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Disoccupazione, mancano le politiche attive

03/06/2015

Un tempo politiche attive significava investimenti pubblici e privati per creare nuove opportunità di lavoro. Oggi i lavoratori sono gli unici chiamati ad attuare processi di cambiamento

Chi ha dimestichezza con la situazione del Mezzogiorno e conosce la condizione dei disoccupati - giovani e non – è costretto con rabbia e impotenza a osservare il sistematico riemergere delle idee secondo cui i dati sulla disoccupazione sono sovrastimati e quindi poco attendibili per cui vanno rivisti i criteri di misurazione. Così come si deve assistere al riaffermarsi di posizioni secondo cui se i tassi di disoccupazione fossero realmente così alti dovrebbero necessariamente registrarsi fenomeni di rivolta sociale e non di acquiescenza come invece si registra puntualmente. Ergo la disoccupazione è meno pesante di quello che sembra.

Ma la storia da un lato – e il riferimento è soprattutto agli anni Trenta del Novecento – e dall’altro le ricerche condotte nei territori più sofferenti come il Mezzogiorno hanno invece sempre mostrato esattamente il contrario: che di falsa disoccupazione ce n’è poca, che lì dove non c’è il lavoro al chiaro, regolare, formale, non c’è quasi mai nemmeno quello al nero; che per quanto da adeguare i criteri per misurare la disoccupazione bene o male sono sempre stati sufficientemente attenti e in grado di rilevare il fenomeno (al limite lo sottostimavano) e che infine - come sanno bene gli psicologi e i sociologi del lavoro - ad una lunga disoccupazione corrisponde quasi sempre una autocolpevolizzazione dei soggetti, con conseguente apatia, raramente la rivolta sociale.

Oggi in Italia e in Europa, la disoccupazione – in particolare quella giovanile – sembra essere vista dai governanti come un problema solo quando si tratta di darne la colpa agli altri, ai presunti garantiti, agli ‘insiders’ che non darebbero spazio ai giovani e bloccherebbero lo stesso processo di sviluppo: tesi che è alla base del Jobs Act di Renzi. Comunque da vent’anni a questa parte (almeno dal 1997 anno d’avvio della Strategia Europea per l’Occupazione (Seo) e del cosiddetto processo di Lussemburgo) l’Europa si sta ponendo il problema di intervenire in maniera ‘concertata’ sulla disoccupazione: ma lo sta facendo con una ricetta e con una serie di sottintesi inquietanti che sembrano riportare appunto la storia agli inizi del Novecento. E le politiche del lavoro di cui siamo spettatori in questi tempi sono l’esempio più chiaro di questo atteggiamento. Lo strumento principe per combattere la disoccupazione oggi è infatti individuato nelle politiche di flessibilità del lavoro volte a ridurre le prerogative (cioè i diritti) dei cosiddetti insiders e comunque a tenerne fuori i giovani. C’è ancora un grande equivoco sulle ‘politiche del lavoro’, che nell’arco di qualche decennio sono passate dall’essere politiche destinate a incrementare l’occupazione a ‘politiche attive del lavoro’, o politiche di attivazione. Con uno spostamento sostantivo non da poco. Se i dati non sono falsi e sovrastimati – se si è costretti come ora ad ammettere che la disoccupazione cioè c’è davvero e che il lavoro davvero non si trova – allora il registro si sposta dalla predica moralistica (‘i bamboccioni’) al tema della inadeguatezza della offerta di lavoro.

E rispetto a quest’ultimo aspetto il riferimento più preoccupante è la questione nota agli addetti ai lavori come la scoperta dei cosiddetti Neet (not in education, employment or training). L’acronimo, diffuso ormai in tutta Europa, e utilizzato per la prima volta in Gran Bretagna nel 1999, si riferisce a giovani compresi fra i 15 e i 29 anni che non lavorano, non studiano e non sono impegnati in alcuna attività di formazione.

La nuova categoria ha riscosso un notevole successo in ambienti scientifici e non, poiché è apparsa euristicamente utilissima e immediatamente in grado di fare luce sul fenomeno della disoccupazione giovanile. In realtà essa nasconde un bel po’ di ambiguità poiché non dice quasi nulla sul comportamento e la condizione di questi soggetti; non ci dice cioè se sono attivi o non attivi sul mercato del lavoro, non ci dice se quel lavoro che non hanno, lo stanno cercando o hanno smesso di cercarlo, da quanto tempo e con quanti tentativi falliti alle spalle hanno dovuto fare i conti e men che mai ci fornisce indicazioni sulla durata della loro disoccupazione, che come è noto, è una delle variabile che pesa di più nell’aggravamento delle condizioni di vita dei soggetti. Detto in altri termini così formulata questa categoria (che di nuovo non sembra avere proprio nulla) non ci racconta dell’esclusione sociale di quei giovani, delle loro passate esperienze lavorative e di ricerca, dei loro livelli di occupabilità, della loro propensione al lavoro, men che meno dei loro interessi e dei percorsi di istruzione e formazione avuti, ma individua una condizione di dipendenza e nullafacenza di cui quei giovani sembrano gli unici responsabili.

Quando le politiche attive sono nate (negli anni Quaranta nelle socialdemocrazie del nordeuropa) con quel termine si intendevano in primo luogo interventi di tipo macroeconomico di investimenti pubblici e di incentivazioni di quelli privati per la creazione di opportunità di lavoro (a cui si affiancavano però interventi sul versante dell’offerta di lavoro). Nel corso degli ultimi quindici anni gli interventi di politica attiva del lavoro si sono trasformati in un indirizzo di politica comunitaria in cui i lavoratori sono gli unici chiamati ad attuare processi di cambiamento (formazione e miglioramento della propria occupabilità o meglio di adeguamento all’impresa e alle sue esigenze. Il lavoro – la cui disponibilità è data comunque per scontata – è visto come un obiettivo cui i soggetti devono adattarsi indipendentemente dalla loro persona, dai loro bisogni, dai loro percorsi, in un processo di rimercificazione della forza lavoro che ha trovato pochi ostacoli. E il concetto di attivazione intorno a cui sono attualmente organizzati i programmi e le riforme del mercato del lavoro, non solo rimanda a quella sempre maggiore responsabilizzazione del lavoratore (che accentua il carattere punitivo del sistema), ma pare avere anche l’obiettivo di tornare a misurare il comportamento dei soggetti rispetto alla ricerca di occupazione. E questo è l’assunto di base del Jobs Act.

 

 

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