Una proposta regressiva, che ignora precedenti nefasti e dati di realtà. A partire da questo: il 72% dei bambini stranieri iscritti alla scuola dell'infanzia è nato in Italia
Fa piacere che, accogliendo la proposta del deputato Bocchino, il Parlamento chiami “di inserimento” le classi entro cui relegare gli allievi di origine straniera. La formula sottolinea che la discriminazione non è per sempre. Ma il muro che si alza a dividere e a mortificare resta, ed è vergognoso. Approvando la mozione leghista, il Parlamento non solo apre a stravolgimenti di una normativa finora illuminata, ma si appiattisce su quella parte del paese che non trova altro modo di risolvere i problemi se non emarginando chi li ha, e scaraventandogliene addosso il peso. Un salto nel buio rispetto all’ integrazione degli immigrati, una porta in faccia alle seconde generazioni nate in Italia o arrivate prima dell’età della scuola, un rischio altissimo di futuri conflitti. Lo dice il valore simbolico che per i processi di integrazione ha sempre e ovunque avuto il libero accesso delle minoranze alla scuola di tutti. Lo conferma il fatto che in nessun paese civile si chiudono in classi o scuole speciali i figli dei migranti. Neanche provvisoriamente. Ma la Lega pretende, in nome dell’apprendimento degli italiani, che la scuola pubblica non accetti dopo il 31 dicembre le iscrizioni una violazione esplicita dei regolamenti sull’obbligo di istruzione; che il loro inserimento in classe sia condizionato dal superamento di accertamenti delle competenze linguistiche e della capacità di stare al passo con gli altri; che per chi non supera i test si facciano classi apposite; e che comunque nelle classi, se proprio ce ne devono essere di miste, ci sia un equilibrio numerico tra italiani e stranieri (ma come, per esempio a Prato?). Non siamo, certo, alla cacciata degli ebrei dalle scuole del regno, ma la regressione culturale e civile del paese è evidente quando ad imboccare una strada così pericolosa è il Parlamento, non un qualsiasi consiglio comunale di provincia.
Chissà se il capogruppo leghista alla Camera, l’onorevole Cota, sa che non è la prima volta che in Italia si fa l’azzardo delle classi differenziate. Successe nel 1962, quando la scuola media divenne “unica”: e anche allora fu per mettere a tacere quelli che paventavano l’ingresso nell’ex ginnasio dei barbari che avrebbero certamente abbassato il livello dell’istruzione, ostacolato lo svolgimento dei programmi, danneggiato gli altri. Anche allora il problema era la lingua ma i barbari ignoranti, anche loro migranti, erano i siciliani, i calabresi, i sardi, gli ostinatamente “dialettofoni” veneti approdati a Milano e Torino: e il poco italiano, quello dei figli dei poco alfabetizzati di ogni parte del paese, dal Nord al Sud. Le classi “di aggiornamento” ebbero però vita breve perché presto si capì che le discriminazioni mortificavano e basta, che mettere insieme tutti i disagi li cristallizzava e li inaspriva, che era sbagliato che nelle classi più difficili finissero immancabilmente (perchè il lavoro pubblico ha avuto regole nefaste anche prima del '68) gli insegnanti più giovani e meno esperti. Che costava troppo e che era meglio impegnare le risorse per politiche capaci di aggredire i problemi. Ma la parte migliore del paese e degli insegnanti finì soprattutto col capire che il valore della scuola – che non può essere l’ospedale che cura i sani e respinge i malati – è proprio nella capacità di far crescere insieme persone di diversi ambienti sociali e culturali, che in questo c’è un vantaggio per tutti e non solo per i più deboli, e che quello che serve è un insegnamento attento e professionale e una didattica adeguata a far venir fuori le capacità di ciascuno. Fu così che qualche anno dopo (e qui invece il 68 c’entra eccome) anche la politica , abbandonando classi differenziali e scuole speciali, introdusse – per la determinazione del ministro democristiano Falcucci – l’integrazione dei disabili, anche dei più deboli dal punto di vista cognitivo. Anche di loro, prima o poi, si tornerà a dire che rallentano i ritmi di apprendimento dei normodotati? O quello che conta in verità è solo il passaporto?
