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Dove va l'industria cinese che cambia

08/04/2015

Nella fabbrica del mondo gli insediamenti delle attività manifatturiere si stanno spostando sempre più dalle zone costiere alle regioni interne

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una forte crescita quantitativa a livello mondiale della produzione industriale; secondo uno studio recente, essa sarebbe ad esempio aumentata del 36% a prezzi costanti tra il 2000 e il 2013 (centro studi Confindustria, 2014). Parallelamente si è registrata una grande dislocazione dei centri più importanti sia a livello globale che regionale e nazionale.

Per quanto riguarda la dimensione globale indubbiamente il fenomeno più vistoso appare lo spostamento di quote crescenti dell’attività manifatturiera dai paesi sviluppati a quelli emergenti. Così la quota dell’Asia sul totale mondiale è passata da circa il 26,5% nel 1990 al 46,5% nel 2013 (The Economist, 2015, a), mentre si è particolarmente ridotta quella del nostro continente e, al suo interno, del nostro paese. La parte della Cina sul totale è passata dal 3% nel 1990 a quasi il 25% del 2013 (The Economist, 2015, b); per un’altra fonte, peraltro, la produzione industriale del paese era nello stesso anno pari al 30,3% di quella mondiale (centro studi Confindustria, 2014).

A livello di singoli continenti, anche in Europa abbiamo assistito a dei cambiamenti molto significativi. Così nell’anno della caduta del muro di Berlino, il francese Roger Brunet (Taylor, 2015), per descrivere la situazione dello sviluppo industriale rilevava la presenza di una megacity, approssimativamente a forma di banana, chiaramente visibile di notte dallo spazio; vi si individuava facilmente una banda di luce che curvava dall’Inghilterra all’Italia settentrionale attraverso l’Olanda, il Belgio, la Germania occidentale, mentre la Francia mostrava già una illuminazione concentrata sulla sola isola parigina e poco percepibile in altre regioni del paese.

Venticinque anni dopo la geografia industriale del continente appare notevolmente cambiata. Oggi il cuore industriale dell’Europa è rappresentabile come un pallone da football americano, forma ideale che va dalla Germania del Sud verso la Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca, l’Austria, la Romania. Tra l’altro, i paesi ex-comunisti sono stati così inglobati nelle linee di produzione tedesche (Taylor, 2015).

l’industria in Cina ed in Asia

Anche all’interno dei singoli paesi abbiamo assistito per molti versi a rilevanti cambiamenti.

Ad esempio nel nostro paese, come è noto, un processo di sviluppo industriale che era concentrato nel triangolo Milano-Torino-Genova ha dato il posto ad una maggiore diffusione territoriale. Così è diventato altrettanto, se non anche più centrale, l’asse Veneto-Emilia Romagna, con ulteriori propaggini nelle aree più vicine.

In Cina, mentre il decollo delle attività manifatturiere vedeva all’inizio una concentrazione delle localizzazioni industriali nelle zone costiere, si va ora assistendo ad una crescente corsa verso degli insediamenti nelle regioni interne.

Tale fenomeno va peraltro inquadrato in delle tendenze più vaste.

Con riferimento al paese ricordiamo intanto che tra il 2000 e il 2015 i salari medi sono aumentati, al netto dell’inflazione, di più di quattro volte, passando da circa 150 a circa 650 dollari, con un aumento medio annuale del 12% (The Economist, 2015, a). Per di più, nello stesso periodo, abbiamo assistito ad una molto marcata rivalutazione dello yuan, che nel caso del dollaro ha raggiunto il 40% circa nel giro di pochi anni.

Questi fenomeni avrebbero potuto avere come conseguenza una forte riduzione delle quote di mercato del settore industriale cinese sul totale mondiale ed una rilevante espansione nei fenomeni di delocalizzazione delle imprese locali ed anche di quelle occidentali verso i vicini paesi asiatici, nei quali il costo del lavoro appare molto più contenuto e i fenomeni valutari meno sfavorevoli. Così, ad esempio, nelle Filippine ancora oggi il costo delle retribuzioni si aggira intorno ai 150 dollari mensili, anche se va ricordato che anche in molti di tali paesi si va affacciando ora un loro incremento, che si colloca peraltro ancora oggi a livelli parecchio più ridotti che in Cina.

Invece quest’ultima non solo continua ad essere la fabbrica del mondo, ma le prospettive del rafforzamento del suo peso e di quello di molti paesi asiatici vicini sul totale appaiono del tutto plausibili.

In effetti in Cina vanno avanti da tempo delle spinte che tendono a contrastare in molti modi l’aumento del costo del lavoro e quello dello yuan.

Intanto assistiamo alla crescita di peso di produzioni più qualificate rispetto a quelle precedenti, produzioni che comportano una minore incidenza del costo del lavoro e comunque una minore sensibilità di prezzo; parallelamente, si verifica una crescita della catena delle subforniture interne a scapito di quelle estere. Oggi il 65% del contenuto delle merci che il paese vende al resto del mondo è prodotto in casa, contro solo il 40% a metà degli anni novanta del Novecento (The Economist, 2015, a). Attraendo una quota crescente della catena delle forniture, la Cina migliora fortemente la sua competitività industriale e attrae maggiori investimenti anche esterni.

