più tali fondi.
Lo stesso Blair, come riferiscono Blitz e Saigol, opera adesso come consulente d’affari; egli ha lavorato di recente in Libia ed ha incontrato il colonnello Gheddafi l’ultima estate. Le buone relazioni vanno mantenute.

I francesi hanno cercato di non essere da meno, come riferisce Le Monde (Faujas, 2011). Così N. Sarkozy aveva annunciato, nel 2007, dopo gli omaggi nella tenda, di aver ottenuto contratti per 10 miliardi di euro. Dopo tre anni gli articoli che Gheddafi aveva promesso di acquistare, 14 aerei da combattimento Rafale, centrali nucleari e missili Milan, sono rimasti dei miraggi. Per le centrali, almeno sino a questo momento solo Berlusconi e i poveri finlandesi ci sono cascati e questi ultimi non sanno più a che santo votarsi per la forte lievitazione dei costi e per i grandi ritardi dell’impianto in costruzione nel loro paese.

Ma gli italiani fanno di più

a) la presenza delle imprese italiane in Libia
Chi ha indubbiamente sviluppato di più gli affari con la Libia sono stati gli italiani. Così, come ci ricordano sempre Blitz e Saigol, grazie anche all’impulso dato dal nostro presidente del consiglio, oggi il commercio tra Italia e Libia ha una dimensione pari ad otto volte quello tra la stessa Libia e la Gran Bretagna.

Il primo investitore nazionale nel paese è l’Eni, presente sia nelle attività di ricerca, produzione, trasporto di petrolio e gas che in quello dei lavori in loco con la Saipem. La società negli ultimi dieci anni vi ha investito somme molto rilevanti e prevede di continuare a farlo in futuro. Se glielo permetteranno ancora.
C’è da considerare che le grandi compagnie petrolifere internazionali non sono più potenti come al tempo delle sette sorelle. Il mondo è ormai purtroppo cambiato e il fiato dei paesi emergenti è sempre più sul collo di quelli ricchi. Le compagnie dei paesi petroliferi controllano ormai circa il 90% delle riserve mondiali e sono oggi le imprese più grandi del settore; la sola Aramco saudita possiede riserve di idrocarburi pari a circa 15 volte quelle controllate dalla più grande compagnia occidentale, la Exxon. Il potere residuo delle major risiede nella loro capacità di governare le tecnologie avanzate e nella loro forza finanziaria; ma ambedue questi atout tendono a perdere peso con il tempo. Comunque, le imprese occidentali fanno carte false per entrare nei vari paesi e l’Eni si è messa a suo tempo in fila con gli altri. La società italiana è oggi tra l’altro presente sia in Libia che in Algeria che in Egitto e certamente qualche ansia deve albergare in questo momento nel petto di Scaroni.
Naturalmente, non a caso, i satrapi dei paesi che controllano le risorse ne traggono quasi sempre un profitto personale molto rilevante, che fa di essi delle persone tra le più ricche del mondo. Le informazioni filtrate da WikiLeaks fanno sospettare che tra il nostro presidente del consiglio ed alcuni dei dittatori che reggono i paesi petroliferi si svolgano affari importanti di tipo anche personale, ma non esiste nessuna prova al riguardo.

Dopo l’Eni, ricordiamo la crescente presenza della Finmeccanica.
La società ha registrato negli ultimi dieci anni una crescita dimensionale spettacolare, tutta giocata verso paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Francia. Ma questi mercati tendono ad essere ormai saturi e le difficoltà di bilancio dei governi tendono a colpire proprio l’area degli armamenti. Ecco che allora da qualche tempo la Finmeccanica sta esplorando con qualche successo i mercati dei paesi emergenti; la Libia era in prima fila in questa ricerca e plausibilmente sono anche le armi vendute dalla nostra azienda che contribuiscono in questi giorni a seminare la morte nello sfortunato paese.

