La crisi dei mutui subprime non è solo finanziaria. La sua origine non è comprensibile se non si tiene conto dell'aumento nelle disuguaglianze tra i redditi negli Usa, legato a un peggioramento relativo della posizione dei gruppi sociali intermedi. Che ha rotto il patto alla base del sogno americano
La consapevolezza che l’economia americana stia marciando da molti anni sull’orlo di una crisi finanziaria è abbastanza diffusa tra gli addetti ai lavori. E’ significativo il fatto che lo stesso Greenspan, negli anni in cui tutto sembrava andare bene, abbia parlato di “esuberanza irrazionale” dei mercati. Ugualmente pochi erano i dubbi sul come si sarebbe manifestata la crisi. Il fatto che, dopo il ridimensionamento dei corsi sul mercato azionario, la crescita del reddito negli Usa sia stata sostenuta da una domanda per consumi finanziata sostanzialmente da crescenti iniezioni di credito non poteva non suscitare perplessità nel più lungo periodo. Se c’è stata incertezza dunque, questa ha riguardato fondamentalmente quando la recessione si sarebbe sviluppata e quale dimensione avrebbe assunto sul piano finanziario.
Il fatto che la crisi attuale sia associata ai cosiddetti “mutui subprime” ci fa subito capire che la dimensione finanziaria è quella che emerge con più chiarezza. Le banche incontrano crescenti difficoltà a ritornare in possesso di prestiti erogati alle famiglie sotto forma di mutui. L’enorme diffusione di prodotti derivati ha finito col trasferire queste difficoltà sull’intero sistema finanziario internazionale. Non c’è dubbio che quanto sta accadendo in questi mesi mette in evidenza i limiti del progetto che ha ispirato la politica economica e monetaria in particolare degli Usa. La bolla speculativa sui mutui subprime si è andata creando nella piena consapevolezza del “rating” dei debitori. In sostanza, la Fed non solo non è riuscita a trovare alternative alla politica di bassi tassi di interesse che ha alimentato la bolla dei mutui, ma ha fatto molto meno di quello che avrebbe dovuto fare, attraverso una regolazione preventiva, per evitare l’accumularsi degli squilibri. E questo per una scelta consapevole, come è reso evidente dalla testimonianza di Kuttner alla Commissione Finanza, che ricorda come Greenspan nelle sue memorie abbia resa esplicita la sua fede nelle capacità autoregolatrici dei mercati e la sua avversione per la regolamentazione. Mancata regolamentazione che è probabilmente alla base della scarsa trasparenza che sembra caratterizzare i mercati internazionali negli ultimi anni testimoniata dal fatto che:
Ma quella finanziaria non è l’unica dimensione di questa crisi. Quello che viene messo in discussione è lo stesso modo in cui si sono organizzate le società, in primo luogo quella statunitense, in un contesto globalizzato. La crisi dei mutui subprime non sarebbe comprensibile se non si tenesse conto del fatto che, a partire dal 1980, si è avuto un significativo aumento nelle disuguaglianze tra i redditi negli Usa legato sostanzialmente ad un peggioramento relativo della posizione dei gruppi sociali intermedi. Quella che appare come una rottura del patto che da sempre ha sostenuto il “sogno americano” per cui ogni generazione avrebbe avuto un livello di reddito e di benessere maggiore della precedente sembra essere espressione del modo in cui si è realizzato uno sviluppo che favorisce gruppi sociali sempre più ristretti. E’ questo il nodo che è venuto al pettine e che in fin dei conti ha portato al crescente indebitamento delle famiglie dei ceti medi negli Usa.
