Il governo statunitense avanza, finalmente, una linea più dura sulle banche. Ma l’esito finale dello scontro appare incerto. E manca il coordinamento internazionale
"...la creatività delle banche nel trovare dei modi per perdere del denaro non conosce limiti"
Editoriale del Financial Times
"...la garanzia in bianco data alle banche è ingiusta..."
The Economist, a
"...Barack Obama l'ha finalmente capita..."
L. Elliott, a
"...i pugni spediti da Obama (alle banche) hanno mancato l'obiettivo..."
F. Guerrera
Sostanzialmente per tutto il 2009 l’amministrazione statunitense si è mostrata molto benevola nei confronti di un settore finanziario che pure era stato all’origine di tanti e gravi problemi. Anzi è noto come la stessa amministrazione sia infliltrata da funzionari considerati a ragione come amici di Wall Street, da L. Summers a T. Geithner, per non parlare del presidente della Fed, B. Bernanke, che pure è formalmente estraneo all’amministrazione stessa. In giugno era così stato presentato dal governo in Senato un progetto di legge di riforma della legislazione per il settore finanziario molto blando, tranne forse per la progettata creazione di un’agenzia per la protezione dei consumatori, non a caso fortemente osteggiata dai banchieri del paese. Peraltro, anche questo timido disegno di legge giace da allora negli archivi del Senato, mentre la Camera dei Rappresentanti ha nel frattempo messo a punto un altro progetto anch’esso abbastanza poco rilevante, tranne che di nuovo per qualche particolare aspetto. Nel frattempo, comunque, l’attività di lobbying da parte delle banche è andata avanti munita di molte decine di milioni di dollari, pronta ad ogni evenienza. In ogni caso, vista l’inerzia dell’intervento pubblico, negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, paesi che presentano, almeno per il momento, le più grandi industrie finanziarie del mondo, molti si erano ormai rassegnati al ritorno del vecchio ordine, con le banche che hanno cominciato di nuovo, indisturbate, a prendersi dei forti rischi per aumentare i profitti, a distribuire bonus spropositati ai loro uomini chiave, a mostrare di nuovo la loro tradizionale arroganza e così via.
Rispetto a questa situazione di sostanziale complicità del governo con le grandi istituzioni finanziarie, però, da un certo punto in poi qualcosa si è mossa, come avevamo già segnalato qualche mese fa con un articolo apparso su questo stesso sito in data 1 dicembre 2009.
Ha cominciato, diversi mesi fa, Lord Turner, presidente dell’autorità di controllo dei mercati finanziari britannici, dichiarando che il settore finanziario era ormai un fattore destabilizzante per il paese e che, in particolare, alcune attività della City erano dannose alla Gran Bretagna. Successivamente, Mervyn King, governatore della Banca D’Inghilterra e Paul Volcker, già presidente della Fed e attualmente consigliere economico della casa Bianca, hanno affermato che bisogna ritornare ad una divisione netta tra le attività di raccolta di depositi e prestiti ai privati e alle imprese da una parte e quelle di trading e di speculazione in proprio dall’altra, secondo lo schema noto come narrow banking. Poi, in Europa, il commissario alla concorrenza dell’Unione, N. Kroes, ha imposto alle grandi banche che ottengono cospicui aiuti pubblici di ridurre in misura rilevante le loro dimensioni. Successivamente, è venuto fuori il progetto di Basilea3, che prevede la creazione di più solidi cuscinetti di protezione contro la possibile crisi dei singoli istituti; si preconizzano, in particolare, un più elevato livello di mezzi propri, definiti quest’ultimi in modo più stringente di prima, nonché standard minimi di liquidità che prima non erano previsti. Infine, di recente, la Francia e la Gran Bretagna hanno deciso di tassare i bonus dei dirigenti bancari. A questi importanti precedenti bisogna aggiungere la crescente insofferenza dei cittadini statunitensi verso le loro banche.
Non siamo informati di alcuna ricerca effettuata sull’attuale sentimento dei cittadini statunitensi, ma abbiamo preso visione dei risultati di un’inchiesta appena svolta in proposito in Francia ed in Gran Bretagna (Michel, 2010). Da tale documento risulta in ambedue i paesi un sentimento di sfiducia generale dei cittadini nei confronti delle banche. L’83% dei britannici e l’81% dei francesi approvano la tassa appena introdotta nei due paesi e che colpisce i bonus dei manager e dei trader del settore, anche se il 75% dei francesi e il 73% dei britannici valuta che gli istituti troveranno il modo di eluderla. Sempre una larghissima maggioranza dei cittadini dei due paesi pensa che gli stessi banchieri non hanno tratto le necessarie lezioni dalla crisi e che essi conservano dei comportamenti ad alto rischio. Gli stessi valutano poi che le banche non accordano abbastanza credito all’economia e dichiarano di avere una fiducia limitata nella solidità economica e finanziaria delle stesse. Infine, l’83% dei francesi e il 71% degli inglesi pensano che nei prossimi anni si potrebbe produrre una nuova crisi economica e finanziaria.
