I posti di lavoro certi che si perdono nei settori tradizionali, quelli incerti che la spesa pubblica può attivare nei settori innovativi. Un bilancio ancora provvisorio
Nell’ambito della crisi in atto si stanno dispiegando nel mondo dei rilevanti processi di trasformazione economica e sociale. Nelle scorse settimane abbiamo ricordato a questo proposito l’espansione in atto degli investimenti cinesi all’estero nei settori delle materie prime e dell’energia ed, inoltre, il possibile profilarsi di una prospettiva di egemonia economica e finanziaria della Germania nei confronti dei paesi dell’Europa Centrale ed Orientale; oggi facciamo riferimento ad alcuni aspetti dei mutamenti in corso negli Usa.
Le notizie sull’economia statunitense, sui suoi livelli di disoccupazione, sulla situazione delle banche e delle assicurazioni, nonché su quella di diversi settori industriali, si fanno sempre più cupe di settimana in settimana. Abbiamo così appreso che nel mese di febbraio si sono persi altri 650 mila posti di lavoro e che il totale cumulato dallo scoppio della crisi ad oggi è di circa 4,4 milioni; la metà di essi sono svaniti negli ultimi tre-quattro mesi. Utilizzando i criteri standard di riferimento, il livello di disoccupazione ha raggiunto ormai nel paese l’8,1% della forza lavoro, mentre, adottando criteri più allargati –ad esempio, tenendo conto di quelle persone che cercano un’occupazione a tempo pieno, ma che ne trovano soltanto una a tempo parziale-, si può arrivare sin al 14,8%. Né le previsioni per i prossimi mesi sembrano più incoraggianti. Andrebbe poi anche considerato, in qualche modo, nel conto il grande numero di quelli che non possono cercare un lavoro perché sottoposti ad un qualche provvedimento di restrizione della libertà personale – si trattava di più di dieci milioni di persone ancora qualche anno fa.
Ma, a questo punto, la riduzione in cifre assolute dei posti di lavoro e contemporaneamente la rapidità del fenomeno spingono ad una riflessione più generale sulla situazione e le prospettive dell’occupazione nel paese.
La crisi in atto non appare simile a quelle manifestatisi in maniera ricorrente dal dopoguerra ad oggi; quando arrivavano le difficoltà congiunturali, certamente numerose nel tempo, di solito si licenziava un po’ di gente qua e la, poi, dopo un certo numero variabile di mesi, immancabilmente tornava la ripresa, il mercato ripartiva e le imprese riprendevano ad assumere magari gli stessi lavoratori di prima, se non, di frequente, qualcuno in più.
Ma questa volta probabilmente non sarà così; non ci si può illudere che le cose tornino come prima, sia sul terreno finanziario che su quello dell’economia reale. In specifico, le perdite così forti e contemporaneamente così rapide di posti di lavoro suggeriscono che è in atto in realtà un grande processo di ristrutturazione dell’economia (Goodman, Hesly, 2009). Si comincia ad avere la sensazione generale che interi comparti industriali e dei servizi, intere regioni, siano stati ormai cancellati dalla crisi e che altri lo saranno nei prossimi mesi; molte imprese che stanno chiudendo non riapriranno più, mentre diverse altre stanno semplicemente smantellando alcuni dei loro business. Alla fine, si avranno probabilmente nel paese meno fabbriche, meno negozi, meno cantieri edili, meno servizi finanziari, ecc. (Goodman, Hesly, 2009).
Prendiamo ad esempio il settore dell’auto. Sino a tempi molto recenti il mercato statunitense assorbiva intorno ai 16-17 milioni di vetture nuove ogni anno. Ora siamo intorno ai 9 milioni; probabilmente nei prossimi anni la situazione da questo punto di vista migliorerà, forse anche di parecchio, ma appare difficile che si torni ai livelli di prima. In particolare, il tempo medio che passa dall’ acquisto di una vettura a quello della successiva, storicamente molto ridotto nel paese, sta crescendo in misura rilevante.
