Gli Stati uniti sono ormai autonomi per il gas, ottenuto frantumando le rocce. Il prezzo è crollato e l’inquinamento moltiplicato. Anche l’Europa aspira a una simile magnifica devastazione
La notizia è il disaccoppiamento tra i prezzi del petrolio – e i prezzi del gas nei contratti a lungo termine tra vari paesi europei, in particolare l’Italia, e la Russia, vincolati a quelli del petrolio – e i prezzi del gas negli Stati uniti. Non si tratta di futures o di singoli contratti ma di valori medi del prezzo del gas realmente venduto. Non è una notizia nuova. La riporta l’annuario 2010 della Iea, su dati del 2009 che dà per gli Stati uniti tra i 4 e i 5 $ per Mbtu e per l’Europa 9 $ per Mbtu (cioè per milione di British thermal unit, per milione di unità di energia termica sviluppata). Si tratta di un dimezzamento del prezzo. Massimo Mucchetti, sul Corriere della Sera, ha citato il dimezzamento in un articolo polemico contro la cecità dei contratti a lungo termine stipulati a prezzi troppo alti alla vigilia della crisi e contro il moltiplicarsi di progetti di gasdotti per cui, complessivamente, non si vede una domanda, e forse neppure un’offerta, sufficiente di gas. In particolare non si vedrebbe una produzione sufficiente per il South Stream, caro al governo italiano.
Perché si è dimezzato il prezzo del gas negli Stati uniti, che in ogni caso non hanno metanodotti in funzione dalla Russia? Non solo perché la domanda di gas, per la crisi, è caduta e dovrebbe tornare ai livelli del 2007 solo l’anno prossimo (se non è vero che il 2008 è alle porte, come scrive De Cecco) ma anche perché gli Stati uniti hanno ricominciato a produrre gas, non sono più grandi importatori netti e potrebbero tornare a essere esportatori importanti, in particolare di Lng, di gas liquefatto. Non si tratta di mutamenti clamorosi. Tra il 2006 e il 2009 la produzione di gas negli Stati uniti passa da 524.295 milioni di mc a 593.667 milioni di mc, un aumento del 12% circa in 4 anni, che non sembra travolgente.
Lo shale gas
Ciò che rende l’aumento veramente importante è l’inversione della tendenza al declino insieme alla novità della tecnica di estrazione. Si tratta di shale gas, di gas contenuto in scisti porosi ma non permeabili, e perciò irrecuperabile semplicemente perforando un pozzo aperto alla profondità giusta, che però diventa recuperabile se si frattura la roccia con acqua ad alta pressione miscelata con additivi e sabbia, per mantenere aperte le fratture. La tecnica si chiama fracking. Perché sia efficace è necessario che il singolo pozzo non sia verticale per tutta la sua lunghezza, ma deviato da quando raggiunge lo strato mineralizzato, che ne segua per chilometri l’andamento, perché, per rendere recuperabile molto gas, bisogna fratturare molta roccia; che, sempre per lo stesso motivo, ci siano molti pozzi, meglio se convergenti in un singolo punto in superficie, per risparmiare sui gasdotti e concentrare gli impianti di separazione del gas dal liquido e dalla sabbia. Siamo molto lontani dagli enormi giacimenti sauditi – il più noto ara Gowar, grande come tutta la pianura padana, da Pinerolo all’Adriatico – di petrolio leggero, pulito, in rocce permeabili, il cui costo industriale era di qualche centesimo di dollaro al barile, sommando tutto. Ma di Gowar non se ne sono trovati più; si cerca su fondali marini profondi, in strati ancora più profondi, con i rischi che sappiamo. Perciò anche una tecnica macchinosa e costosa diventa interessante e può consentire di abbassare i prezzi; senza la rendita di un oligopolista come Gazprom, che recupera da rocce permeabili e incassa ora sulla previsione di aumento inevitabile futuro al crescere dei consumi e al ridursi delle riserve. Ma quanto ce n’è di shale gas e dove?
Se si cerca in rete si trovano milioni di voci divise tra siti delle associazioni dei produttori, riviste di ecologia (The ecologist, per esempio, Quale energia, ma anche National geographic, Scientific American ecc.), università, libri, articoli di giornale. La contrapposizione dei punti di vista è quella che si può immaginare. Una Survey of energy resources. Focus on shale gas 2010 dà per l’America del Nord 127,7 Tmc (terametricubi), cioè migliaia di miliardi di metri cubi. Per la Russia un po’ di più; per l’Europa un po’ più di un decimo dell’America, di cui metà in Polonia; per il Medio oriente e Africa del nord un quarto dell’America. Quantità da farci un pensierino, soprattutto se uno sta in Texas o vicino agli Appalachi. Ancora di più se uno possiede Gazprom, che ha già riserve enormi di gas da rocce permeabili. Ma a quali condizioni?
