Un americano su 8 mangia grazie al "food stamp". Le contraddizioni degli Stati tra necessità e difficoltà di intervento, l'emergenza del debito, le timidezze politiche
“…le preoccupazioni che Obama ha espresso diventano comprensibili se si suppone che egli stia traendo le sue opinioni, direttamente o indirettamente, da Wall Street…” (P. Krugman)
“…a meno che i governi spingano le banche a ristrutturare i 7000 miliardi di dollari di prestiti ad alto leverage (concessi alle imprese) che dovrebbero scadere entro il 2014, gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero dover affrontare presto il problema giapponese della crescita zero…” (G. Hands, in Arnold, 2009)
“…con un debito nazionale che raggiunge ora i 12 trilioni di dollari, la Casa Bianca stima che il costo di servizio del debito supererà i 700 miliardi di dollari all’anno nel 2019, contro i 200 miliardi di quest’anno, anche se i deficit annuali del budget si riducessero drasticamente. Altre previsioni affermano che la cifra potrebbe essere anche molto più alta…” (E. L. Andrews)
Premessa
L’anno sembra chiudersi, almeno sul fronte economico, con grandi problemi e contraddizioni, per quanto riguarda almeno i paesi sviluppati.
Forse il fatto simbolico che può colpire di più, a tale proposito, è il grande successo che sta conseguendo in questo momento, negli Stati Uniti, il programma di food stamp, un progetto governativo di sostegno alimentare alle famiglie disagiate, programma in atto da tempo, ma i cui numeri sono ora in forte crescita.
Come riferisce un articolo del New York Times (DeParle, Gebeloff, 2009), in questo periodo tale schema aiuta a mangiare tutti i giorni un americano su otto e addirittura un bambino su quattro ed in alcune aree, come quella delle città sul Mississipi, St. Louis, Memphis, New Orleans, i numeri sono parecchio più elevati e, tra l’altro, più della metà dei bambini dell’area riceve il sostegno. Bisogna poi ricordare che un sempre maggiore numero di cittadini statunitensi sta aderendo al programma in queste settimane e lo stanno facendo in particolare molte persone già appartenenti alla classe media. E questo nel paese più ricco e più potente del mondo.
Ma questa appare soltanto una delle rilevanti contraddizioni che stanno toccando in particolare, sul fronte economico e con la crisi in atto, i paesi occidentali. Ne elenchiamo di seguito alcune delle principali.
Gli Stati tra necessità e difficoltà di intervento
Appare palese il conflitto esistente, da un lato, tra la necessità di un continuo e accresciuto sostegno pubblico all’economia – che in questo momento si regge sostanzialmente sui soldi dei contribuenti- e, dall’altro, le grandi difficoltà legate al fenomeno e la spinta che si manifesta da più parti verso politiche di rientro.
Come, tra l’altro, afferma l’ILO (ILO, 2009) in un suo recente studio, le misure per contrastare la crisi economica non devono essere sospese, ma anzi esse devono essere prolungate, altrimenti circa 40 milioni di persone potrebbero perdere il loro posto di lavoro nel mondo.
Così, negli Stati Uniti, si è discusso a lungo del possibile varo di un nuovo programma di sostegno, vista l’insufficienza di quello in atto, mentre una parte importante dei parlamentari e dell’opinione pubblica appariva molto reticente al riguardo. Il livello presente del debito pubblico e quello che si configura per gli anni futuri –sino, almeno secondo alcune previsioni, forse troppo pessimistiche, possibilmente ad arrivare ad un rapporto debito-pil pari al 150-160% nel 2020 nel caso degli Stati Uniti e anche della Gran Bretagna, come stimano gli economisti della BNP Paribas-, con le loro possibili conseguenze a livello di blocco o riduzione della spesa pubblica, aumento del carico fiscale, inflazione, appaiono in effetti di difficile dirigibilità nel caso di economie per le quali è difficile prevedere nei prossimi anni alti tassi di sviluppo, che renderebbero tutto invece più facile.
Va peraltro ricordato che la crescente incidenza del debito pubblico sul pil nei paesi occidentali non è dovuta solo alle misure di salvataggio messe in atto, ma anche alla contrazione in valori assoluti dello stesso pil e alla parallela caduta delle entrate fiscali.
Ci si può incidentalmente chiedere, come fa ad esempio M. Wolf (Wolf, 2009), come mai le agenzie di rating, così sollecite di solito con i paesi deboli, non declassino il debito sovrano di Stati Uniti e Gran Bretagna, paesi che presentano già per il 2010 un deficit pubblico primario rispettivamente del 3,7% e del 7,8%.
Alla fine, comunque, il governo degli Stati Uniti ha deciso l’avvio di misure ulteriori di intervento senza prevedere nuovi stanziamenti, utilizzando una parte indeterminata dei fondi del programma Tarp, che erano a suo tempo stati stanziati sotto la presidenza Bush per il salvataggio delle banche; si è forzata così largamente la mano al legislatore.