La caduta dei livelli di occupazione nei vari settori
Vediamo quindi, a questo punto, con qualche dettaglio, il quadro della situazione di alcuni settori.
Per quanto riguarda l’area finanziaria, le cronache continuano ad essere piene delle notizie di chiusure di banche e di loro filiali ed uffici, con relativo ridimensionamento degli organici. Anche in questo caso, anche se si manifestasse in futuro una ripresa nel settore, appare difficile pensare che sarà necessario occupare lo stesso numero di persone che nel 2007. Gli specialisti di complicate strumentazioni finanziarie, di derivati complessi, di sofisticate cartolarizzazioni, di innovativi modelli quantitativi di gestione del rischio, non saranno presumibilmente più richiesti se non al massimo in una molto più modica quantità.
L’occupazione si dovrebbe ridimensionare anche nell’ambito dei più generali processi in atto di quella che ormai viene definita come deglobalizzazione finanziaria, fenomeno che rischia di caratterizzare fortemente i prossimi anni.
Così, molte grandi banche internazionali, da RBS, a Citigroup, a Ubs, a Boa, stanno riducendo il credito nei paesi stranieri (RGE monitor, 2009) e rimpatriando una parte dei loro capitali. La HSCB inglese sta chiudendo le sue attività negli Stati Uniti, mentre l’americana AIG, a sua volta, sta vendendo le sue attività in Asia. Inoltre, le istituzioni finanziarie statunitensi, come quelle di molti altri paesi, stanno licenziando a tutto spiano, preferibilmente i dipendenti di nazionalità estera –la stessa cosa sta avvenendo contemporaneamente a Londra-; è, tra l’altro, previsto dal piano Obama di salvataggio del sistema bancario che gli istituti che ricevono denaro pubblico non possano nella sostanza assumere quadri di altri paesi (Glater,2009). Intanto, comunque, gli specialisti statunitensi del settore, se non riescono a riciclarsi in altro modo, sono obbligati a cercare fortuna nelle poche aree del mondo ancora disponibili, i paesi petroliferi e la Cina; ma la domanda di esperti finanziari anglosassoni va scemando anche in quelle zone. In ogni caso, il sindaco di New York, Bloomberg, appare disperato per la situazione e con lui gli innumerevoli fornitori di servizi della città e dintorni, messi a terra anche dalla riduzione in atto del livello medio di remunerazione dei quadri dirigenti bancari. Intanto, i governi di diversi paesi stanno imponendo vincoli stringenti alle banche nazionali perché esse concentrino il flusso di risorse verso le imprese e i privati degli stessi paesi.
Per quanto riguarda il settore dell’auto noi non sappiamo certamente quale sarà la sorte delle tre grandi case del settore, anche se appare evidente che esse si trascinano di crisi in crisi da ormai troppi anni, mentre il loro eventuale fallimento non meraviglierebbe nessuno. Probabilmente, almeno la Crysler e la General Motors non sopravviveranno, almeno negli attuali assetti organizzativi e produttivi. Quello che comunque appare abbastanza certo è che, in ogni caso, si perderanno permanentemente molte centinaia di migliaia di posti di lavoro. Questo, in relazione alla già citata contrazione del mercato, all’operare del meccanismo dell’incremento della produttività nel settore - ogni anno essa cresce di circa il 3%-, al continuo calo delle quote dei produttori nazionali –quelli esteri, anche se hanno delle fabbriche negli Stati Uniti, mostrano comunque un contenuto di lavorazioni nel paese più ridotto-, alla tendenza al downsizing degli stessi modelli. Così, alla fine, tutti questi fenomeni contribuiranno a fare del settore un protagonista sempre meno importante del mercato del lavoro del paese.
Anche nel settore dell’edilizia, appare difficile che si torni ad un quadro di finanziamenti facili e, almeno in parte, a buon mercato, quali quelli prevalenti nell’ultimo decennio e che spingevano, quindi, in alto i livelli di attività e quelli dell’ occupazione. Anche in questo comparto appare molto difficile che si possano vedere di nuovo i livelli di occupazione precedenti; lo stesso ovviamente potrà accadere alle attività di subfornitura e di servizio al business. Si tratta probabilmente di milioni di posti di lavoro in gioco.