In effetti, nelle nostre esportazioni verso quel paese, tra il 2008 e il 2010, come ci riferisce ad esempio il Corriere della sera (Sarzanini, 2011), figurano ricambi per armamenti e per navi da guerra, dispositivi di tiro, materiali per bombe, razzi e missili, elicotteri. Molti contratti erano poi in corso di perfezionamento. Nel 2009 la società ha, tra l’altro, sottoscritto un memorandum di intenti con il governo libico per la cooperazione in un rilevante numero di progetti in Libia, Medio Oriente, Africa. Peccato che la crisi porti ora ad un presumibile fermo di un mercato così promettente a meno che il nuovo regime, quale che esso sia, non abbia anch’esso bisogno di qualche missile.

Anche la Fiat, con l’Iveco, voleva fare la sua parte e ci era quasi riuscita. Comunque la società è presente nel paese con una società mista ed un impianto per l’assemblaggio di veicoli industriali.
Sulla scena si manifestano anche degli altri protagonisti e tra di essi ricordiamo ancora brevemente la Impregilo. Ponzellini, l’attuale presidente della società, da quando è diventato amico dei leghisti, dopo esserlo stato di Prodi, è candidato ormai a tutte le cariche e ce lo ritroveremo certamente, se il governo resterà ancora in carica per qualche tempo, alla testa dell’Enel, delle Poste o magari della stessa Finmeccanica.
In Italia la stessa Impregilo è praticamente l’unica impresa di rilievo presente nel settore delle costruzioni, anche se le sue dimensioni sono nettamente inferiori a quelle dei principali concorrenti europei, statunitensi, cinesi. La politica è intervenuta a più riprese per tener su l’azienda, anche coinvolta malamente, con una sua consociata, nella questione della spazzatura di Napoli. La società ha, tra l’altro, vinto la gara per la costruzione del ponte di Messina.
I suoi stretti legami con l’attuale governo l’hanno apparentemente agevolata anche nella acquisizione di alcune commesse nel paese africano per oltre un miliardo di euro. Ci dispiacerebbe certamente molto se tali commesse venissero ora messe in forse. Ma in ogni caso siamo fiduciosi che Berlusconi, Bossi e Geronzi sosterranno in tutti i modi l’amico in caso di difficoltà.
Bisogna ricordare anche l’accordo del 2009 per la creazione nel paese di una zona franca industriale a Misurata e la notizia che l’Unicredit stava creando in Libia una filiale che avrebbe dovuto poi essere un possibile ponte per il mondo arabo.

Marco Tronchetti Provera, protagonista nel tempo di tanti fallimenti imprenditoriali – deve avere un bel naso per certe cose –, era stato nominato nell’advisory board della Libian Investment Authority. Il nostro abile capitano d’industria si è dimesso dalla carica solo molti giorni dopo lo scoppio della crisi. Comunque, intorno agli affari con la Libia sembra si siano agitati a lungo anche Mediobanca e Geronzi, già presidente della banca milanese, Palenzona, Ligresti, infine Tarak Ben Ammar (Manacorda, 2011), altro meritevole amico di Berlusconi.

b) i capitali libici in Italia
I capitali del paese africano sono presenti da parecchio tempo nel nostro paese. Già nel 1976, in presenza di una delle ricorrenti crisi del gruppo Fiat, furono i soldi libici che intervennero massicciamente salvando la situazione. Gli arabi acquisirono il 9% del capitale della società sborsando circa 400 milioni di dollari; la percentuale di intervento salì più tardi sino al 15%. I libici sono poi usciti dieci anni dopo; gli Agnelli erano sempre più imbarazzati da una presenza poco gradita dagli americani, che minacciavano di inserire la società nella loro lista nera. Gheddafi e i suoi ne guadagnarono una plusvalenza gigantesca. Oggi comunque essi detengono di nuovo una quota pari a circa il 2%.

Gli stessi libici hanno invece a suo tempo rifiutato le avances di Madoff e quelle di un altro truffatore meno conosciuto, A. Stanford, che volevano amministrare almeno una parte del loro patrimonio. Riferendosi a questi e ad altri episodi simili che mostrano un sicuro acume finanziario, il Financial Times ha osservato che Gheddafi, se perde l’attuale lavoro, potrebbe essere assunto con profitto da qualche hedge fund.

