L’Italia investe nel «pacchetto conoscenza» il 5,4% del Pil. Contro il 7,5% circa di Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone, o addirittura il 10% circa di Stati Uniti, Corea e Svezia. In questo contesto, ecco le grandi linee della politica per la ricerca scientifica del governo
Mentre il ministro competente, Mariastella Gelmini, se ne resta silente – come rileva in un editoriale la più diffusa e più prestigiosa rivista scientifica al mondo, l’inglese Nature – in pochi mesi il nuovo governo Berlusconi, attraverso soprattutto il ministro per l’economia Giulio Tremonti e il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, ha delineato la sua politica per la ricerca scientifica in Italia. Con decisioni importanti sia di natura congiunturale, sia di prospettiva strategica.
La decisione di cui si parla di più in questi giorni riguarda il blocco della procedura di stabilizzazione dei precari negli Enti pubblici di ricerca (Epr) voluto dal ministro Brunetta. Il blocco impedirà ad almeno 2.637 su 4523 “stabilizzandi” – ovvero ricercatori con contratto a tempo determinato ma con titoli già maturati per l’assunzione definitiva – non solo di avere contratto a tempo indeterminato, ma di poter continuare a lavorare nel mondo della ricerca pubblica. Chi non sarà “stabilizzato” sarà, di fatto, cacciato via. Così, in un colpo solo, gli Enti pubblici di ricerca perdono la componente più giovane (e spesso più attiva) del proprio personale e il paese rinuncia a quasi il 4% delle sue risorse umane nella ricerca, mentre il tutto il mondo l’universo dei ricercatori tende a crescere. In realtà il danno sarà ancora più grande. Perché il blocco voluto da Brunetta toglie la speranza di un lavoro stabile da decine di migliaia di altri precari (circa 50.000), creando le premesse per una fuga di massa dei giovani dalla ricerca scientifica in Italia. Paradossale. Perché la nostra comunità scientifica soffre di due mali strutturali: è piccola (in termini assoluti e in termini relativi) rispetto a quelle degli altri paesi europei ed è vecchia: l’età media dei ricercatori italiani è infatti molto elevata, tanto che tra pochi anni avremo un autentico “picco” di pensionamenti. Espellendo tanti giovani, l’intervento di Brunetta ottiene il duplice e ben poco desiderabile effetto di far dimagrire ulteriormente la nostra già magra comunità scientifica e di impedire il ricambio generazionale. In poche parole: intorno al 2015 avremo un numero elevatissimo di ricercatori che andranno in pensione e non avremo chi è in grado di prenderne il posto.
Una secondo grappolo di decisioni prese dal governo Berlusconi riguarda il taglio dei fondi alle università, il blocco quasi totale del turn-over e le garanzie a tutela del sistema finanziario. Nei prossimi 5 anni gli atenei italiani dovranno rinunciare complessivamente a ben 4 miliardi di euro. E potranno sostituire solo un ricercatore su cinque tra quelli che andranno in pensione. Il che significa che ci saranno meno risorse a disposizione, materiali e umane, sia per la didattica che per la ricerca. Con il rischio di ulteriori tagli, visto che il governo ha posto i fondi per l’università e la ricerca tra quelli utilizzabili per coprire le eventuali perdite del sistema bancario.
Una terza decisione – in apparenza minore, ma in realtà pericolosa per l’autonomia della comunità scientifica – ha riguardato il commissariamento dell’Agenzia spaziale italiana (Asi). Il governo Berlusconi ha mandato via – senza giustificazione – uno scienziato di fama internazionale, Giovanni Bignami, da poco nominato presidente con il metodo del search committee (scelta del Ministro in una rosa di tre nomi indicati dalla comunità scientifica), dando l’impressione di voler riassumere – come ai tempi di Letizia Moratti – il controllo politico pieno delle strutture pubbliche di ricerca e di sviluppo tecnologico. Un’impressione corroborata dall’approvazione su proposta della Lega, lo scorso 7 ottobre, presso la X Commissione della camera dei Deputati, di un emendamento al decreto governativo «Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia» con cui – senza alcuna discussione e senza alcuna indicazione di prospettiva – viene soppressa l'Enea (l’Ente per le nuove tecnologie,
l'energia e l'ambiente) e costituita l’Enes (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile). Le risorse finanziarie, strumentali e di personale dell'Enea passano all'Enes. In nessun paese al mondo una struttura di ricerca viene chiusa o creata in pochi minuti in Parlamento, senza alcuna valutazione di merito e senza aver almeno ascoltato la comunità scientifica.
