Un caso di cronaca costringe Gelmini a riaffermare l'ovvio: tutti hanno diritto all'istruzione, a prescindere dal permesso di soggiorno. Ma tanti altri rischiano, tra i 600.000 ragazzi stranieri nelle nostre scuole: principali vittime della nuova regola che impone il 6 in tutte le materie per superare l'anno ed essere ammessi agli esami di Stato
Ottima cosa il clamore suscitato dal caso della studentessa ucraina di Napoli che qualcuno pensava di poter escludere dalle prove di maturità perché senza permesso di soggiorno. Il ministro Gelmini è stata costretta a precisare che tutti i ragazzi di provenienza straniera “presenti" nel territorio nazionale, indipendentemente dalla regolarità o meno della “posizione di soggiorno”, hanno diritto all’istruzione e ai relativi titoli di studio. Lo dice la legge, precisamente il Testo Unico sull’immigrazione, articolo 45, e questo dovrebbe mettere finalmente tranquilli quei dirigenti scolastici, e chissà chi altro nelle scuole e nella burocrazia scolastica, diventati improvvisamente più realisti del re. Ma in quest’ennesima bolla, sgonfiatasi per fortuna tanto rapidamente, c’è del buono anche da un altro punto di vista. Perché la storia di Daria, che ha raggiunto quattro anni fa i genitori , che conosce sei lingue e ha già un diploma che da noi non vale niente e che per questo ha frequentato – con ottimi risultati nonostante un contestuale impegno lavorativo – una delle nostre scuole per potersi iscrivere all’ università, è di quelle che sarebbe utile tenere a mente. Non perché sia eccezionale o viceversa emblematica, ma solo per avere un’idea più accorta di che cosa possa esserci dietro la definizione di “irregolare”, e di quanto sia al limite del grottesco quell’ identificazione tra irregolari e clandestini che piace così tanto a tanti dei nostri politici e che è purtroppo entrata nel linguaggio comune.
Non sono però solo di questo tipo i rischi che corrono gli studenti stranieri – ormai più di 600.000 – iscritti nel nostro sistema scolastico. Guardiamo, per esempio, all’impatto che potrebbero avere, sopratutto nelle scuole più pressate da un’opinione pubblica ostile, le nuove regole sulla valutazione degli apprendimenti. Regole che non solo hanno reintrodotto nella scuola di base i voti numerici ma che impongono anche il criterio assurdo del 6 in ogni disciplina per essere promossi da una classe all’altra e per essere ammessi agli esami di stato. Una forzatura ideologica la prima (chi non ricorda la discesa in campo addirittura di Tremonti contro quella scala di giudizi, in vigore senza problemi da una ventina d’anni ma certamente sessantottina e forse anche comunista, che andava dall’insufficiente all’ottimo passando per il sufficiente, il buono, il distinto?). Ma una decisione foriera di molti guai la seconda, se le scuole dovessero allinearvisi supinamente. Si vuole forse, in una scuola che già perde per strada un ragazzo su cinque, far crescere enormemente le bocciature e gli abbandoni, i costi economici del sistema scolastico e delle famiglie, la demotivazione degli studenti costretti, magari per una sola insufficienza, a studiare una seconda volta materie in cui hanno già raggiunto risultati di buon livello? Non è così che si restituisce serietà alla formazione scolastica e che si costruisce una valutazione trasparente dei risultati, tutto ciò serve solo a guardare al dito piuttosto che alla luna, e forse anche a destabilizzare ulteriormente le scuole replicando per l’ennesima volta la distanza dis-educativa, e tipicamente italiana, tra i fatti e le “grida”.