La vergogna della decisione del Parlamento non è solo nel suo tratto illiberale e regressivo, nel ricorso appena velato di politically correct agli strumenti della discriminazione. Colpisce anche la non cultura, intesa come ignoranza. Intanto di quello che le scuole riescono a fare, se appena ottengono qualche risorsa professionale ed economica in più, il sostegno degli Enti Locali, l’alleanza dei genitori, italiani e stranieri. Ci sono, numerosi nel Nord, istituti di assoluta eccellenza, dove le diversità delle storie e delle provenienze si risolve in ricchezza formativa, didattica flessibile e sofisticata, valorizzazione del plurilinguismo, approccio interculturale, riflessione sul pregiudizio: non disertati, ma richiesti dagli italiani. E il problema, dunque, è piuttosto come trasferire nei contesti più arretrati la qualità organizzativa e professionale di quelli più esperti, e come dotare l’intero sistema educativo degli strumenti che via via servono, mediatori linguistico-culturali compresi (un traguardo a cui nessun ministro degli ultimi venti anni si è dedicato con impegno). Ma l’ignoranza peggiore, che viene dall’oscuramento ideologico e dalle ossessioni securitarie, è anche delle articolazioni ed evoluzioni dell’immigrazione. Ed è qui, quando si presumono immodificabili le culture, le caratteristiche, i deficit che si generano xenofobie e razzismi. Politici e media non sembrano granché interessati ai dati reali, alle statistiche, agli studi degli esperti, almeno in questo campo. E quindi spesso non vogliono sapere che gli studenti di origine straniera non sono sempre un problema difficile, o che magari lo sono ma talora per motivi diversi da quelli comunemente rappresentati, per esempio lo straniamento, il sentirsi insieme italiani e stranieri di tanti adolescenti, la fatica di certe relazioni, il sospetto e la paura di sguardi ostili. La competenza linguistica è questione seria per i “minori ricongiunti” che arrivano in Italia già ragazzi e senza una parola di italiano. Ma sono relativamente pochi (40-50.000 l’anno) rispetto a quelli che arrivano prima dell’età scolare o che nascono in Italia, questi ultimi invece in rapidissima crescita come accertato dall'Istat. I primi hanno in effetti bisogno di “allineamenti” linguistici, che numerose scuole hanno sapientemente inventato con provvisori e variabili dentro/fuori dalle classi utili spesso anche per i nostri, e che dovrebbero essere rafforzati con percorsi aggiuntivi, anche nei giorni festivi e nelle vacanze, organizzati dalle scuole stesse e da altri soggetti. Si fa così in Europa, e lo si fa usando tra l’altro la televisione, anche per le mamme che in casa parlano solo altre lingue. Per gli altri, quelli che sono qui da piccolissimi, l’apprendimento linguistico c’è prima dell’elementare, con i coetanei italiani del nido e della scuola per l’infanzia. Una lingua magari non corretta e ricca come nelle famiglie italiane più colte, ma sufficiente per il primo ingresso a scuola. Il plurilinguismo, inoltre – e noi italiani lo sappiamo bene - dà sempre una marcia in più. Dice qualcosa, su tutto ciò, che il 72% dei bambini stranieri nelle scuole per l’infanzia sia nato in Italia (o suggerisce di sottoporre anche loro, a tre anni, ad appositi test)? E che la quota delle seconde generazioni diventerà presto maggioritaria, come prevede la Fondazione Agnelli? E’ un dato importante, inoltre, che sebbene il 51% degli allievi di origine straniera sia oggi nella elementare, da qualche anno stiano crescendo gli iscritti alla secondaria superiore, in particolare in quei tecnici e professionali così importanti per le imprese, e disertati invece dai nostri spensierati liceali. Una realtà in movimento, fatta anche di figli di muratori e badanti diplomati e laureati, disposti – se appena possono – ad investire anche loro nell’istruzione lunga. Pagano spesso, è vero, lo scotto dell’immigrazione e di valutazioni riferite alla lingua di Manzoni, con ritardi e bocciature più alte della media, ma sono anche più determinati ad utilizzare l’istruzione come strumento di riscatto e di mobilità sociale. Sarà questo, prima o poi, ad inquietarci, la propensione alla matematica e all’informatica degli asiatici, alle lingue straniere degli europei dell’est, alla multimedialità dei latino-americani, alle competenze tecniche dei maghrebini. E dovranno inquietarci le reazioni alle mortificazioni e alle delusioni, se non saremo capaci, nella scuola e altrove, di evitarle. Ma non siamo, al momento, così lungimiranti. E non lo è Gelmini, quando nel suo “piano programmatico” decide di tagliar via dalle scuole di educazione degli adulti proprio i corsi con cui circa 200.000 stranieri ogni anno imparano l’italiano, l’informatica, il funzionamento delle nostre istituzioni, e anche altre lingue. Si può capire la destra, ma non la stupidità.
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