Facciamo ora un salto sino ai nostri giorni. La firma nel 2008 del patto di amicizia tra Berlusconi e Gheddafi – ora peraltro unilateralmente “sospeso” da Larussa e Frattini –, la partecipazione poi di Gheddafi al G8 dell’Aquila meno di due anni fa, suo momento di trionfo politico, sempre probabilmente su iniziativa di Berlusconi, infine la promessa da parte del nostro presidente del consiglio di 5 miliardi di euro alla Libia – sia pure distribuiti su venti anni –, come risarcimento per i danni provocati dal nostro paese con l’occupazione, hanno fatto fortemente crescere anche gli investimenti libici in Italia.
La strategia avventurosa – e forse a tratti furbesca – dei due leader ha peraltro prodotto dei risultati piuttosto discutibili e a tratti imbarazzanti.

Prendiamo il caso della Finmeccanica e dell’Unicredit.
Per quanto riguarda l’azienda di armamenti, abbiamo già ricordato come nell’ultimo periodo essa abbia perseguito una strategia di internazionalizzazione che puntava ai mercati dei paesi più ricchi; così essa ha avviato una politica di insediamenti produttivi in Gran Bretagna e più di recente negli stessi Stati Uniti, dove è stata acquisita una importante impresa del settore. Immaginarsi quindi la rabbia di Washington nell’apprendere che i libici entravano con il 2% nel capitale della società, che detiene a questo punto qualche importante segreto industriale statunitense. Essi immaginavano già l’ingresso di un rappresentante di quel paese, come già alla Fiat e all’Unicredit, nel consiglio di amministrazione; nella grande banca italiana, in effetti, un esponente libico è stato nominato vice presidente, ma in questi giorni è impossibile mettersi in contatto con lui, che è un gheddafiano di ferro.

A proposito della stessa Unicredit bisogna ricordare che oggi i libici possiedono il 4,95% del capitale della società tramite la banca centrale libica ed un altro 2,5% tramite la Libian Investment Authority. Tripoli è così il più importante azionista della banca italiana.
È stato proprio l’aumento delle quote di capitale detenute dai libici che ha scatenato l’ira di alcuni soci italiani, che peraltro pretendono di comandare possedendo si e no un decimo delle azioni della banca; alla fine così Profumo è stato estromesso. Non appare chiaro se l’aumento delle quote dei libici fosse stato a suo tempo incoraggiato dalla stesso Profumo per cercare di tenere a bada i troppo invadenti azionisti nazionali o se si è trattato di una manovra portata avanti dagli ambienti governativi per liberarsi di un socio politicamente scomodo. Del resto le due mosse potrebbero esserci incrociate.

Capitali libici sono anche entrati quasi ovviamente poi nell’azionariato dell'Eni, con una quota del 2% e con il solito mugugno statunitense, nonché anche in altre realtà minori.

Il rischio maggiore per le nostre aziende è ora quello che esse perdano le opportunità future di business, sia nel peraltro improbabile caso che vinca Gheddafi, che si vorrà vendicare dell’amico che lo ha tradito, sia che trionfino i suoi oppositori, che potrebbero vedere nell’Italia il maggiore complice occidentale dell’odiato colonnello.

 

Testi citati nell’articolo

Blitz J., Saigol N., Lybia: no line in the sand, www.ft.com, 25 febbraio 2011
Faujas A., Les dangers et les illusions du commerce avec Kadhafi, www.lemonde.fr, 24 febbraio 2011
Manacorda F., Nella cassaforte della Libia circa 80 miliardi, www.ilpost.it, 25 febbraio 2011
Sarzanini F., Petrolio e tecnologie militari: dossier sulle imprese italiane, Corriere della sera, 26 febbraio 2011
The Economist, That looks familiar, www.economist.com, 25 febbraio 2011

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