Ma tra i tanti incapaci, anche a sinistra, di sottrarsi al fascino pericoloso delle semplificazioni in nome del binomio legge-ordine, non c’è finora quasi nessuno che abbia messo in evidenza come tutto ciò metta a maggior rischio il successo scolastico degli studenti di provenienza straniera. Non ci vuole niente, infatti, a rallentare e scoraggiare i loro percorsi scolastici . A questo punto basta e avanza un cinque in italiano, risultato fin troppo scontato per i cosidetti N.A.I – i nuovi arrivati in Italia , i minori ricongiunti approdati da poco nella nostra scuola. Non sono tanti, circa 40-45.000 l’anno, ma ci sono. E con loro ci sono anche molti altri che, sebbene sempre più spesso nati in Italia, hanno talora bisogno dell’intero percorso scolastico per arrivare a padroneggiare le competenze linguistiche che servono a proseguire gli studi, sopratutto se in casa si parlano altre lingue. Problemi notissimi alle scuole e ai tanti docenti impegnati nell’insegnamento dell’italiano come "lingua 2". Ma anche alla pubblica istruzione che non a caso finanzia progetti di rafforzamento dell’insegnamento linguistico per i ragazzi non italofoni e che, nelle prime bozze del nuovo regolamento sulla valutazione approvato poi alla fine di maggio dal consiglio dei ministri, scriveva infatti che per loro, per quelli entrati da poco nelle nostre aule scolastiche, la valutazione deve tener conto dei progressi rispetto alla situazione di partenza, del potenziale conoscitivo, dell’impegno. Un’indicazione in verità piuttosto diversa, e assai più blanda , di quelle in uso in altri paesi europei in cui si arriva a sospendere per uno o due anni la valutazione formale della lingua del paese di accoglienza, valorizzando invece i risultati in matematica, informatica, scienze, disegno, musica, tecnologie, lingue straniere , attività di laboratorio, in tutte quelle discipline insomma in cui l’apprendimento è meno o per niente condizionato dalle competenze linguistiche. Ma un’indicazione comunque utile, o quantomeno un appiglio utilizzabile nei contesti più problematici. Che però è stranamente sparita nel testo definitivo del regolamento che, senza più citare i non italofoni, afferma invece che le modalità di valutazione per i ragazzi che non hanno cittadinanza italiana sono le stesse di quelle degli italiani. Che cosa bisogna pensare? Che quell’indicazione sia sparita perché qualche ministro, in linea con l’idea perversa secondo cui non dovrebbe essere accolto in Italia se non chi conosce già la lingua , e magari anche la cultura italiana, ne ha chiesto e ottenuto la cancellazione? O perché qualche altro preferirebbe che i ragazzi stranieri, in quanto destinati ai lavori peggiori, venissero scoraggiati dal proseguimento oltre la scuola media? O perché il consiglio dei ministri, memore della mozione dell’onorevole Cota sulle classi separate, ha ritenuto troppo indulgente e buonista adattare didattica e valutazione ai nuovi studenti? Di sicuro dev’essere successo che Gelmini, forse per ignoranza, sicuramente per la sua solita accondiscendenza a chi conta davvero, non ha difeso quello che le avevano preparato i suoi funzionari . Una scelta molto grave perché, come riportato anche nella recente relazione di Draghi, già oggi gli studenti stranieri pagano duramente, con ritardi scolastici molto più consistenti di quelli dei ragazzi italiani – e in crescendo man mano che si sale verso i gradi più alti di istruzione – le loro ovvie difficoltà linguistiche. E che principalmente per questo, in una scuola arretrata anche per il persistente monopolio della lingua scritta e del libro di testo , si addensano dopo la scuola media per lo più negli indirizzi di tipo professionale anche quando avrebbero tutti i numeri per affrontare percorsi di studio culturalmente più impegnativi e professionalmente più promettenti. Quando pure non finiscano con l’abbandonare precocemente gli studi, scoraggiati oltre che dal bisogno di lavorare presto anche dai ripetuti inciampi scolastici. Un insieme di difficoltà che un paese lungimirante dovrebbe finalmente affrontare con decisione, anche con interventi di formazione linguistica dei genitori, con un uso intelligente della televisione, e con le iniziative che in altri paesi valorizzano invece che punire il bilinguismo. L’abc delle politiche per l’integrazione, l’inclusione, la cittadinanza. L’abc di una didattica che fa eguaglianza solo quando è capace di declinarsi sulle differenze. Ma tutto ciò al momento, sembra essere troppo generoso e intelligente per chi ci governa.
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