Per altro verso, tra gli altri fattori di vantaggio del paese bisogna ricordare la presenza di infrastrutture molto avanzate e di una rete di fornitori imbattibile, oltre che di economie di scala impensabili altrove. Si pensi ad esempio, a questo proposito, che in una sola località del paese si concentra la produzione di almeno 10 miliardi di paia di calze all’anno. Più in generale gli stabilimenti cinesi sono molto efficienti e competitivi.

Va ricordato, a questo proposito, tra l’altro, che la produttività del lavoro è cresciuta dell’11% all’anno nel periodo 2007-2012 (fonte: McKinsey), anche se negli ultimi anni essa sembra rallentare un poco e che, per altro verso, gli investimenti in automazione sono ormai i più importanti al mondo. Queste tendenze dovrebbero anche contribuire a ridurre il peso negativo di un processo in atto di riduzione della disponibilità di forza lavoro nel paese.

D’altro canto, si va assistendo, come già accennato, ad uno spostamento di molti insediamenti industriali verso le regioni interne, meno sviluppate, aree nelle quali i salari sono più bassi e la manodopera, più vicina a casa, appare anche più stabile.

Per altro verso ciò che attrae gli investimenti esteri, che sono ancora sostenuti nel paese -i primi mesi del 2015 vedono una ulteriore rilevante crescita degli stessi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente-, è anche la presenza di un mercato interno molto vasto ed in forte incremento nel tempo; esso appare ormai il primo al mondo per moltissimi prodotti. Così mentre le grandi imprese internazionali stanno accrescendo i loro investimenti nel sud-est asiatico, la gran parte di esse restano comunque fedeli alla Cina (Peel, 2015).

Intanto si assiste, parallelamente, ad uno spostamento di una parte delle produzioni a più basso valore aggiunto e di quelle più inquinanti, come abbiamo anche ricordato per queste ultime in un altro articolo (Comito, 2015, a), verso i paesi del Sud Est asiatico, che hanno, tra l’altro, il grande vantaggio di essere vicini alla Cina.

Sempre più il cuore industriale del mondo tende a concentrarsi così tra la Cina e il Sud Est asiatico, due aree che per, altro verso, si vanno rafforzando reciprocamente, dando origine a quella che ormai qualcuno chiama “factory Asia”. Tale area sembra destinata a diventare, più in generale, il centro economico e finanziario del globo.

I legami con i paesi dell’Asean, in particolare, si vanno facendo più stretti; questi ultimi hanno, tra l’altro, firmato un trattato di libero scambio con la Cina, cosa che ha fatto anche la Corea del Sud e che si appresterebbe a fare persino il Giappone. Così il trattato per il commercio (TTP) sponsorizzato dagli Stati Uniti e che avrebbe dovuto servire ad isolare commercialmente la Cina, tende ad essere svuotato di almeno una parte del suo significato, a meno che, paradossalmente, non si lasci entrare nel gioco anche il Paese di Mezzo, ciò che però cambierebbe radicalmente gli obiettivi di partenza dello stesso.

Va nella stessa direzione di indebolimento del TTP anche il grande progetto della nuova via della seta, che dovrebbe coinvolgere un rilevante numero di paesi, compresi alcuni stati occidentali; anche questo nuovo punto di focalizzazione dello sviluppo cinese appare fortemente ostacolato dagli Stati Uniti, mentre su di esso si concentra il primo articolo di questa serie di testi sulla Cina (Comito, 2015, b).

Il rischio che si può intravedere dietro gli sviluppi sopra indicati è però quello che la forza industriale della Cina e del sud-est asiatico stia diventando ormai onnivora, impedendo, o almeno frenando, la crescita delle attività manifatturiere di aree come l’India, l’America Latina, l’Africa (The Economist, 2015, b), che ne avrebbero bisogno anche per sviluppare i livelli di occupazione, in delle realtà che vedono ancora una rilevante crescita della popolazione.

In particolare, il nuovo presidente indiano, in un paese la cui popolazione diventerà tra pochi anni la più importante del pianeta, punta molte delle sue carte su di un decollo nelle produzioni industriali, ma il suo obiettivo appare allo stato dei fatti molto difficile da realizzare. Solo un grande accordo economico con la Cina potrebbe forse, almeno per alcuni aspetti, sbloccare la situazione.

 


Testi citati nell’articolo

-Centro studi Confindustria, Scenari industriali, n. 5, giugno 2014

-Comito V., Le strategie ambientali della Cina, old.sbilanciamoci.info, 27 gennaio 2015, a

-Comito V., La Cina e il vecchio impero mongolo, old.sbilanciamoci.info, 17 marzo 2015, b

- Peel M., FDI flows to SE Asia are not at China’s expense, www.ft.com, 18 marzo 2015

-Taylor P., Continent redrafts map of industry, International New York Times, 17 marzo 2015

-The Economist, A tigthtening grip, 14 marzo 2015, a

-The Economist, Made in China?, 14 marzo 2015, b

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