Pensiamo che i sentimenti dei cittadini americani nei confronti del loro sistema bancario non siano molto diversi da quelli degli abitanti dei due paesi europei. A quanto almeno riferiscono i media, anch’essi sono in effetti molto arrabbiati di fronte allo spettacolo di bonus milionari e di profitti spropositati, mentre nel paese cresce la disoccupazione e continua, non sufficientemente contrastato dal governo, il fenomeno delle foreclosures e mentre, più in generale, le classi medie sono sempre più disorientate e indebolite. Si aggiunga la sconfitta elettorale nel Massachussets, tradizionale feudo democratico e, più in generale, la caduta negli indici di popolarità del presidente.
Così Obama prova a reagire alla corrente e prima annuncia il varo di una tassa sui bilanci delle banche, che dovrebbe fruttare quasi 100 miliardi di dollari in dieci anni, poi, spalleggiato da quel P. Volckler che da mesi tuona contro gli istituti too big to fail, dichiara che obbligherà le banche commerciali a non svolgere più attività di trading in proprio, proibirà alle stesse di possedere quote azionarie in hedge funds e in fondi di private equity o di sponsorizzare in qualche modo tali attività, pone nuovi limiti alle loro dimensioni, attraverso dei vincoli al livello delle loro attività di bilancio, per limitare i danni che il fallimento di un istituto può infliggere all’economia e per promuovere una concorrenza più sana nel settore finanziario.
Anche se esistono più di 8.000 banche negli Stati Uniti, le quattro principali tra di esse controllano oggi più del 35% dei depositi totali, contro poco più del 5% nel 1998 (Guerrera, Baer, 2010); esse posseggono inoltre circa la metà di tutti gli asset del settore (The Economist, 2010, b). Le quote di mercato sono ancora di più concentrate nelle attività di investment banking e di trading. Lo stesso governo statunitense ha spinto peraltro, durante la crisi, in tale direzione, incoraggiando le imprese più solide del settore a prendere in mano quelle più deboli. Inoltre, il problema con i megaistituti è insieme politico ed economico (Scheiber, 2010). Una grande banca ad un certo punto concentra su di sé tanto potere politico che può tranquillamente eludere tutte le regole ed i regolatori, anche se il sistema di controllo fosse sulla carta il migliore possibile.
Sul piano tecnico, i possibili guadagni economici derivanti dalla combinazione delle attività di commercial banking con quelle di trading in proprio non esistono, mentre i costi del permettere tale combinazione sembrano potenzialmente enormi (Acharya, Richardson, 2010). Per quanto riguarda l’aspetto positivo del progetto governativo, finalmente esso mostra che soltanto politiche radicali possono cercare di risanare il sistema finanziario e renderlo poco incline alle crisi (Editoriale, 2010). Ma si può invece dubitare che le mosse specifiche annunciate siano sufficienti.
Intanto c’è da dire che le banche hanno preso molto male le dichiarazioni di Obama e questo va certamente a merito del progetto.
La Financial Services Roundtable, che rappresenta gli istituti statunitensi, ha subito affermato che i piani del presidente restringerebbero il livello dei prestiti all’economia, aumenterebbero i rischi, diminuirebbero la stabilità del sistema, limiterebbero la capacità di creare posti di lavoro. Anche B. Diamond, presidente della Barclays, ha ammonito che il progetto colpirebbe l’occupazione, lo sviluppo e il commercio internazionale (Elliott, 2010, b) ed ha affermato che non c’è nessuna prova che suggerisca che rimpicciolire le banche e ridurre la gamma delle loro attività sia una soluzione ai problemi in atto. Peraltro, la mossa di Obama qualche effetto lo ha avuto, se al forum di Davos alcuni banchieri hanno dichiarato di accettare l’idea della creazione di un fondo di garanzia a livello globale che dovrebbe essere utilizzato in caso di crisi bancarie; tale fondo potrebbe essere in gran parte costituito con un prelevamento sugli stessi istituti per un certo numero di anni (Jenkins, Braithwaite, 2010).
Quali le osservazioni critiche che possiamo fare noi?
Intanto, le mosse dei governi britannico e francese con l’introduzione della tassa sulle banche, quella analoga di Obama e poi quest’ultima dichiarazione sempre del presidente Usa, compromettono forse gli sforzi in atto per un coordinamento globale sul tema del controllo del settore, tema sul quale stanno lavorando diversi comitati internazionali a cominciare da Basilea, per proseguire con il financial stability board di Draghi, incaricato della bisogna dal G-20, per finire con il fondo monetario internazionale, che aveva avuto anch’esso qualche mandato sul tema. Non risulta che tali organismi siano stati in qualche modo coinvolti nella discussione dei nuovi provvedimenti.