In questo momento i governi dei paesi occidentali pagano tassi di interesse molto bassi sui prestiti; ma presto, accanto ai problemi relativi alla montagna di nuovi debiti che si stanno contraendo, in particolare poi alla necessità di rimborsare le ingenti somme che verranno a scadenza a breve termine, sta la minaccia del ritorno dei tassi di interesse a livelli normali (Andrew, 2009). Quello della potenzialmente forte crescita del carico di interessi è una drammatica minaccia che pesa sui bilanci di molti paesi occidentali.
Intanto, peraltro, anche il Giappone, spinto dallo stato di necessità, vara un secondo piano di rilancio che, considerando tutti i suoi risvolti, dovrebbe pesare per circa 185 miliardi di euro, dopo che il primo programma non era riuscito a contribuire in maniera adeguata a togliere l’arcipelago dalle spire della crisi. Il debito del paese dovrebbe presto, in ogni caso, superare il 200% del pil.
Nel frattempo, in Gran Bretagna i conservatori promettono, in caso di vittoria alle prossime elezioni politiche, di tagliare fortemente i deficit del bilancio pubblico!
Esigenze di capitalizzazione e di prudenza delle banche e esigenze di finanziamento dell’economia
Un altro problema riguarda l’andamento del settore bancario; è noto che la situazione dell’afflusso del credito all’economia non accenna a migliorare molto, negli Stati Uniti come in Europa, in particolare per quanto riguarda le piccole e medie imprese (Saft, 2009). La questione è da collegare, dal lato dell’offerta, ai rischi presenti ancora nel sistema economico, ma anche alla insufficiente capitalizzazione del sistema.
Si va discutendo da tempo se come ristrutturare il settore finanziario per evitare il ripetersi di nuove difficoltà e sostanzialmente in tutte le proposte si tende, tra l’altro, a sottolineare appunto la necessità di un rilevante aumento dei livelli dei mezzi propri degli istituti. Quasi nessuno, tranne le banche interessate, mette in discussione la necessità di una mossa di questo tipo. Gli stessi istituti affermano invece che il costo dei mezzi propri è troppo elevato e un loro aumento comporterebbe una lievitazione del prezzo del credito per le imprese; in effetti, finché le grandi banche pagano un tasso di interesse dell’1% sui prestiti che contraggono con l’aiuto delle banche centrali, esse non vogliono certo sentir parlare di fonti alternative di approvvigionamento (The Economist, 2009). D’altro canto, al momento in cui le banche centrali alzassero in maniera significativa il costo del denaro, potrebbero prodursi rilevanti problemi. Non vanno neanche sottaciute le difficoltà di trovare le risorse per i necessari aumenti di capitale, quindi anche per questa via un aumento del rapporto mezzi propri - debiti potrebbe contribuire a ridurre i livelli del credito concesso all’economia.
Vista la questione in altro modo, se le autorità monetarie prosciugassero troppo o troppo velocemente le enormi quantità di liquidità che hanno riversato sui mercati, rischierebbero di strozzare quel po’ di ripresa che si delinea all’orizzonte, nonché di spaventare gli investitori; se invece non lo facessero, o non lo facessero abbastanza presto, rischierebbero invece di creare una nuova bolla, già del resto in agguato (Gatinois, 2009).
Necessità e problemi di una possibile nuova regolamentazione del settore finanziario
L’intervento pubblico di sostegno al comparto finanziario per evitare il crack, che è stato così forte ed esteso ed ha raggiunto apparentemente lo scopo, avrebbe potuto essere anche il punto da cui partire, tra l’altro, per ripensare totalmente i sistemi di regolamentazione e di controllo del settore. Ma, almeno sino a questo momento, poco si è mosso su tale fronte e in queste settimane stiamo così assistendo al ritorno sul campo da padroni dei mercati e delle istituzioni finanziarie. Le famigerate agenzie di rating e le banche, dopo un momento di riserbo, hanno ricominciato a lanciare anatemi e minacce e a condizionare pesantemente i governi. E non si tratta soltanto del caso esemplare della Grecia e di Dubai. Dietro a tali paesi stanno in fila d’attesa per essere bastonati, per parlare soltanto dell’ Europa, Spagna, Portogallo, Irlanda, Islanda, Ungheria, almeno due dei paesi baltici, Italia, Gran Bretagna e forse abbiamo dimenticato qualche caso.
Sulla possibile nuova regolamentazione del settore finanziario si scontrano interessi differenti a livello geografico e anche tra le diverse correnti presenti all’interno delle classi dirigenti dei vari paesi. Nell’Unione Europea, così, è in corso da tempo un braccio di ferro, da una parte, tra i burocrati di Bruxelles, che hanno il supporto di paesi quali la Francia e la Germania e, dall’altra, le autorità britanniche, per quanto riguarda i poteri e le modalità di funzionamento dei nuovi organismi pan-europei che dovrebbero appunto sovraintendere al settore bancario, assicurativo, della borsa, nonché governare il rischio sistemico dei mercati. La Gran Bretagna vede nei progetti di riforma la minaccia che essi farebbero pesare sui destini della City e indirettamente quindi sulle sorti economiche del paese. A leggere la stampa britannica sembrerebbe, tra l’altro, che la Francia stia cercando di distruggere la piazza londinese. Il risultato di questi scontri è che, almeno sino a questo momento, lo schema di riforma messo in atto per cercare di accontentare tutti i paesi appare un pasticcio contorto e complicato, di difficile applicabilità e che serve poco alla bisogna.