Lo scoppio della bolla speculativa presente nel mercato delle costruzioni ha fatto dunque emergere i limiti di un modello di sviluppo ma soprattutto rischia di attivare un meccanismo recessivo. Il venir meno della fiducia nella crescita dei valori patrimoniali - che aveva sostenuto la domanda per consumi da parte delle famiglie dei ceti intermedi e le aveva spinte ad indebitarsi fino alla soglia dell’insolvenza – ha determinato come conseguenza un rallentamento della domanda che a sua volta ha ulteriormente depresso i prezzi. La riduzione dei valori patrimoniali ha fatto emergere le prime situazioni di insolvenza. Il sistema finanziario non si è trovato solo a far fronte a questa nuova realtà ma anche al fatto che il valore delle garanzie sui finanziamenti alle famiglie si andava ridimensionando. La più accorta politica del credito che ne è derivata da parte delle banche tuttavia non poteva che peggiorare la posizione delle famiglie spingendole a vendere nuove attività patrimoniali, con l’effetto di deprimere ulteriormente i prezzi degli immobili e far emergere nuove situazioni di insolvenza.
E’ possibile disattivare questa spirale recessiva? Apparentemente la politica economica sembra esserci riuscita immettendo moltissima liquidità sul mercato per evitare il collasso del sistema finanziario e intervenendo a favore delle famiglie (manovra fiscale di sostegno al reddito e abbassamento dei tassi di interesse per ridurre l’onere del debito). Il problema riguarda il più lungo periodo, tenendo a mente che il problema non è solo quello di superare gli squilibri finanziari ma è soprattutto quello del rilancio della domanda interna negli Usa, in passato garantita dal crescente indebitamento delle famiglie della classe media. Se si pensa al valore raggiunto dall’indebitamento e al livello delle sofferenze bancarie è difficile pensare a una ripresa autonoma della domanda, almeno nel breve periodo. D’altra parte, l’ulteriore ricorso alla politica monetaria è reso difficile dalle crescenti tensioni inflazionistiche derivanti dal petrolio e dalle altre materie prime. Insomma, in assenza di interventi lo scenario più probabile è quello di una ulteriore accentuazione della recessione. L’unica via di uscita sembrerebbe essere quella di una politica di redistribuzione del reddito a favore dei gruppi sociali in difficoltà. Ma questo implicherebbe un cambiamento del quadro politico e culturale all’interno del quale si è mossa la politica economica negli ultimi venti anni, in particolare negli Usa. Significherebbe recuperare la logica keynesiana secondo la quale il coinvolgimento di una parte il più possibile grande della società nello sviluppo economico risponde non solo a esigenze di equità, ma anche all’esigenza di garantire i necessari livelli di domanda. Una svolta culturale possibile solo se imposta da una situazione in cui ogni altra via di uscita è preclusa.
Se è dunque possibile che nei prossimi anni ci si avvierà su strade diverse dal recente passato, non si può neppure escludere una uscita dalla crisi che passi invece attraverso un consolidamento dell’attuale modello di crescita. E’ possibile infatti che la componente estera della domanda, generata dall’aumento del reddito in paesi una volta marginali, sommata alla domanda interna proveniente dalle famiglie nel primo venti per cento del reddito possa compensare il declino della domanda derivante dall’impoverimento relativo degli esclusi dai processi di globalizzazione. In uno scenario di questo tipo, le politiche volte all’equità sociale non sarebbero più necessarie per il sostegno della domanda e del reddito.
Occorre notare che questa via di uscita dalla crisi non è facilmente percorribile neppure in società tradizionalmente meno egualitarie, e dove chi ha alti redditi è sempre meno coinvolto in quel che accade al resto del paese perché i suoi interessi sono altrove. Una ulteriore accentuazione delle differenze potrebbe infatti mettere in discussione la stessa ragione di una convivenza tra i gruppi sociali all’interno di ciascun paese soprattutto in un contesto in cui la crescente presenza sullo scenario economico internazionale di Cina e India sta spingendo verso l’alto i prezzi dei beni “salario”, comprimendo il reddito reale della parte più debole delle società industriali avanzate, esasperando le diversità e creando una nuova conflittualità all’interno di ciascun paese. Un approfondimento del modello attuale di crescita, cioè, può far esplodere le contraddizioni, le divergenze di interessi che esistono all’interno degli stati nazionali. Quanto sta succedendo in Italia, un paese con una debole tradizione unitaria, può essere considerato in qualche modo espressione di queste tensioni.
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