Il problema di Trino
Qualche decennio fa Altan disegnava una striscia sui problemi incontrati da Trino (Lui, Quello lassù, non Trino Vercellese) per liberarsi dagli escrementi al momento della creazione. Per liberarsi dai rifiuti aveva inventato l’erba, che però debordava ovunque; da cui l’invenzione delle mucche, per liberarsi dell’erba. Ma le mucche, gli comunicava, compunto e sconfortato, il suo capomastro, fanno cacche enormi! Per l’energia fossile, una volta usata quella facilmente accessibile, che dà l’illusione della assoluta facilità, della illimitata espansione, succede la stessa cosa. Ogni allargamento delle riserve discende da un aumento del prezzo, che rende convenienti tecniche di estrazione altrimenti antieconomiche, e da un maggiore consumo di energia. Questo è l’aspetto più preoccupante. Quando si parlava molto di shale oil, di olio di scisto, e non di shale gas, si leggeva che sarebbero stati necessari due barili di petrolio per produrne tre, triplicando di fatto il consumo di energia fossile, e l’inquinamento. Con lo shale gas non è proprio così, ma di rifiuti da smaltire ce ne sono molti. Proviamo a elencare.
Per fratturare la roccia ci vuole acqua. Quanta acqua? Centinaia di migliaia di metri cubi per pozzo. Bisogna immetterla ad alta pressione per un paio di mesi. Poi, se tutto è andato bene, si smette e si produce per un paio di anni. E l’acqua? In parte, forse due terzi, torna indietro col gas, ma piena di sabbia e salata. Da qualche parte bisogna buttarla. Non da dove la si è presa; salvo che non fosse già da un bacino salato in partenza.
Poi c’è la sabbia, che ha una sua perversa tendenza a fermarsi dove non dovrebbe – ad ogni ostacolo, rallentamento di flusso, occlusione – anziché andare virtuosamente a incunearsi nelle fratture mantenendole aperte e permeabili. Si rischia ad ogni momento l’infarto del pozzo; e il riflusso quando si mette il pozzo in produzione.
Più di tutto c’è il pericolo che la fatturazione liberi metano che anziché risalire virtuosamente per il pozzo, non più limitato dalla impermeabilità dell’argilla, se ne vada su per il terreno e, un po’ alla volta, trovi la strada per l’alto cielo azzurro. E qui le cose si mettono male perché se il metano bruciato inquina meno del carbone e del petrolio – è costituito da quattro atomi di idrogeno per ogni atomo di carbonio e l’idrogeno bruciando produce vapore d’acqua – il metano incombusto ha un effetto serra 100 (cento) volte quello dell’anidride carbonica. I disegni illustrativi nei siti dedicati mettono gli scisti virtuosamente in basso, sotto altri strati impermeabili che il metano non lo lasciano passare. Ma sarà sempre così? Molti autorevoli articoli sostengono di no. Nei posti popolati ci sono episodi di pozzi per l’acqua fatti esplodere dalla pressione del fracking; di acqua salata negli acquiferi da cui si attinge acqua potabile. Perciò mentre negli Stati uniti, soprattutto nei vecchi stati minerari e petroliferi, con molti impianti di perforazione inutilizzati per esaurimento dei giacimenti ordinari, e metanodotti fuori servizio pronti per essere riusati, ci sono migliaia di perforazioni in atto e implicati tutti i nomi arcinoti (BP, Exxon, Shell, Total) oltre a qualcuno nuovo (Marcellus, dal nome di un grande bacino) in Francia e Gran Bretagna tutto è fermo. Ci sono però trattative in corso tra Gran Bretagna e Norvegia, per non lasciar esaurire la grande risorsa del Mare del Nord. E si stanno muovendo le grandi compagnie in Polonia, che ha metà delle riserve europee, e potrebbe diventare un po’ meno dipendente dalla Russia e risparmiare un po’ del proprio solforosissimo e inquinantissimo carbone, che mette a dura prova il naso di chiunque attraversi la Slesia. Si tratta però di qualche pozzo, non di qualche migliaio. Si riparla, in molti siti, di Alaska, di Canada settentrionale. Insomma, come sempre, il morto si mangia il vivo. Di ecologia è bello parlare, ma, quando ci sono impianti e tubi già ammortizzati, pronti per il riuso, chi ha i soldi sa dove metterli. Forse le riserve realmente recuperabili sono minori di quelle proclamate, perché bisogna lodare la forza e la bellezza del nuovo cavallo, far capire a tutti che la modernità si è rimessa in moto, e qualche esagerazione non guasta, ma, almeno fino al prossimo disastro, le Sorelle sono di nuovo in cammino, sulla terra e sotto il mare.