Le norme indicate da Obama, nella loro enunciazione, sono ancora peraltro molto vaghe e potrebbero poi andare avanti in direzioni molto più morbide di quello che sembra.
La definizione di attività in proprio appare inoltre troppo restrittiva. In ogni caso, la Volckler rule dettata ora da Obama è una versione debole di quello che aveva affermato a suo tempo lo stesso Volckler: qualcuno ha parlato a proposito delle nuove proposte di un progetto Glass Steagall lite, leggero, che tocca, tra l’altro, aspetti solo relativamente importanti. Si ridimensionano un poco le banche, ma non abbastanza.
Mancano nel progetto diverse altre misure necessarie per governare il sistema, dall’aumento dei mezzi propri – idea che rappresenta un incubo per Wall Street, perché aumenta i costi e riduce i profitti (Guerrera, 2010) - alle possibili previsioni di riserve di capitale anticicliche, a delle norme sulla liquidità, a disposizioni per governare seriamente fenomeni quali quello dei derivati e quello delle cartolarizzazioni, ecc.. A onor del vero, bisogna dire che a Davos lo stesso Summers ha promesso qualche intervento anche su qualcuno dei fronti citati. Vedremo.
La mossa di Obama non aiuterà molto a risolvere il problema del too big to fail; anche senza l’attività di trading, le banche più grandi resteranno sempre troppo grandi, anche se meno inclini a quel conflitto di interessi che viene dalla possibilità di svolgere attività contro i propri clienti; anche per i nuovi limiti alle dimensioni, tutti peraltro da definire, essi freneranno una crescita ulteriore, piuttosto che obbligare gli istituti a rimpicciolirsi (The Economist, b).
Le norme si applicherebbero poi alle sole banche di deposito, mentre sarebbe necessario che esse fossero estese anche a quelle di investimento, alle assicurazioni, agli operatori in carte di credito e in generale a tutte le società finanziarie, comprendendo anche quel sistema finanziario ombra che è stato, almeno in parte, all’origine della crisi. “…Non è possibile che il governo statunitense possa promettere in modo credibile di rendere le banche più sicure, lasciando la vasta foresta delle istituzioni finanziarie ombra esenti dalle regole…” (Wolf, 2010).
C’è poi la questione dell’approvazione del progetto da parte dei due rami del parlamento, piuttosto incerta dopo il risultato delle elezioni del Massachussets e considerando comunque lo scarso impegno riformatore generale dello stesso parlamento.
Bisogna dare atto ad Obama che, alla fine e sia pure tardivamente, spinto dagli eventi, si è deciso a fare qualcosa e a cercare di sterzare il timone. Peraltro, le norme ora da lui previste non appaiono adeguate in sufficiente misura alla bisogna e comunque esse avranno molte difficoltà a passare in delle assemblee parlamentari che sembrano tra le peggiori della storia del paese. Ma speriamo di sbagliarci.
Di fronte alla mossa del presidente Usa, si pone il problema dell’Unione Europea, che non ha mostrato sinora neanche la volontà di fare almeno come gli Stati Uniti. Il progetto che essa ha messo in piedi nei mesi scorsi, tra l’altro per la creazione di quattro autorità di vigilanza che non avranno che poteri limitatissimi e che saranno organizzati secondo degli schemi estremamente farraginosi, appare sostanzialmente vergognoso.
- Acharia V., Richardson M., Obama’s bank plan is a start, www.ft.com, 22 gennaio 2010
- Editoriale, Obama erects a Maginot line, The Financial Times, 23 gennaio 2010
- Elliott L., Everything said about Wall Street could have been said about the City, www.guardian.co.uk, 21 gennaio 2010, a
- Elliott L., Davos 2010: Barclays’ Bob Diamond attacks Obama’s banking plans, www.guardian.co.uk, 27 gennaio 2010, b
- Guerrera F., Obama’s one-two punch misses its target, The Financial Times, 30 gennaio 2010
- Guerrera F., Baer J., Mission to trim bank giants’ girth, www.ft.com, 22 gennaio 2010
- Jenkins P., Braithwaite T., Bankers in favour of paying global fee, The Financial Times, 30 gennaio 2010
- Michel A., La crise scelle le désamour entre banques et opinion, www.lemonde.fr, 19 gennaio 2010
- Scheiber N., Is Obama really breaking up the banks?, www.tnr.com, 27 gennaio 2010
- The Economist, The weakest links, 21 gennaio 2010, a
- The Economist, Glass-Steagall lite, www.economist.com, 22 gennaio 2010, b
- Wolf M., Volckler’s axe is not enough to cut the banks down to size, The Financial Times, 27 gennaio 2010
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