Lo scandalo dello scudo fiscale e il problema che c'è a monte: la piena libertà di movimento dei capitali è inconciliabile con la piena democrazia degli stati nazionali
La terza riedizione dello scudo fiscale ha sollevato una serie di obiezioni, molte delle quali del tutto fondate, di carattere etico, politico ed economico. Si tratta del premio rituale per i soliti (ig)noti che hanno esportato capitali all’estero mentre la stragrande maggioranza dei cittadini ha pagato tutte le sue tasse, facendo dell’Italia il paese Ocse con la più alta pressione fiscale effettiva (valutata, cioè, al netto del Pil sommerso). E’ un provvedimento tipicamente di corto respiro, destinato a generare (forse) gettito nel breve periodo, ma anche a ridurre la credibilità di qualsiasi minaccia di “caccia agli evasori” proveniente da questo governo che, per l’appunto, propone il terzo scudo fiscale in otto anni (i precedenti sono del 2001 e del 2003). E’, infine, il tradimento delle ripetute declaratorie secondo cui in questa legislatura non vi sarebbero stati condoni, probabilmente destinato ad aprire la strada ad un condono tutto nazionale, che verrà definito concordato preventivo di massa e che godrà, magari, di un consenso bipartisan (si veda, al proposito, la Relazione finale della Commissione Parlamentare sull’Anagrafe Tributaria, su cui il Partito Democratico si è astenuto).
Eppure, la questione va presumibilmente analizzata in una prospettiva diversa: quella della contraddizione, ormai insanabile, tra libertà di movimento dei capitali e assenza di armonizzazione fiscale tra i Paesi europei. Da quando, ormai 50 anni fa, fu istituita la Comunità Economica Europea e furono sanciti i principi di libertà di movimento dei capitali e di circolazione delle persone, il loro grado di attuazione è stato affatto diverso: gli ostacoli ai capitali sono stati progressivamente rimossi, in Europa e fuori da essa, mentre la libertà di circolazione delle persone è rimasta spesso sulla carta, sacrificata (ad esempio con le periodiche eccezioni all’applicazione del Trattato di Schengen) sull’altare delle politiche securitarie. I problemi posti dalla libera circolazione dei capitali, che è il vero tratto distintivo della globalizzazione, possono essere riassunti con una versione adattata del trilemma di Dani Rodrik, ovvero l’inconciliabilità di i) libertà degli stati nazionali; ii) salvaguardia degli aspetti fondamentali della democrazia; e, appunto, iii) libertà di movimento di capitali. La piena libertà di movimento dei capitali implica la limitazione della libertà degli stati nazionali (o meglio delle politiche adottabili dagli stati nazionali) che, costretti a competere sui mercati finanziari, devono adottare politiche monetarie e fiscali restrittive. Poiché queste politiche comportano un aumento della disoccupazione o della sottoccupazione, la riduzione del welfare state e l’incremento della povertà, non è possibile attuarle senza una limitazione di alcuni aspetti fondamentali della democrazia (secondo Rodrik, della mass politics). Lo scudo fiscale, con il suo carico di iniquità “inevitabile”, è un altro esempio di tradimento dei principi democratici e, nel caso italiano, costituzionali, di equità nella distribuzione del carico fiscale.
Con i vari scudi fiscali, l’Italia e gli altri Paesi che li hanno adottati (ad esempio la Germania) si illudono di riconquistare qualche grado di libertà nella definizione delle proprie politiche fiscali, venendo a cozzare, peraltro, con paradossi ineliminabili. Ad esempio, lo scudo italiano si acquisisce pagando un’aliquota scandalosamente bassa (il 5%) che però potrebbe essere financo troppo elevata a fronte del bassissimo rischio di conseguenze in caso di mancato utilizzo dello scudo stesso, stante la molteplicità di strumenti a disposizione per chi vuole occultare la fonte di provenienza delle proprie ricchezze. Ancora, il Governo ha accettato (pare, obtorto collo) di riproporre nello scudo, oltre alla possibilità del rimpatrio, quella della mera regolarizzazione dei capitali detenuti in Paesi Ue (tra cui spiccano il Lussemburgo, la Gran Bretagna e l’Olanda), nel qual caso non vi è neppure il beneficio dell’incremento di risorse disponibili per l’economia nazionale. Questa necessità è legata, ancora una volta, ai principi comunitari di libero stabilimento e di libera circolazione dei capitali. I rimedi nazionali, quindi, oltre a violare principi etici ed economici, sono destinati ad essere inefficaci e di corto respiro perché non affrontano il cuore del problema: l’assenza di un governo sovranazionale, e prima di tutto europeo, delle politiche economiche e, in particolare, di quelle fiscali.
L’accumularsi di ingenti capitali nei vari paradisi fiscali Ue ed extra Ue ha una sola ragione: i differenziali di regolamentazione e di aliquota tra i diversi Paesi. L’esportatore di capitali, da questo punto di vista, fa del mero arbitraggio fiscale: muove i capitali laddove il loro rendimento netto è superiore. Se credessimo ai modelli liberisti, questa esportazione di capitali incrementerebbe addirittura l’efficienza, posto che, secondo questi modelli, la spesa pubblica non è in grado di generare utilità ed è, anzi, una “bestia che va affamata”. Per nostra fortuna, ma anche a causa dei disastri cui questa corrente di pensiero ci ha portati, si tratta di concezioni ormai fuori tempo e fuori luogo. Ma dall’enfasi pro-regulation che anima l’opinione pubblica e i vertici internazionali di questi mesi è lecito attendersi ben altro rispetto ad una serie di scudi fiscali o di annunci di “strette” sui paradisi fiscali. E’ necessario che si ponga, una volta per tutte, l’esigenza di imporre dal basso il principio di maggioranza sulle questioni fiscali a livello europeo, e che questo principio sia utilizzato per adottare alcune semplici regole comuni, relative sia agli standard di informazione, sia ai livelli minimi di tassazione del risparmio sia, infine, allo scambio di informazioni automatico tra i Paesi Ue. Il “potere di ricatto” degli stati di piccola dimensione o di recente adesione è ai suoi minimi storici, stante la debolezza congiunturale di questi stati, che tanto avevano puntato sull’industria finanziaria. E’ quindi questo il momento di porre al primo posto in agenda la questione dell’armonizzazione fiscale nella tassazione del capitale finanziario. Solo in seguito, per necessaria coerenza, si potranno imporre standard simili, anche parzialmente, ai paradisi fiscali extra Ue (Svizzera in primis) che, dallo scudo fiscale in arrivo, saranno lambiti in misura prevedibilmente marginale.
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