Insomma, finora il messaggio del nuovo governo è chiaro: la ricerca pubblica italiana va ridimensionata nei fondi, nelle risorse umane e nell’autonomia dalla politica.
In realtà c’è di più. Ci sono scelte di carattere strategico, sia pure solamente abbozzate. C’è per esempio l’indicazione, contenuta nella legge 133/08, che le università possano trasformarsi in fondazioni. Diventare, cioè, soggetti di diritto privato che cercano sul mercato le risorse per vivere e svilupparsi. A volerla prendere sul serio, questa norma rappresenta una svolta epocale: la conoscenza acquisibile mediante l’educazione terziaria cessa di essere in linea di principio un bene pubblico e diventa un bene di mercato, accessibile in maniera privilegiata ai più ricchi. Soprattutto in un paese dove gli attori economici privati disponibili a investire nella conoscenza sono pochi e le tutele a favore del merito del tutto mancanti. A volerla prendere come l’hanno presa i rettori, la norma sembra preludere a ulteriori tagli strutturali della risorse pubbliche a favore delle università.
In ogni caso è chiaro che la politica della ricerca del governo Berlusconi accelera il cammino nella direzione opposta a quella indicata dall’Unione europea nel 2000 a Lisbona (l’Europa leader dell’economia della conoscenza) e ribadita nel marzo 2002 a Barcellona (investimenti in ricerca pari ad almeno il 3% del Pil entro il 2010). Quasi tutti i paesi europei sono lontani dalla soglia di Barcellona: la media europea è ora attestata all’1,8%. Ma nessuno – tranne l’Italia – sta diminuendo i suoi investimenti, pur essendo in coda al convoglio (l’Italia investe l’1,0% del Pil in ricerca).
L’economia della conoscenza può essere interpretata (e praticata) in molti modi. In una lettura puramente neoliberista accentua le insostenibilità sociali, perché la conoscenza diventa un nuovo fattore di esclusione sociale. Tuttavia è difficile immaginare un’economia sostenibile sia da un punto di vista sociale sia da un punto di vista ambientale senza conoscenza. Sappiamo, per esempio, che le imprese che producono beni a più alto valore di conoscenza aggiunto retribuiscono meglio i propri lavoratori. E che i paesi più all’avanguardia nella difesa dell’ambiente, sono anche i paesi che investono di più nelle nuove tecnologie amiche dell’ambiente.
Anche in una prospettiva di decrescita serena, la conoscenza ha un valore decisivo: senza lo sviluppo della conoscenza come bene pubblico globale è difficile immaginare un processo sereno di riduzione dei consumi. D’altra parte non è un caso che i paesi europei in cui il sistema di welfare è rimasto più solido e le disuguaglianze sociali sono più contenute – per esempio nei paesi del nord dell’Europa – si è avuto uno sviluppo senza precedenti del «pacchetto conoscenza», ovvero degli investimenti in ricerca scientifica e in educazione (primaria, secondaria e terziaria). E neppure è un caso che l’Italia, col suo singolare sistema produttivo fondato su un «modello senza ricerca», sia il paese europeo che ha le maggiori difficoltà a rispettare gli impegni di Kyoto (riduzione delle emissioni di gas serra) e sia politicamente impegnato a svuotare di contenuto le necessarie politiche del «dopo Kyoto», a iniziare dalla politiche europee sintetizzate nel progetto 20-20-20 (20% di risparmio energetico, 20% di energia da fonti rinnovabili, 20% in meno di emissioni di gas serra) entro l’anno 2020.
Ebbene, secondo i dati dell’Ocse l’Italia (paese in cui la disuguaglianza sociale è aumentata più velocemente che altrove) investe nel «pacchetto conoscenza» il 5,4% del Pil. Contro il 7,5% circa di Francia, Germania, Gran Bretagna e Giappone, o addirittura il 10% circa di Stati Uniti, Corea e Svezia.
Gli altri – qualsiasi sia il loro modello economico – investono molto e tendono ad aumentare i loro investimenti in conoscenza. Noi investiamo poco e tendiamo a diminuire gli investimenti in conoscenza. Gli altri sono impegnati a costruire il futuro (alcuni in maniera più sostenibile, altri decisamente meno). Noi stiamo perdendo la possibilità stessa di costruire il futuro. A maggior ragione la possibilità di costruire un futuro sostenibile.
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