La gestione di Bruxelles ha sempre tradito le aspettative e gli impegni. Ora c'è una prospettiva "verde" che potrebbe salvare, qui e ora, l'economia e la società dell'Unione europea. Basta utilizzare seriamente le risorse di ricerca e innovazione, con puntualità e rigore
Rossanda chiede di essere smentita: "E che mi si dimostrasse che l'Europa non c'entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro". Impossibile, quando in Europa, nel senso di Unione europea – non proprio la stessa cosa – ormai l'80% delle decisioni che i parlamenti nazionali recepiscono sono prese da Consiglio, Commissione e Parlamento europeo. D'altra parte le alternative sono state e sono proposte: al punto che anche i non-leader Ue, con decenni di ritardo, si sono messi a parlare di Tobin tax, di regolamentazione delle agenzie di rating e di economia verde. Mancano i fatti, le scelte politiche, ma questo dimostra la pochezza di chi è stato messo dai governi nazionali alla guida della Ue, piuttosto che l'impossibilità di un'Europa diversa e che possa di nuovo essere riferimento anche per le altre regioni del mondo: la Ue non è stata solo l'euro, ma anche decenni senza guerre fra paesi che in passato avevano devastato l'Europa e il mondo e, proprio con la Commissione Prodi, la leva che ha permesso l'entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e la nuova coscienza globale sui rischi dei cambiamenti climatici. Non tutte le Commissioni europee sono uguali e valutazioni differenziate vanno fatte se non si vuole cadere nella trappola di un'antipolitica europea: l'Europa siamo anche noi ed è fuorviante pensarla o discuterne come se così non fosse. Un'Europa altra è questione di volontà politica altra, rispetto a quelle che hanno portato allo stallo attuale causato dalle scelte e non-scelte dei conservatori che da sette anni governano la Ue, molto spesso con il sostegno anche dei socialdemocratici, sbandati come i loro colleghi della destra e che, c'è da sperare, aprano presto una loro rinascita.
Guardare indietro negli anni può servire a capire come siamo arrivati dove siamo e ricostruire dalle attuali macerie Ue. Senza voler sparare sulla Croce rossa, ma anche senza dover fare gli struzzi, due casi emblematici.
Il partenariato euromediterraneo. Deciso all'unanimità alla Conferenza di Barcellona del 27 e 28 novembre 1995 dagli allora quindici stati membri della Ue, da dodici paesi terzi: Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia e Autorità palestinese. Con tre assi principali:
il partenariato sociale, culturale e umano intende sviluppare le risorse umane, favorire la comprensione tra culture e gli scambi tra le società civili.
E la creazione di una zona di libero scambio, con il 2010 come meta per la graduale realizzazione di questa zona che coprirà la maggior parte degli scambi, nel rispetto degli obblighi risultanti dall'Organizzazione mondiale per il commercio.
La strategia di Lisbona. Approvata dal Consiglio europeo nella sessione straordinaria del 23 e 24 marzo 2000: L'Unione si è ora prefissata un nuovo obiettivo strategico per il nuovo decennio: diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale. Il raggiungimento di questo obiettivo richiede una strategia globale volta a:
sostenere il contesto economico sano e le prospettive di crescita favorevoli applicando un'adeguata combinazione di politiche macroeconomiche.
Questa strategia è intesa a consentire all'Unione di ripristinare condizioni di piena occupazione e a rafforzare la coesione regionale nell'Unione europea. Il Consiglio europeo dovrà stabilire l'obiettivo della piena occupazione in Europa nella nuova società emergente, maggiormente adeguata alle scelte personali di donne e uomini. Se le misure esposte più avanti sono attuate in un sano contesto macroeconomico, un tasso medio di crescita economica del 3% circa dovrebbe essere una prospettiva realistica per i prossimi anni.
Quale sia la realtà è sotto gli occhi di tutti: sia lo spazio comune di pace e stabilità euromediterraneo, che l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo restano miraggi. Senza, peraltro, che siano stati analizzati i perché dei fallimenti e che ne siano state tratte lezioni per evitare di ripetere in futuro gli stessi errori: una costante irresponsabile delle Commissioni Barroso.
Si tratta, come ha già messo in evidenza Mario Pianta nel suo I perché della crisi, di far cambiare rotta alla costruzione dell'Europa, con un dibattito democratico che l'Europa non ha finora mai avuto: per questo aiutano le nuove tecnologie e l'esempio islandese, con la nuova costituzione scritta insieme ai contributi telematici dei cittadini, è un precedente di successo che dimostra quanto possa incidere la volontà politica del cambiamento.
Per quanto riguarda il nuovo corso dell'economia e le soluzioni possibili, risposte vengono dalle proposte dell'economia verde, dei piani energetici, italiano e Ue, 100% rinnovabili al 2050 e da quello che è stato chiamato il Green New Deal.