Il carbone pulito
È un ossimoro. Lo si capisce a naso e lo afferma autorevolmente uno studio recente di Yale. È pubblicità. È come chiamare gratta e vinci un oggetto che, realisticamente, statisticamente, andrebbe chiamato paga e gratta. E infatti lo si fa. O come il Suv ecologico, il supersonico civile ecologico – perché consuma meno del Concorde. Mi sono messo a guardare clean coal per fare da contravveleno a shale gas. Anche nei siti che trattano di carbone pulito sembra che tutto il mondo passerà di lì. Si descrivono decine di tecniche di abbattimento della nocività e dell’inquinamento, le più avanzate delle quali userebbero per l’abbattimento degli inquinanti nei fumi il 40% dell’energia prodotta, cioè aumenterebbero il consumo reale di energia fossile del 40%. In effetti la tecnica che si usa davvero è l’abbattimento dello zolfo, per evitare che, con l’acido solforico e le conseguenti piogge acide, i dintorni delle centrali rassomiglino a Cernobyl. Ma questo non impedisce che rassomiglino a Taranto. Il mondo dell’informazione e della decisione politica sui grandi temi va per campagne pubblicitarie e pressioni dirette delle lobbies, sia nei paesi che le dichiarano e le regolano, come gli Stati uniti, sia in quelli che non le dichiarano e non le regolano, come l’Italia. È noto che più o meno un anno fa la Corte suprema degli Stati uniti, sbilanciata a destra dalle penultime nomine e non riequilibrata a sufficienza dalle ultime, ha dichiarato che la libertà di parola vale anche per le persone giuridiche. Perciò le grandi aziende possono spendere quello che vogliono per pubblicizzare e sostenere le scelte politiche a loro più favorevoli. Ronald Dworkin, che è un costituzionalista americano importante, ha sostenuto sulla New York Review of Books che questa decisone cancella la democrazia in America, perché aggiunge al potere finanziario il controllo sulle parole della politica. In Italia questa libertà esiste da sempre, ed è diventata totalitaria da una quindicina di anni. Non è su linee politiche che si discute ma su grandi opere da finanziare. Le opere prendono il sopravvento sul risultato. Si fanno gallerie senza una discussione di sistema; una stradale – il Frejus – proprio mentre si sostiene la necessità di una ferroviaria, che dovrebbe ridurre il traffico stradale. Si progettano e si fanno gasdotti e oleodotti senza un quadro d’insieme per minimizzare la spesa, l’impatto ambientale, senza contenere l’uso dell’energia allo stretto necessario, oltre a cercare energia rinnovabile. Chi ha soldi guadagna sull’opera e ha interesse a far restare il traffico caotico e sovrabbondante.
Perciò non si tratta di sognare un mondo bucolico, perfetto, ma di non pensare ai soldi che si fanno costruendo e consumando ma ai bisogni. Gallino ha scritto che lo Stato, che fa da debitore di ultima istanza, potrebbe ben essere il datore di lavoro di ultima istanza. Immagino che non pensi alle acciaierie ma alle scuole.
L’ombra del dubbio
È il titolo dell’ultimo libro, pubblicato postumo, di Renzo Tomatis, un grande medico torinese, che è stato anche presidente della Organizzazione mondiale della sanità. Uno dei racconti è la storia dello scontro, in America, tra la lobby del tabacco e quella dell’amianto, che travolge la vita di un professore di origine tedesca. Per sostenere la pericolosità anche dell’amianto bianco, oltre che dell’amianto blu, il professore ha usato la letteratura in tedesco degli anni trenta, la più autorevole del mondo. Non sarà un nazista? Si muove la macchina del fango. L’attenzione si sposta sulla vita dell’emigrato, adolescente in Germania ai tempi di Hitler. Perché non è andato via prima? L’amianto scompare dal dibattito.
La lobby dell’amianto, naturalmente, appoggia la guerra al tabacco. Un sistema informativo non può reggere tanti problemi tutti insieme. Se l’opinione pubblica si occupa di tabacco trascurerà l’amianto. E viceversa.
Avere cittadini informati, e professionisti competenti e indipendenti, è forse più importante del successo di singole misure ecologiche. Se le leggi le scrivono le lobby, nei dettagli tecnici, anche gli incentivi alle energie rinnovabili possono diventare micidiali. Come è un’atrocità la tecnica di calcolo delle tariffe autostradali, che sono una rendita monopolistica privata.
Non ne sappiamo abbastanza dei dettagli delle misure che il governo adotta e che diventano pubbliche, di fatto, solo al momento in cui vengono applicate. In campo ecologico come, forse più, che negli altri campi, Dio sta nei particolari.
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