Il programma di Obama metterà forse in difficoltà altre attività, quale quella agricola, sino ad oggi sostenuta da grandi sussidi pubblici, che ora dovrebbero essere pesantemente ridimensionati. Così è, ad esempio, accaduto che poche decine di migliaia di coltivatori di cotone del paese abbiano tenuto per tanti anni in scacco, a causa degli elevati sussidi pubblici motivati dalla grande forza della lobby del settore, molti milioni di produttori di cotone in Africa ed in Asia.
C’è qualche comparto che invece in questo periodo è in pieno boom. Così Le Monde ci informa (Eudes, 2009) che il mercato delle armi individuali appare negli Stati Uniti in forte crescita. Da una parte, l’aumento nei livelli di disoccupazione fa temere a tanti americani che possa aumentare parallelamente anche la criminalità, mentre molti hanno anche paura che Obama nei prossimi mesi possa rendere più restrittiva la legislazione sull’acquisto delle stesse armi. Quindi molti corrono a rifornirsi in tempo e i profitti del settore vanno alle stelle.
Le prospettive nei settori nuovi
Il crollo dell’occupazione in diversi settori tradizionali avrebbe ovviamente bisogno di essere compensato dalla crescita in altri.
Non resta quindi, a questo punto, che sperare nei programmi di Obama per i comparti delle infrastrutture, della sanità, dell’energia verde. Ma anche in tali aree non manca peraltro qualche segno di difficoltà.
Il piano di Obama da 787 miliardi di dollari contiene degli stanziamenti per 56 miliardi dedicati al business dell’energia. Di questi, 38 miliardi rappresentano le spese dirette del governo nel settore e 18 miliardi, invece, le previste riduzioni fiscali, distribuite comunque su 10 anni. Per la verità, altre somme sono poi allocate in altri capitoli di spesa del budget federale appena preparato.
Ma tali pur imponenti stanziamenti si devono scontrare con il quadro attuale del settore, che non appare brillante a causa come al solito della situazione finanziaria del paese, che ha portato ad una forte riduzione del livello di credito, mentre anche le società di venture capital, gli hedge fund e altri tipi simili di strutture, hanno ridotto il loro impegno in relazione alle note difficoltà. Inoltre, pesa ovviamente sul fenomeno anche la forte riduzione del prezzo del petrolio e del gas. Così, il settore dell’energia verde, che negli anni 2006 e 2007 aveva registrato uno sviluppo degli investimenti del 60% all’anno (Lex, 2009), vede le previsioni per l’anno in corso puntare su di una crescita zero. Va anche considerato che alcune disposizioni contenute nei provvedimenti di Obama comportano dei problemi per i progetti che non sono già sostanzialmente pronti al decollo. Peseranno forse sulle difficoltà e sui ritardi anche la situazione di cronica carenza di personale del ministero del Tesoro Usa, del resto così caricato di compiti di recente.
Per quanto riguarda invece il comparto sanitario, che in astratto potrebbe fornire milioni di nuovi posti di lavoro, in questo caso il problema potrebbe essere quello dell’operare delle lobbies di Washington, che cercheranno certamente di bloccare o almeno di ridimensionare i progetti del governo.
Riuscirà alla fine il processo di distruzione creativa, questa volta peraltro con una forte spinta pubblica, ad operare con successo come in tanti altri casi in passato? Nessuno è oggi in grado di dirlo con ragionevoli livelli di sicurezza.
Testi di riferimento
-Eudes Y., Aux armes, citizens, Le Monde, 10 marzo 2009
-Glater J. D., A hiring bind for foreigners and banks, The New York Times, 9 marzo 2009
-Goodman P., Hesly J., Job losses hint at vast remaking of economy, The New York Times, 7 marzo 2009
-RGE Monitor’s newsletter, The Re-emergence of global protectionism: a newer version of Smoot-Hawley?, www.rgemonitor.com, 4 marzo 2009
-Lex, Clean Energy, The Financial Times, 6 marzo 2009
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