Negli Stati Uniti, intanto, si assiste allo spettacolo di un governo Obama timoroso e sostanzialmente riverente nei confronti di Wall Street, che vede di nuovo come un bastione della forza economica e finanziaria statunitense e che appare quindi riluttante a cambiare in maniera significativa, pur di fronte alle pressanti richieste di una parte almeno dall’opinione pubblica e degli esperti più qualificati. Così il settore bancario Usa, come del resto la City londinese, porta avanti argomentazioni che mostrerebbero come più stringenti regolamentazioni del settore, nella direzione di ridurre le dimensioni delle grandi banche e/o aumentare i loro livelli di mezzi propri, o anche semplicemente di ridimensionare i livelli di remunerazione degli alti dirigenti del settore, porterebbero a una minore crescita dell’economia e a un più ridotto numero di posti di lavoro (Johnson, 2009).
Sullo sfondo sta forse in ambedue i casi, comunque, un problema reale; Stati Uniti e Gran Bretagna hanno ceduto negli ultimi decenni ai paesi emergenti, sia in alcuni casi per loro volontà – tramite i processi di outsourcing o gli accordi di joint-ventures-, sia in altri casi per forza – vinti sul fronte della competitività -, una parte consistente delle loro attività nel settore industriale, in quello commerciale, in quello agricolo. Quello finanziario è uno dei pochi settori in cui i due paesi presentino ancora un grande vantaggio competitivo. Essi riescono in effetti a fornire a tutt’oggi, tra l’altro, un servizio di riciclaggio dei capitali asiatici e latinoamericani verso i mercati dei paesi ricchi e da lì magari di nuovo, almeno in parte, verso le aree emergenti (Niada, 2009).
Va peraltro sottolineato (Tett, 2009) che, nel medio-lungo termine, seguendo la regola che dice che i banchieri seguono il denaro, una parte consistente di tale attività di riciclaggio dovrebbe venire a cessare, con lo sviluppo crescente dei mercati finanziari nei paesi emergenti –si veda già oggi la forza degli IPO in Asia, lo spostamento del quartier generale di una grande banca britannica a Hong Kong, le crescenti emissioni di capitale di grandi istituzioni finanziarie occidentali sempre sulle piazze dei paesi emergenti, ecc.-; questi trend non potranno presumibilmente che accrescersi nel tempo e la City in particolare dovrebbe quindi perdere inesorabilmente di peso nel mondo proprio per queste spinte macroeconomiche, più ed oltre che per una regolamentazione più stretta delle sue attività.
A questo punto, la contraddizione tra la necessità di governare la finanza e la difficoltà materiale di farlo sembra comunque difficilmente sanabile. Ci vorrebbe forse un grande accordo tra paesi sviluppati e paesi emergenti, che non si vede però in alcun modo all’orizzonte.
Conclusioni
Anche trascurando le contraddizioni in atto sul terreno economico e finanziario tra paesi ricchi e paesi emergenti, nonché tra paesi ricchi e paesi poveri, quelle presenti all’interno degli stessi stati occidentali appaiono molto complesse e di difficile soluzione. Il sentiero da percorrere appare in tale senso molto stretto e solo gli eventi dei prossimi mesi ci potranno indicare se esse saranno state affrontate in modo adeguato, sullo sfondo peraltro di una situazione più generale dell’economia molto incerta e confusa. Ma comunque la scarsa lungimiranza e il debole peso degli attuali gruppi dirigenti politici dei paesi occidentali non contribuiscono a fare ben sperare al riguardo.
Testi citati nell’articolo
- Andrew E. L., Wawe of debt payments facing U.S. government, www.nyt.com, 23 novembre 2009
- Arnold M., Hands warns governmentes on banks, www.ft.com, 18 novembre 2009
- DeParle J., Gebeloff R., Across U.S., food stamps use soars and stigma fades, www.nyt.com, 29 novembre 2009
- Gatinois C., Les banquiers centrales auront toujours tort, www.lemonde.fr, 5 dicembre 2009
- ILO, World of work report 2009, Ginevra, dicembre 2009
- Johnson S., Will increased capital requirements kill a recovery? Morgan Stanley wants you to think so, www.tnr.com, 25 novembre 2009
- Krugman P., The phanthom menace, www.nyt.com, 25 novembre 2009
- Niada M., La crisi di identità del capitalismo senza capitali, www.ilsole24ore.com, 6 dicembre 2009
- Saft J., banks show no signs of easing credit, www.nyt.com, 13 novembre 2009
- Tett G., Bankers will follow the money, www.ft.com, 10 dicembre 2009
- The Economist, Buffer warren, 29 ottobre 2009
- Wolf M., Give us fiscal austerity, but not quite yet, www.ft.com, 24 novembre 2009
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