A livello globale gli scenari sono stati preparati in vista della conferenza Rio+20 delle Nazioni unite, in programma dal 4 al 6 giugno 2012 in Brasile in occasione del ventesimo anniversario della conferenza sull'ambiente e lo sviluppo del 1992 e del decimo anniversario del vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile, tenutosi a Johannesburg nel 2002 1. Per l'occasione l'Unep, il programma per l'ambiente dell'Onu, ha pubblicato, nel febbraio scorso, lo studio Towards a Green Economy: Pathways to Sustainable Development and Poverty Eradication, che analizza i dieci settori chiave dell'economia mondiale – l'agricoltura, l'edilizia, l'energia, la pesca, le foreste, il manifatturiero, il turismo, i trasporti, la gestione delle acque e dei rifiuti – e dimostra come, con l'investimento del 2% del Pil mondiale, sia possibile far partire una transizione verde dell'economia che produrrebbe milioni di nuovi posti di lavoro, eliminando, allo stesso tempo, i danni ambientali e l'aumento del divario fra ricchi e poveri di una logica business-as-usual 2 .
Nella Ue già nel 2004, i Verdi al Parlamento europeo hanno commissionato al Wuppertal Institut uno studio per capire le prospettive e gli ostacoli verso uno scenario di economia verde continentale. Il risultato è stato A Green New Deal for Europe. Towards a green modernization in the face of crisis 3. Come ricordato da Matteo Lucchese, nel suo pezzo Dall'economia dei disastri al Green New Deal, pubblicato da sbilanciamoci.info 4 – da anni, ormai, per la serie a-nessuno-è-permesso-dire-che-non-sapeva, luogo di dibattito e di elaborazione di proposte – le principali indicazioni emerse, rilevanti ancora oggi e concretizzate in proposte legislative e politiche, sono state:
A. Nel 2004 sono state stimate circa 3,4 milioni di persone che lavorano direttamente o indirettamente nel settore ambientale, di cui 2,3 in quello della gestione dell’inquinamento e 1 milione della gestione delle risorse. Con proiezioni di quasi 8 milioni di posti di lavoro potenziali che possono essere creati in Europa nei prossimi 20 anni nell’energia solare ed eolica. Inoltre, nuovi stimoli all’occupazione verranno dalla costruzione di strutture energetiche efficienti – l'anno scorso persino Confindustria ha stimato in 1 milione 635 mila i nuovi posti di lavoro che si potrebbero creare, al 2020, nel settore dell'efficienza energetica in Italia 5 – dalla riqualificazione degli edifici, dall’adattamento a nuove forme di coltivazione, dall’espansione del riciclo dei rifiuti e dall’ammodernamento del comparto del trasporto pubblico.
B. L’esempio più promettente di rilancio ambientale è quello della Germania. Secondo il ministero dell’ambiente tedesco, fra il 2004 e il 2006, il 40% delle industrie legate al settore ambientale è cresciuto a tassi annui del 10%. Dal 2005 al 2007, la produzione totale nell’industria ecologica è cresciuta del 27% con aziende che hanno registrato un aumento medio del 15% nella forza lavoro fra il 2004 e il 2006. Nel 2006 quasi 1,8 milioni di tedeschi era impiegato nel settore ambientale pari al 4,5% dei lavoratori occupati. La Germania è anche uno dei maggiori esportatori mondiali di prodotti a tecnologia eco-sostenibile con una quota attuale intorno al 16% dell’intero commercio internazionale.
C. Il caso tedesco ci insegna che la chiave del rilancio verde passa per una chiara leadership politica, fatta di investimenti mirati e di chiari interventi legislativi volti allo sviluppo del settore. In questo senso più che di fondi, l’Europa avrebbe bisogno di capitale politico.
D. La crisi economica può rappresentare un punto di svolta per le politiche ambientali europee. Perché questo si realizzi, l’Europa deve farsi promotrice di una visione di sviluppo sostenibile che sia il più possibile funzionale alla crescita e al mantenimento di alti livelli occupazionali, tramutando in decisioni politiche e investimenti le opportunità senza precedenti per la riconversione ecologica dell'economia, tout court, offerte dai cambiamenti climatici.
Come sostiene Pietro Colucci, presidente di Assoambiente, nel recente e documentatissimo libro-intervista di Silvia Zamboni Vento a favore, l’economia verde è una possibile exit strategy dalla crisi finanziaria ed economica: l'economia verde non permette soltanto il rispetto dell’ambiente, ma è un volano di crescita perché è l’unica ad assicurare sviluppo nel lungo periodo e quindi a creare mercato, garantendo ritorni economici: su questa base è possibile e doveroso ricostruire un'Europa desiderabile. Subito.
5 www.efficienzaenergetica.enea.it
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